“Mercoledi delle ceneri” è un giorno chiave per i cristiani. È come il portico d’entrata di una cattedrale. Invita ad entrare in uno spazio temporale sacro. Dà il “via” ad un lungo viaggio, che porta le comunità cristiane a rinnovarsi, a cambiare, a far risplendere di nuovo il loro volto. Per incontrare il loro Signore risorto. E sarà un lungo pellegrinaggio di conversione. Di trasformazione del cuore. Come ricorda un detto estremo-orientale: «La persona che parte per un viaggio non è mai la stessa persona che torna».
Preghiera, carità, sobrietà
Il gesto tipico di questo primo giorno di quaresima è “l’imposizione delle ceneri”. Ricordare, così, le fragilità dell’essere umano, allo stesso tempo la sua forza segreta in Dio. Mi piace pensare come missionario al gesto, che facciamo spesso all’estero in quest’occasione: non un pizzico di cenere di olivo sui capelli. Non si vede, né si percepisce. Ma con le ceneri un lentissimo, largo gesto di croce, tracciato sulla fronte stessa del cristiano, con delicatezza estrema. «Convèrtiti e vivi la gioia del Vangelo!» le parole che l’accompagnano. Come una vera missione nel mondo, anzi nel suo mondo…
È far presente il suo battesimo. La sua immersione, un giorno, nella misericordia del Padre, nel coraggio del Figlio, nella forza dello Spirito di Dio. Sì, il suo nuovo impegno sarà essere il più misericordioso sulla terra. Il più coraggioso nelle prove. Il più forte di fronte al male e al suo strano fascino.
Viene, poi, un sorriso di stupore quando i nostri fedeli li ritrovi durante il giorno nel bus o nel metro ancora con le tracce ben visibili del rito sulla fronte. Se le tolgono solo a sera, rientrando a casa. Come per restare il più a lungo possibile con il segno della loro missione.
Così inizia il cammino di quaresima. Ma non è un cammino triste o penitenziale: convinzione che per secoli ci siamo portati addosso. Ma è piuttosto una danza a tre passi: la preghiera, la carità e la sobrietà. Intensificare un nuovo stile di vita che la fede cristiana chiama continuamente a vivere. Riscoprire in fondo – come una perla all’interno della conchiglia – la nota essenziale del cristianesimo: la gioia.
La gioia non è il piacere. È, anzi, l’abitante segreto più prezioso del cuore. Senza di essa la croce, che immancabilmente si incontra, la si trascina. La si maledice. Con essa invece la si porta, con resistenza e resilienza.
La gioia libera, il piacere rende dipendenti. Domanda di essere ripetuto. Vi lega strettamente a sé, come in un’invisibile schiavitù. Quando, invece, il cammino di quaresima aiuta a liberarsi da tutte le relazioni che vincolano la nostra quotidianità. Dalle dipendenze, dai piccoli piaceri che ci prendiamo per gustare a piccoli sorsi la vita. Privilegiare, invece, la relazione che, in fondo, si rivela vitale: quella con Dio.
Una marcia nel deserto
Ripenso ancora, come ogni anno, a quaresima, i cristiani della diocesi di Gibuti (Corno d’Africa) dove mi trovavo, con il vescovo in testa, vivono una giornata di deserto. Moltissimi uomini, donne, bambini, venuti da tutte le parti della diocesi: camminano dalle prime ore del giorno sotto un sole sempre più infuocato, nel deserto di Oveah.
Una marcia del deserto di tutta una diocesi è sempre qualcosa di suggestivo. Come fosse tutto il popolo dell’antico Israele nel suo percorso dall’Egitto… verso casa. Come fosse la Chiesa intera in cammino verso il Regno di Dio, che la attende. E che essa prepara già nel cuore e nella vita degli uomini.
Durante la marcia, ci si ferma ogni tanto, a testimoniare ognuno la speranza che ci fa vivere. È la nostra stessa vita e i suoi momenti di aridità, che ci sembra di attraversare in questo luogo arido. Quello che nel racconto biblico ha portato Abramo, e tantissimi altri credenti, all’incontro stesso con Dio.
Era bello osservare questo avanzare comunitario, meditativo e itinerante. Ma curiosamente pedagogico e interrogativo. «Verso dove, Signore, sto camminando? Verso dove va la nostra comunità? È forse rimasta immobile sulle sue posizioni, con il suo solito giro, le persone abituali, il peso delle strutture, le stesse cose da fare, il ritmo stanco dell’abitudine?».
Camminare è convertirsi, trasformarsi. «Dammi la conversione del cuore, Signore» sembra ognuno ripetere, in una lunga preghiera silenziosa. Ed è come fosse incamminato verso Damasco e quel suo luminoso, folgorante appuntamento con Lui. Colui che, in verità, trasforma e rende nuova ogni cosa.
Anche le nostre fragilità. Trasformandole in chances. In una nuova coscienza di noi stessi. In nuove opportunità di crescita. E così poter «fare dell’interruzione un cammino nuovo, della caduta un passo di danza, della paura una scuola, del sogno un ponte e della ricerca un incontro».