I morti

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coronavirus

Da settimane il numero dei morti giornalieri rasenta, e talvolta supera, i picchi di quelli che furono i bui mesi tra fine inverno e primavera di quest’anno. L’impatto emotivo di quei giorni fu veicolato e amplificato da una battente campagna mediatica di immagini.

Oggi, i morti stanno rischiando di cadere drammaticamente nella dimenticanza di una rapida routine delle informazioni quotidiane, mentre la politica si azzuffa su vacanze e cenoni natalizi e la cittadinanza sembra essersi stufata di disciplina civile – con un ethos collettivo che non sa andare più in là del limite posto dalle sanzioni. Al massimo, i morti oggi servono per giustificarle e renderle retoricamente digeribili alla popolazione.

Anche i filosofi più vocianti della prima ora si sono dimenticati di essi, delle centinaia di morti che ogni giorno rendono umanamente più povero il nostro paese. Non che la Chiesa italiana stia brillando in merito, lasciando quasi in toto alla vita parrocchiale e alla fede quotidiana delle comunità di elaborare, ecclesialmente e civilmente, questo lutto prolungato che pare non finire mai.

Qui, nel mezzo della vita degli uomini e delle donne, si esercita in molti modi discreti una pietà religiosa per l’umano che ci lascia. Pietà che meriterebbe molto più che trovarsi risucchiata nell’irrilevanza di organizzare in orari debiti la celebrazione della veglia di Natale.

Ogni gesto di pietà comunitaria verso i morti rinsalda, invisibilmente ma in maniera estremamente concreta, quel legame sociale oggi abbandonato a se stesso e alla buona volontà dei singoli. A queste pratiche delle sue comunità di fede dovrebbe imparare ad attingere la Chiesa italiana e i suoi vescovi, per riapprendere il lessico minimo di una declinazione reale ed effettiva di un possibile senso a venire del suo esserci nella vita del paese.

Per strappare il morire quotidiano all’effimero di un sentire tanto immediato quanto immediatamente rimosso, onorandolo invece con quell’affetto per l’umano che si congeda da noi che sa piangere e fare lutto nel tempo – iniziando così a dare forma a piccole briciole di memoria che edificano, giorno dopo giorno, una comunione non solo affermata, ma anche effettivamente vissuta e sentita.

Ai nostri vescovi, in questi tempi, farebbe bene coltivare un legame maggiore con la vita delle loro parrocchie, rispettoso e discepolare, dove il lato drammatico del vivere umano è il pane della celebrazione quotidiana della fede nel Signore. In questa pietà comunitaria per i morti si costruisce, nelle lacrime e nella fatica del cuore, quella Chiesa di Gesù che essi dovrebbero servire e su cui non possono spadroneggiare a piacimento.

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