«L’idea di queste note di spiritualità quotidiana non mi è venuta a tavolino, tantomeno in una chiesa o durante un momento di preghiera. Mi è venuta, invece, in viaggio – tra un volo e l’altro, in attesa di aerei perennemente in ritardo, in quella Babele affascinante dell’umano che sono i nostri aeroporti di oggi. E poi in treno, nelle lunghe ore di viaggio, sulla linea sgangherata che unisce Flensburg, dove vivo, ad Amburgo, dove prendo l’aereo per i miei viaggi. Altra umanità, altre storie». Continua la rubrica Note di spiritualità quotidiana a firma di Marcello Neri, teologo e docente di teologia alla Europa-Universität di Flensburg.
Alzarsi, magari una rapida colazione, accompagnare il più piccolo a scuola, il lavoro, pausa pranzo quando i ritmi lo permettono, prendere il bus verso casa, racimolare un po’ di spesa per la cena, due rapide parole per dire della giornata, a tavola (tra stanchezza, preoccupazioni che si vorrebbe lasciare fuori dalla porta ma invadono anche la dimora più intima, lo smartphone che ci tiene online ovunque e in ogni momento), una doccia e poi a letto.
Il ritmo dei giorni, sempre quello, che ci viene dettato come qualcosa su cui non possiamo disporre, un tempo alieno eppure così singolarmente nostro. Tutto così uguale nella sua quotidiana ripetitività, con quella fretta che sembra essere il segno dei nostri tempi. Gesti, parole, sguardi, che iniziano come desiderio di cura e si sfilacciano in routine. Eppure rimangono, con tenacia, la soglia minima che travalichiamo ogni giorno per sporgerci di un pelo oltre noi stessi, per mettere su un mattoncino del tempo che verrà.
Nella logica perversa di un tempo che frulla a vuoto intorno a se stesso, riempiendo le nostre giornate di cose da fare, celebriamo il nostro quotidiano. Uno sguardo inatteso, il tono della voce che ridesta un legame antico, un complice silenzio goduto più di ogni valanga di parole. L’imponderabile che fa irruzione nelle forme minime, quasi irriconoscibili dal vortice che risucchia le nostre forze migliori. Eppure qui, insieme a noi. Per essere gustato, senza nostalgia, e lasciarsi godere per quello che è – imponderabile, appunto.
Più forte di ogni routine, più tenace della nostra stanchezza. Del tutto inevidente nel suo annidarsi propria in esse. Molte volte una sensazione che non lascia traccia, memoria, segno. Proprio per questo non l’occasione perduta, ma l’occasione sorprendente che, nella sua gratuità, non vuole essere altro che questo. Senza progetto, senza struttura, senza connessione, perché così è dell’imponderabile del momento che irrompe – fugace e sornione, oltre ogni disposizione che pensiamo di potergli organizzare attorno.
Riconsegnandoci così alla celebrazione quotidiana dei giorni, che sono cose da fare, impegni, vincoli da cui vorremmo fuggire, stanchezze che ci attanagliano dentro. La resistenza che opponiamo, anche solo flebilmente magari, è gesto di sorprendente bellezza e dignità. Andrebbe ammirata con stupore, ogni volta che fa capolino, e non denigrata per non essere di qualità (come troppo spesso accade nelle parole della Chiesa sull’umano vivere di oggi).
Nell’anonimo vivere del nostro tempo vi è un rivolo insondabile e innumerabile di questa fragile affermazione della nostra umanità. Forza sotterranea che tiene insieme giorni, persone, intere società. Dà il tono alla liturgia impazzita delle nostre giornate, le dà calore, una misura, apre un varco impercettibile nell’accumulo delle cose da fare che sono sempre sul punto di sommergerci.
Vita celebrata nella frenesia della vita stessa. Senza nulla che si debba aggiungere a ciò per renderla gradita (oramai non sappiamo neanche più bene a chi). Punto di innesto e luogo per ogni eventuale celebrazione religiosa. Perché è lì che l’imponderabile fa capolino non come prodotto, ma come sorpresa che si ritrae nella gratuità di essere solo il lampo di un momento.