Quando il primo respiro fece entrare un soffio d’aria, dilatando i polmoni del bambino Gesù, anche lui, come tutti i piccoli che vengono al mondo, emise un grido squillante come un suono di tromba. Gesù inizia a vivere gridando. È un urlo di gioia o di dolore?
Forse entrambe le cose. Nascere è un travaglio non solo per la madre, ma anche per il piccolo, che si trova catapultato fuori dalla tranquillità del grembo, in un mondo sconosciuto. Ma è anche un grido pieno di vita, segno che tutto va bene, che inizia il ritmo del respiro, aria che entra e che esce, fiato che tiene in buona salute un corpo.
Il bambino grida perché l’aria entra nei polmoni. Come il primo alito di vita, soffiato dal creatore, rende animato l’uomo fatto di terra, così il piccolo Gesù inizia a respirare con un grido, mosso dallo Spirito. Quel soffio dello Spirito non lo lascerà mai. Gesù sarà un uomo “ispirato”, che ascolta lo Spirito come si ispira l’aria nei polmoni. Lo Spirito lo condurrà nel deserto per lottare contro il male; e insieme, quello stesso respiro di Dio, lo farà sussultare di gioia – gridare ancora insomma – per la rivelazione del mistero della vita riservata ai piccoli e ai poveri (cf Mt 11). Un grido pieno di stupore!
Il primo grido con cui Gesù ha iniziato a respirare è solo l’inizio di una vita che irrompe, che affronta con coraggio il mondo, che combatte il male ed esulta di gioia per il bene. Lo Spirito ritma il respiro con cui accogliamo la vita e animiamo il mondo. Dal respiro nasce la parola, ispirando sentiamo il profumo del mondo e gustiamo il suo sapore.
Non solo l’inizio della vita di Gesù è segnato da un grido, ma anche la fine. Nasce gridando e muore gridando: forse a dirci che la morte per lui non sarà altro che una nuova nascita. Il grido di Gesù nella nascita inaugura il suo cammino sulla terra, il grido di Gesù sulla croce apre le porte del cielo, per rinascere a vita nuova nel seno del Padre.
Il seno di una donna
Dopo il primo grido, ci ha pensato Maria a calmare il piccolo Gesù. È bastato attaccarlo al seno perché potesse fare esperienza, sereno e felice, della sua prima poppata. Iniziava, in realtà, in questo modo, una straordinaria iniziazione a quella sapienza che passa dalla bocca, arriva allo stomaco e nutre l’intera vita. Mangiare è una scuola di vita. Si apprende una sapienza fatta di fame, di dono, di condivisione, di cucina, di profumi, di gusto, e di tutto quello che ruota attorno al cibo.
Sicuramente Giuseppe e Maria hanno istruito bene Gesù; l’uno facendo conoscere il pane che viene dal sudore di un lavoro faticoso; l’altra curando quel clima di cucina che fa casa, cura, attenzione, familiarità. E infatti Gesù sarebbe diventato un esperto in fatto di cibo. Sedeva volentieri a tavola con tutti – nobili e peccatori. Si preoccupava di nutrire le folle con pane e pesci.
Considerava puri e buoni tutti i cibi, senza distinzioni, perché non c’è nulla di impuro in quello che Dio – il Padre suo – ha creato. A tavola Gesù dava il meglio di sé, regalava le sue parole indimenticabili, accoglieva tutti coloro che attendevano un segno di bene. Anche le briciole che cadevano dalla sua tavola potevano bastare per alimentare la speranza di vita di una donna straniera.
Gesù conosceva bene la magia di mangiare e dialogare seduti attorno a un tavolo, quella che crea una vera familiarità e ci rende com-pagni, quelli che condividono insieme lo stesso pane. Tanto che alla fine, dovendo lasciare un testamento, dovendo dare tutto di sé, ha lasciato un pane e il comando di mangiare insieme.
E tutto è iniziato da quella prima poppata al seno di Maria!
Il sonno del bambino
Ma l’attività che maggiormente ha occupato i primi anni di vita del bambino Gesù è stata quella di dormire. Un neonato dorme dalle 14 alle 17 ore al giorno. Dai quattro agli undici mesi di vita, dalle 12 alle 15 ore; fino a tre anni, circa 14 ore. Così si è presentato al mondo il Figlio di Dio: ha cominciato a salvarci dormendo gran parte del tempo.
Come non ha mai avuto problemi di alimentazione, così neppure pare abbia avuto quei disturbi del sonno che sembrano rendere complicata la vita dei nostri piccoli fin dall’inizio. Mangiare e dormire, così come respirare, ovvero le funzioni essenziali della vita, Gesù le viveva “divinamente” bene.
Poteva dormire tranquillo in braccio a sua madre, Maria, cullato dalle ninna nanna che certo lei sapeva cantare in modo speciale. Per cominciare bene una vita chiede di essere accolta, presa tra le braccia, accarezzata, sostenuta, cullata con gesti e parole di tenerezza. Poteva dormire tranquillo perché Giuseppe, suo padre, vegliava su di lui, era all’erta contro i pericoli della vita.
Qualche volta anche Giuseppe, ovviamente dormiva, ma nel sogno riceveva i comandi di Dio, come quando dovette proteggere il piccolo da Erode. Così Gesù chiudeva gli occhi sereno ogni notte, lasciando andare il mondo, fiducioso che ogni mattino poteva aprirli di nuovo e ritrovare la vita, le cose, le persone, ad attenderlo piene di promesse affidabili.
Per questo, forse, in tutta la sua vita Gesù avrebbe avuto un buon rapporto con il sonno. Lui, certo non aveva dove posare il capo, ma non perché non dormisse, bensì perché poteva ri-posare in ogni luogo, in quanto il mondo intero era la sua casa.
Conosceva bene il sonno buono del contadino che dopo aver seminato confida che cresca il grano “di notte” e di giorno, senza che lui lo veda. Dormirà tranquillo sulla barca in tempesta, perché a differenza della poca fede degli esperti marinai che erano i discepoli, confidava nella cura del Padre che governa la furia del vento e del mare. Risveglia dal sonno la figlia di Giairo che tutti credevano morta, come risveglierà l’amico Lazzaro dal sepolcro, l’ultimo sonno che chiude la vita.
Proprio per confidenza con il sonno Gesù non avrà paura di affrontare la morte, l’ultimo giaciglio nel sepolcro, dopo i giorni della sua passione.
Se per qualcuno il sonno fa paura perché sembra anticipare la morte con la quale si lascia ogni cosa, per Gesù è la morte a non fare paura perché è per lui che come un sonno che non dura per sempre; il Padre lo risveglierà alla vita, alla vita eterna, il terzo giorno.
Questa speranza di un risveglio che restituisce alla luce, Gesù l’aveva imparata proprio nell’atto di lasciarsi andare nel sonno, certo che la luce del giorno ogni volta lo avrebbe di nuovo chiamato alla vita.
Ha cominciato a vivere con un bel pisolino, come tutti; e come tutti avrebbe terminato il suo viaggio con il sonno della morte, ma certo che la vita è chiamata al risveglio dall’amore del Padre che non ci abbandona mentre noi dormiamo sereni.
Carne della nostra carne
E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi. La Parola, il Verbo, cerca ancora, anche oggi la carne e l’umanità in cui abitare, che dia nuova voce alla Parola. Celebrare il Natale non è solo fare memoria della nascita del Verbo 2000 anni fa, ma rivivere quella incarnazione in noi. È in ciascuno di noi che la Parola si fa carne, prende dimora nella nostra umanità, diventa Parola in noi.
Ma come nasce la Parola nella nostra carne? Potremmo rileggere questo mistero contemplando la scena di Betlemme, i primi passi in quella notte, quando la Parola prese carne in una giovane donna, Maria. Lo ha fatto come ogni piccolo d’uomo, con i gesti elementari della vita: un grido, una poppata e una buona dormita. Anche la Parola nasce in noi così.
La Parola scaturisce in noi anzitutto come un grido, un primo vagito. Paolo dice che lo Spirito in noi “intercede con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26), e grida “Abbà, Padre” (Gal 4,6). Anche quando non sappiamo neppure cosa dire, anche quando non sappiamo ancora parlare, lo Spirito geme, grida. Il grido è la forma elementare della preghiera, quella che abita – io credo – nascosta nel cuore di ogni uomo e di ogni donna.
Anche quando non sappiamo pregare, se lasciamo spazio allo Spirito in noi abita un grido. È anzitutto un grido che chiede aiuto: “O Dio, vieni a salvarmi”, “Signore, vieni presto in mio aiuto”, “non abbandonarmi davanti alle prove e alla tentazione”, “liberaci dal male”. Gridiamo perché non possiamo, da soli, reggere le prove della vita, quando ci sembra di essere accerchiati dai nemici e schiacciati dai pesi. Ci troviamo a pregare come dei figli che si rivolgono al Padre per cercare in lui l’aiuto necessario per continuare a vivere.
Altre volte è un grido di giubilo, di stupore e di gioia! Come quando siamo semplicemente meravigliati dalla vita, di essere ancora vivi! Sorpresi perché ci sentiamo amati e noi stessi capaci di amore. Allora la preghiera prende la forma della gratitudine. Viene la voglia di gridare al mondo un “grazie”, di cantare la vita che non smette di stupirci, del miracolo di essere vivi, semplicemente. Il verbo si fa carne in voi come un grido di dolore e un grido di gioia.
Questa parola germinale che abita in noi, questa preghiera nascosta, se la lasciamo prender carne, poi diventa in noi “fame di parola”. Perché occorre nutrire il piccolo seme della parola. Deve crescere in noi come una fame: quella che ci porta a pendere dalle labbra di Gesù, dalle pagine della scrittura; che ci porta a non lasciar cadere neanche una parola che esce dalla sua bocca; una fame per cui anche le briciole che cadono dalla tavola del Signore (cf Mc 7,28) diventano per noi nutrimento prezioso.
“Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4 Dt 8,3). Ci nutriamo delle parole che escono dalla bocca di Dio, ci attacchiamo al suo seno come un bimbo affamato. La fame della Parola è anche fame di parole vere. In un tempo come il nostro di parole a vanvera, di chiacchiere inutili, cerchiamo parole che abbiano il sapore della verità, che edificano e non distruggono.
Questo Natale ci chiede di aver fame di parola, di nutrirci abbondantemente, quotidianamente, insistentemente, ogni giorno, della sua Parola, perché quella parola possa abitare in noi, farsi ancora carne nella nostra carne.
Infine, la parola in noi riposa. Deve essere lasciata decantare, chiede di sedimentarsi, di posarsi nel profondo dell’anima, di restare incisa nel cuore. Così riposa in silenzio nella mente e nel cuore. Dorme in noi tranquilla e serena, a volte a lungo senza dare segni della sua presenza.
Abita il silenzio, riposa nella mente e nel cuore, come una parola che non alza la voce, che non si impone, che spesso tace. A volte ci sembra di ascoltare la Parola, di nutrirci della Scrittura, ma per poi constatare che non succede nulla, che quelle parole sembrano svanire, che prevale la dimenticanza. Ma non è proprio così. In noi la Parola riposa e tace, in attesa del momento in cui si risveglia, e ci risveglia.
Accade allora che sorprendentemente, nei momenti più impensati, la Parola risorge dentro di noi, torna a parlare, ci ridona vita, ci rigenera. Proprio quando attraversiamo deserti di morte, la Parola che in noi riposa, si desta, e ci ridesta alla vita, permette di rialzarci ad ogni caduta, diventa principio di risurrezione, di rigenerazione.
Oggi chiediamo questa grazia: che verbo si faccia carne in noi, che la Parola prenda vita nella nostra vita e lo farà così: come un grido a volte di dolore altre di gioia; come una fame che diventa desiderio di Parola; come un silenzio colmo della sua presenza.
Bella riflessione sul mistero della Parola fatta carne e che si genera, per analogia, anche in ognuno. Lo insegnava anche sant’Agostino con le sue analisi psico-somatico-teologiche sulla genesi e la manifestazione della parola umana. Buon anno a don Antonio e alla cara Settimana.