Pubblichiamo l’intervento di don Antonio Torresin alla Scuola di formazione teologica della diocesi di Reggio Emilia. Don Antonio Torresin, classe 1961, è stato ordinato presbitero nel 1985 nella diocesi di Milano. Ha lavorato per quindici anni nella Formazione Permanente del Clero della diocesi, e ora è parroco nella parrocchia di San Nicolao della Flue a Milano.
Quale legame tra la speranza e la profezia? In che senso l’annuncio del Vangelo diventa una parola profetica e una parola di speranza? Tra speranza e profezia possiamo riconoscere un iniziale tratto comune: sono parole che sembrano in contro-tendenza al pensiero corrente, una sorta di in-evidenza, una parola che smentisce ciò cha appare a prima vista, un contro-canto alla voce generale. Questa voce del profeta che annuncia una speranza irrompe proprio nei momenti critici della storia del popolo di Israele. Potremmo – un po’ semplificando – identificare questa legge: quando il popolo si adagia nelle proprie false sicurezze, il profeta eleva la sua voce critica (contro il potere che si dimentica dei poveri, contro un culto senza giustizia); quando il popolo vive un momento di disperazione dove tutto sembra perduto, il profeta apre visioni di speranza.
Nelle fratture della storia
La profezia, quindi, interviene nelle faglie della storia, in quelle che Michel De Certau chiama una «frattura instauratrice». Una crisi, una perdita, apre una nuova stagione, autorizza un nuovo inizio. È esattamente in questo modo che l’evento di salvezza irrompe nella storia, dal principio fino al suo compimento in Cristo.
«“Era necessario che morisse”. La tomba vuota è la possibilità di verifica che si dispiega nell’era della parola e dello Spirito. Così l’avvenimento iniziale diventa un inter-detto. Non che sia intoccabile o tabù. Ma il fondatore sparisce, impossibile da raggiungere e da “trattenere”, nella misura in cui prende corpo e senso in una pluralità di esperienze e operazioni “cristiane”» (M. De Certau, Debolezza del credere, 193).
Se la frattura appare come una fine (la fine del regno di Israele nella deportazione, la fine della presenza immediata del Maestro presso i suoi discepoli per noi oggi, la fine della cristianità) essa si rivela come un inizio, l’unico modo di restare fedeli alla promessa iscritta nella storia condivisa: «Una audacia nuova resta il momento decisivo della fedeltà» (De Certau, 66).
Questa parola profetica, dicevamo, è una contro-evidenza: nella fine un inizio. Così è dell’annuncio della speranza: una visione che vede oltre l’immediato, che lo contraddice. «Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25).
Potremmo riprendere il modo con cui la parola profetica accompagna il cammino del popolo di Dio in tre passaggi, che sono sempre in contrapposizione al pensiero comune. Di fatto la figura del profeta si erge come contrappunto e contro potere nei confronti del potere politico del re e di quello religioso della classe sacerdotale.
Il profeta nella crisi
Prima di parlare però al profeta è chiesto di tacere. Mentre gli vengono chieste parole di consolazione, che allontanino la paura degli avvenimenti incombenti, il profeta si rifiuta di accondiscendere a facili profezie consolatorie.
Così Geremia partecipa anzitutto all’impotenza del popolo, di cui predice l’esilio, che si vede spogliato – senza la terra, il re, il tempio, il culto…. – e dichiara di condividere un tempo di incertezza: «Se esco in aperta campagna, ecco le vittime della spada; se entro nella città, ecco chi muore di fame. Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per la regione senza comprendere» (Ger 14,18).
Così Ezechiele, il profeta che partecipa al dramma dell’esilio, che vede l’arca di Dio partire con il popolo deportato. Prima di poter pronunciare parole di speranza, viene ridotto al silenzio, diventa un profeta muto.
«Anche là venne sopra di me la mano del Signore ed egli mi disse: “Àlzati e va’ nella valle; là ti voglio parlare”. Mi alzai e andai nella valle; ed ecco, la gloria del Signore era là, simile alla gloria che avevo visto al fiume Chebar, e caddi con la faccia a terra. Allora uno spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi. Egli mi disse: “Va’ e chiuditi in casa. E subito ti saranno messe addosso delle funi, figlio dell’uomo, sarai legato e non potrai più uscire in mezzo a loro. Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto; così non sarai più per loro uno che li rimprovera, perché sono una genìa di ribelli. Ma quando poi ti parlerò, ti aprirò la bocca e tu riferirai loro: Dice il Signore Dio: “Chi vuole ascoltare ascolti e chi non vuole non ascolti; perché sono una genìa di ribelli”» (Ez 3,24-27).
Il senso di questo silenzio è diverso da quello di Geremia, ma sempre in un tempo dove le parole sembrano introvabili e in ogni caso inascoltate: «Il profeta dovrà tacere, non certo quasi ad evitare di aggiungere dolore a dolore; piuttosto perché c’è un tempo nel quale il silenzio grida ancor più forte delle parole» (G. Angelini, Il profeta ammutolito, 49).
Credo che questo valga anche per il nostro, che mi sembra corrispondere ad un tempo dell’incertezza. La crisi che viviamo, specie nei paesi occidentali e di origine cristiana, sembra un tempo nel quale molte sicurezze vengono meno. Un piccolo virus è stato capace di frantumare le certezze scentifico-teconologiche di garantire il benessere di tutti; le guerre che lambiscono i nostri confini infrangere un tempo che ci sembrava di pace (solo perché le guerre erano lontane). Ma la chiesa non vive tempi migliori: la fine della cristianità inaugura un tempo nel quale molti punti di riferimento certi vengono meno, un cambio di scenario che inaugura un tempo che appare sconosciuto. Anche dalle autorità religiose non sembrano giungere parole che aiutino a decifrare questo tempo, ad attraversare la crisi. «Anche il profeta e il sacerdote si aggirano e non sanno che cosa fare».
Il silenzio potrebbe essere una parola che grida ancora più forte? Un modo per essere partecipi al tempo dell’incertezza, e insieme la condizione per trovare parole che non siano la ripetizione di ovvietà già da sempre ripetute?
Il giudizio
Prima della parola di speranza, i testi profetici sono anzitutto testi di condanna, una critica severa al potere del re e della classe sacerdotale. Il fallimento della monarchia è ricondotto al peccato dell’idolatria, all’aver abbandonato il vero Dio per volgersi agli dei stranieri. L’idolatria è il grande peccato di Israele, ed è da intendere anche come l’aver ridotto ad un idolo la propria pratica religiosa. Sempre, anche la religione può pervertirsi in pratica idolatrica, cercando di appropriarsi della condiscendenza di Dio mercanteggiando con riti e offerte senza praticare la giustizia. E infatti questa critica profetica al potere si rivolge anche al culto: un culto senza giustizia non è gradito al Signore:
«Ascoltate la parola del Signore, capi di Sòdoma; prestate orecchio all’insegnamento del nostro Dio, popolo di Gomorra! “Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? − dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”» (Is 1,10-18) (cf. anche Am 5,21-24).
Può essere utile una precisazione. La giustizia come criterio di verità del culto non è la difesa anzitutto dei propri diritti. Se la giustizia è – secondo il noto detto di Ulpiano – «dare a ciascuno il suo», occorre precisare che il «suo» di ciascuno, se deve essergli dato, significa che non è immediatamente presso di lui, ma presso qualcuno che ha il dovere di renderlo; il «suo» di ciascuno è provvisoriamente affidato a chi lo ha, non come «proprio» ma come bene da amministrare, a favore di colui a cui spetta. In questo senso la giustizia regola le relazioni.
Ad esempio: il «suo» del lavoratore (la giusta retribuzione) è nelle mani del datore di lavoro, che deve, secondo giustizia, renderlo a chi gli spetta. La relazione tra i due però è esposta ad uno squilibrio, un potere che può prevaricare: per questo la difesa della giustizia è stare dalla parte di chi è più debole. Non a caso i profeti richiamano le categorie dello «straniero, l’orfano e la vedova», che sono più deboli nei confronti di chi ha potere.
Il compito profetico di difendere la giustizia dei più deboli diventa problematico nella misura in cui le istituzioni religiose vivono in stretto connubio con i poteri politici ed economici. Così è nel regime di cristianità dove la Chiesa è una istituzione che spontaneamente si trova dalla parte dei poteri, come una forza conservatrice dello status quo. La fine della cristianità se espone la Chiesa ad un minor potere può diventare l’opportunità di ritrovare una forza profetica nel denunciare l’ingiustizia del potere. La fine di un equilibrio dei poteri apre una nuova possibilità, più evangelica, di ritrovare una profezia a volte perduta.
La visione
Se le pagine dei profeti sono soprattutto pagine di denuncia e di condanna, nei momenti in cui il popolo vive disperso e disperato – soprattutto in occasione del secondo esilio, della perdita di Gerusalemme, del tempio, nella dispersione in terra straniera – i profeti sono capaci di visioni piene di speranza. La speranza prende la forma di una visione: si tratta di vedere qualcosa che sembra impossibile, che contraddice l’immediata percezione del mondo e dello stato in cui Israele stia vivendo.
In realtà questo tempo di prova e di crisi diventerà uno dei momenti più fertili nella spiritualità di Israele. La scomparsa del tempio, del culto ufficiale, non è la fine della fede. In questo tempo di prova prende corpo il canone biblico, si affina una spiritualità della Parola. Distrutto il tempio e nell’impossibilità di immolare sacrifici, il Popolo di Dio riscopre la Parola e ricomincia a leggerla, a studiarla … ad ascoltarla e a udire in essa il sussurro di un Dio amante: «Ascolta, Israele …». Lo Sposo, dopo i giorni dell’ira, mostra di nuovo il suo volto alla sposa riconquistata, la porta nel deserto per parlare al suo cuore (cf. Os 2) e la consola. Nasce quella spiritualità degli anawin, di quel popolo di poveri ed umili che trova la sua forza e la sua speranza solo nel confidare nel Signore.
Pensiamo a due visioni – solo per citare degli esempi – una di Isaia e una di Ezechiele.
- Ci sarà una strada
La prima visione la troviamo nel libro del profeta Isaia nel capitolo 43: «Così dice l’Eterno che aperse una strada nel mare e un sentiero fra le acque potenti, che fece uscire carri, cavalli e un esercito potente; essi giacciono tutti insieme e non si rialzeranno più; sono annientati, spenti come un lucignolo.
«Non ricordate più le cose passate, non considerate più le cose antiche. Ecco, io faccio una cosa nuova; essa germoglierà; non la riconoscerete voi? Sì, aprirò una strada nel deserto, farò scorrere fiumi nella solitudine. Le bestie dei campi, gli sciacalli e gli struzzi mi glorificheranno, perché darò acqua al deserto e fiumi alla solitudine per dar da bere al mio popolo, il mio eletto. Il popolo che mi sono formato proclamerà le mie lodi» (Is 43,16,21).
Il profeta invita a non restare prigionieri del passato, né del ricordo dei tempi antichi, né del presente che sembra oscuro e privo di prospettive; il deserto diventerà un luogo dove ritrovare l’esperienza originaria dove Israele è nato, come nel passaggio del Mar Rosso, della cura di Dio per il suo popolo, dell’amore ritrovato. Qualcosa di nuovo sta per nascere, perché Dio è un Dio creatore, capace di far nascere cose nuove. Occorre avere occhi capaci di riconoscere la novità che sta per germogliare, la strada che Dio apre nel deserto.
- Le ossa aride
La seconda visione, ancora più poderosa, è del profeta Ezechiele (Ez 37, 1-14). Al principio il profeta vede uno spettacolo che sembra orrido, una distesa di ossa aride, prive di vita. Che cosa rappresentano? L’interpretazione classica vi legge una visione che introduce la speranza della risurrezione dei corpi dopo la morte. Di ossa morte di stratta, ma di quale morte? «La morte alla quale si fa riferimento in questa pagina interviene quando nel corpo dell’uomo ancora circola il sangue e i polmoni respirano. Le ossa che Ezechiele vede non son certo quelle dei cimiteri» (G. Angelini, Il profeta ammutolito, 136).
È Dio stesso che interpreta la visione: «Mi disse: Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”» (Ez 37,11). La morte coincide con la perdita della speranza.
«Per essere altro e più che un osso morto, l’uomo deve avere una speranza: deve avere occhi e cuore per quella speranza e correggere così la sua letale inclinazione a cercare sempre e solo di accomodarsi al presente. Per avere una speranza, deve poter contare su una promessa» (Angelini 148).
Serve l’opera creatrice di Dio per poter rianimare questo popolo senza speranza. Il profeta deve profetizzare due volte. Questa ripetizione a che cosa allude? Sembra riprendere l’opera dell’inizio quando il creatore prima plasma dalla terra l’umano e in secondo momento soffia il suo respiro, il suo Spirito.
«L’opera di Dio non fu opera subito compiuta al principio della creazione. Per compiersi, attendeva di avere il consenso della creatura stessa, di questa speciale creatura che è l’uomo. Lo spirito – in particolare – non rimane nelle narici e nei polmoni dell’uomo, a meno che l’uomo stesso non lo riconosca e non lo voglia. Perché l’uomo possa vivere, deve sempre da capo invocare lo Spirito, ogni volta che sembri sfuggirgli» (Angelini 151-152).
Così, nella visione di Ezechiele, il profeta ha un compito non di semplice testimone, ma di attore che prende parte alla rianimazione.
«Quello che sorprende nella visione di Ezechiele – che deve sorprenderci – è il fatto che Dio non faccia subito, e da solo; che non convochi dunque il profeta nella valle per renderlo semplicemente testimone della sua opera; quello che più sorprende è il fatto che al profeta venga dato l’ordine di profetizzare, e addirittura di profetizzare allo Spirito. Una tale singolarità può comprendersi unicamente alla luce del significato spirituale della visione: le ossa potranno ricevere carne, poi anche e soprattutto potranno ricevere lo spirito della vita unicamente a condizione di volere, e consentire così all’opera del loro Creatore. Qui te creavit sine te, te sine te non redimet (Agostino)» (Angelini 153-154).
La visione di Gesù
La speranza passa quindi da una visione: occorre vedere altro e oltre l’immediata scena del mondo, per cogliere e accordare lo sguardo con l’opera di Dio. Ci chiediamo, Gesù aveva una visione?
In un suo breve scritto, Jean Paul Audet, Il progetto evangelico di Gesù, descrive l’inizio dell’opera di queto Messia, di questo profeta itinerante. Non sembra che Gesù si muovesse spinto da uno programma pre-definito, da un progetto previo che conosce in anticipo dove dirigersi. Piuttosto Gesù si lascia guidare da una visione, coltiva uno sguardo che lo orienta. Gesù sapeva vedere in modo nuovo.
Che cosa vedeva? Potremmo sinteticamente ricondurre la visione di Gesù all’annuncio del Regno e al fatto che questo Regno sia in grado di alimentare la fede e la speranza di chiunque. Gesù sapeva vedere Dio all’opera – questo è il senso del Regno di Dio che si fa vicino – e lo vedeva nella vita ordinaria e quotidiana: nel lavoro dei campi, in quello di chi pesca, nei gigli del campo e negli uccelli del cielo; nel lavoro degli amministratori (anche in quelli infedeli), e in quello di chi è chiamato a giornata, della relazione tra fratelli, nelle pecore perdute… tutte le parabole sono una grande visione di Gesù sul mondo, sulla vita.
Ma c’è di più. Spesso Gesù invita proprio a guardare: «Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica» (Gv 4,35-38). La visione del Regno permette a Gesù di riaccendere la fede nel cuore degli incontri che abbondano nel suo cammino. È quella che Theobald chiama la “santità ospitale” di Gesù.
«Questa novità si caratterizza per un certo tipo di relazione, che s’instaura con coloro che Gesù incontra inaspettatamente, e per l’effetto che si produce. (…) Di episodio in episodio i racconti evangelici riescono a mostrare la stupefacente distanza del Nazareno rispetto alla sua propria esistenza. (…) Lungi dall’essere un’astuzia o uno stratagemma, questa postura è invece l’espressione della sua singolare capacità di apprendere da ogni individuo e da ogni situazione che gli si presenti (cf. Mc 1,40s; 5,30; 7,27-29 ecc.). In questo modo egli crea uno spazio di libertà attorno a sé, comunicando tuttavia, con la sua sola presenza, una benevola prossimità a coloro che lo incontrano. Questo spazio di vita permette loro di scoprire la loro più propria identità e di accedervi a partire da ciò che già li abita in profondità e che si esprime istantaneamente in un atto di «fede»: credito accordato a colui che sta di fronte e al tempo stesso alla vita tutta intera. Essi possono allora ripartire perché l’essenziale della loro esistenza si è giocato in un istante. Tuttavia, alcuni restano con lui (Gv 1,35-39) o sono chiamati a seguirlo (Mc 1,16-20), o addirittura a «prendere il suo posto» (cf. Mc 3,13-19)» (C. Theobald, Il cristianesimo come stile).
Non è forse questa la visione di Gesù nella terra di Galilea? In quella stessa Galilea a cui il Risorto invia i discepoli dopo la sua passione, morte e risurrezione? Non è forse simile alla nostra Galilea? L’annuncio del Regno avviene in un contesto che non sembra connotato da un alto tasso di ortodossia religiosa, piuttosto in un contesto promiscuo, dove si incontrano culture diverse: la Galilea delle genti” è una terra di meticciato, con la compresenza di pagani e israeliti, di movimenti spirituali emergenti e di uomini e donne esiliate dalle istituzioni religiose, impure, lontane. Gesù comincia da qui, ma apprende e impara a vedere, nel cuore di questi incontri, la possibilità di una «fede elementare», di un coraggio di vivere che riscatta la vita anche e proprio quando sembra perduta.
Una visione per la chiesa oggi
Quello che manca alla chiesa oggi è proprio una visione. Non servono programmi, strategia di riconquista di posizioni e di privilegi. Non serve il desiderio di ricomporre un mondo che non c’è più, serve una visione. Mi sembra che questa «scena originaria» che vede Gesù tra i discepoli e le folle, possa offrire gli elementi essenziali di una visione che ispiri nel nostro tempo, che offre una speranza per il destino della fede oggi.
Come all’inizio del ministero di Gesù dobbiamo imparare a camminare nella storia in compagnia degli uomini, senza poter contare su privilegi e istituzioni forti, ma «spogliati», pellegrini (pellegrini di speranza è l’icona del giubileo suggerita da papa Francesco) che incontrano uomini e donne, persone spesso ferite dalla vita, gravate da pesi, segnati da fallimenti e colpe che sembrano imperdonabili… Gesù raccoglie attorno a sé un manipolo di discepoli, non troppi non tanti, dodici o settantadue, quelli che bastano, e con essi si fa vicino alle folle. Non per incrementare la propria compagine, ma per annunciare i segni del regno di Dio che si fa vicino.
Non solo: ai discepoli Gesù sembra indicare figure della fede inedite. I discepoli non devono solo annunciare il Regno, guarire i malati, liberare i prigionieri, ma apprendere essi stessi la fede dagli incontri che Gesù mostra loro. I peccatori – come Levi o la donna invitata dal fariseo Simone – gli stranieri e i pagani – come la cananea o il centurione che intercede per suo figlio, come l’indemoniato di Genezaret – i pubblicani come Zaccheo o gli eretici come la Samaritana… diventano figure della fede, di quella fede elementare che ridona il coraggio di vivere, di riprendere in mano la propria vita come unica, come il luogo dove Dio si fa vicino. Non si tratta di riportare tutti questi incontri, ad una fede «confessante», «discepolare».
Ci sarà anche chi verrà chiamato a seguire il Maestro come discepolo – dodici o settantatadue, quelli che servono e che bastano, perché gli operai sono e saranno sempre pochi – ma la maggior parte di loro saranno invitati semplicemente a tornare alla vita, a casa, capaci di vivere nella speranza che la fede ha acceso loro in cuore.
Che cosa può significare quest’abbozzo di «visione» per la nostra azione pastorale? Non lo so di preciso, ma penso che debba liberarci dall’ansia di far «tornare le persone in chiesa», dei numeri, dell’appartenenza ecclesiale… e piuttosto renderci più attenti agli incontri personali della vita, dove «da persona a persona» (cf. EG), possiamo imparare da Gesù quella «santità ospitale» che riaccende la fede. Una pastorale più libera dalla preoccupazione dell’istituzione, e più attenta agli incontri personali, là dove la vita apre quelle «faglie» che possono diventare dei nuovi inizi. Impareremo a lasciarci sorprendere dalla fede che lo Spirito suscita ancora nel cuore degli uomini e delle donne, e potremmo trovare occhi nuovi per vedere i segni di una speranza che non muore, i gemiti di un parto che tiene viva la storia:
«Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”. Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.
Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto:
Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,
siamo considerati come pecore da macello.
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 14-39).
Posso solo confermarti che senza Speranza oggi non può esserci vita,importante è pregare e vigilare du ciò che Speriamo
Grazie Don Antonio! Non ci proponi una lettura ottimista della realtà, bensì un invito a far emergere quel profeta che c’è in noi donatoci col battesimo. E’ l’unico modo concreto per contrastare i profeti di sventura che si trovano ovunque. Di nuovo Grazie!!!