L’Ascensione: la terra aggancia il cielo

di:
Iesu, nostra redemptio,
amor et desiderium,
Deus creator omnium,
homo in fine temporum
    Gesù, nostro riscatto,
amore e desiderio,
Dio, creator degli esseri,
uomo nel tempo ultimo
Non uno “stacco” ma una “congiunzione”

L’Ascensione è la celebrazione di un mistero che rischia di essere sottovalutato. Peccato, perché rimane un evento chiave: evidenzia il risultato concreto della Pasqua, sia per quanto riguarda Gesù (il suo corpo entra nella gloria di Dio), sia per quanto riguarda noi (è segno del nostro destino e, nel contempo, condizione perché si effonda sul mondo la forza dello Spirito Santo). Non si tratta, per Gesù, di un semplice ritorno alla vita effimera e precaria di prima, ma dell’ingresso in una vita “nuova”, non più schiava della mortalità.

Un secondo punto cruciale sta nel fatto che Gesù riversa su di noi la sua vita, ci dona letteralmente il suo “fiato”, il suo Spirito: dono che è fonte di ogni altro dono.

In più, e soprattutto, il mistero dell’Ascensione disegna e designa non solo, e non tanto, un evento già passato o atteso solo nel futuro, ma raduna passato e futuro nel realismo e nell’efficacia di un presente, quello in cui ora viviamo. Luca lo dice chiaramente nel modo con cui, al termine del suo vangelo, “descrive” – per così dire – il senso di questa elevazione di Gesù: «mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su in cielo» (Lc 24,31). Vi è qui incapsulata la splendida “incompiutezza” di una narrazione, un fatto che continua ad accadere nell’oggi, in ogni oggi, di ogni uomo.

L’immagine disegnata dai verbi fotografa una situazione da tenere sempre davanti agli occhi nello sguardo della fede: la tappa terrena di Gesù si conclude con la sua partenza che è solo parzialmente uno “stacco”, perché lui ci sta davanti con un gesto incoraggiante di benedizione, come una forza che continua a consolarci e insieme ad attrarci nel suo movimento di ascesa verso la gioia e la pace nel grembo del Padre. E dunque non si tratta di una separazione, o di un distacco, ma, all’opposto di una gloriosa “congiunzione”: la terra viene agganciata al cielo, perché – come ha scritto sant’Agostino – «il Figlio non ha mai lasciato il cielo da dove è disceso, né si è allontanato da noi quando vi è asceso» (Breviario).

L’amore dilata il “desiderio”

La prima strofa dell’inno di Lodi per la festa offre uno straordinario concentrato di teologia e spiritualità, riassunto nei sostantivi che designano Gesù: riscatto, amore, desiderio, Dio, uomo. La sequenza è perfetta, ed ha una sua logica. Non credo sia casuale che la prima qualifica parli di redenzione, indichi cioè il grande beneficio che la vita, la morte e la risurrezione di Gesù ci hanno guadagnato, ciò che è comunemente designato come “salvezza”.

Il termine, usatissimo dai teologi, che spesso sembra uscire quasi automaticamente dalla bocca dei predicatori, andrebbe ogni tanto meditato a lungo, perché, se è vero che il cuore della fede è la “gratitudine”, difficilmente riusciremmo a suscitare con naturalezza tale sentimento qualora perdessimo la percezione di avere ricevuto un grande dono senza il quale saremmo stati “perduti”!

Questa riflessione si nutre di una continua attenzione a ciò che rischiamo costantemente di perdere, o che perdiamo effettivamente, a causa della nostra stoltezza nel discernere o della debolezza nel decidere. Il “riscatto” significa: sapere che Dio perdona sempre e offre sempre una seconda possibilità, e anche che niente di ciò che è buono nella nostra vita andrà perduto, incluse la bellezza delle cose e la gioia di affetti e amicizie.

Gesù-riscatto diventa dunque, naturalmente, Gesù-amore. È la logica ben nota del sentirsi amati che genera una risposta d’amore, come canta l’Adeste fideles: «sic nos amantem, quis non redamaret?». Chi non riamerebbe uno che ci ama così? E come non commuoversi ogni volta che leggiamo san Paolo quando ci ricorda che Dio ci ha amati «mentre eravamo ancora peccatori» (Rm 8,5), anzi, proprio questo suo amore preventivo ci dà la sicurezza di poter “rispondere” al suo amore, perché, se il nostro affetto è debole e vacillante, il suo è stabile e sempre disponibile. Amiamo, dunque, colui che riconosciamo come nostro “salvatore”, che è il significato stesso del nome Gesù, nome che ha generato una devozione che ebbe stagioni gloriose, e che comunque rimane come la più semplice delle preghiere: nutrire l’amore ripetendo senza posa semplicemente un nome, per lasciarsi penetrare dalla forza di incoraggiamento di cui è intriso.

L’amore anela al possesso, ma cresce e si dilata nel desiderio, la cui importanza nella vita spirituale emerge come non mai in questa festa.

L’invito è implicito in quello che sembra un rimprovero rivolto a Maria di Magdala: «non trattenermi» (Gv 20,17)! Temo che, quando l’amore crede di aver raggiunto e “posseduto” il proprio oggetto, è vicino a languire e a spegnersi. La cosa vale ancor più quando si tratta di quell’oggetto “infinito” che è Dio. Amore e desiderio si nutrono l’un l’altro. Trova qui forse spiegazione quella parola misteriosa di Gesù: «È bene per voi che io me ne vada» (Gv 16,7).

L’Ascensione potrebbe essere qualificata come la festa del desiderio, che nel medioevo era tenuto vivo con la pratica della contemplazione del paradiso. Purché non si intenda tale meditazione come un astrarsi dalla realtà terrena, al contrario! Si tratta di guardare tutte le bellezze che la creazione e l’umanità ci offrono come pregustazione, anticipo e garanzia di quanto ci aspetta una volta “compiuta” la nostra ascensione. Come scrive Leone Magno: occorre «fissare, e come inchiodare il desiderio là dove gli occhi non riescono a vedere» (Sermone 2 per l’Ascensione).

amore e desiderio

I “piedi” di Gesù

Nei due versi finali abbiamo la spiegazione teologica del mistero dell’Ascensione e, insieme, la chiave che introduce noi tutti del dinamismo di tale mistero. Gesù è ritratto nella sua divino-umanità, e nell’incredibile paradosso che unisce in lui l’onnipotenza creatrice di Dio e la miseria e fragilità di quel “vaso di creta” che è l’uomo. Questa è la “congiunzione” che fonda tutto il resto. L’Ascensione crea e visualizza il nodo infrangibile che lega il creatore alla creatura, un tema di continuo riproposto dagli autori cristiani per trarne serenità e gioia.

Mi ha sempre colpito la “fisicità” di tali descrizioni, che mostrano con evidenza solare come l’Ascensione non porti affatto a farci guardare con disprezzo la realtà del corpo, come si trattasse di evadere verso un cielo fatto di spirito, evanescente come l’aria. Al contrario. L’immagine del corpo è dominante in questa festa: quello di Cristo e il nostro, l’uno legato all’altro, indissolubilmente, come non si stanca di ripetere Leone Magno, che ha ispirato verbalmente la colletta della festa ove si esalta la nostra vocazione, perché «dove ci ha preceduto la gloria del capo, là è chiamata a giungere la speranza del corpo».

San Massimo di Torino celebra con immagini possenti il senso “cosmico” dell’Ascensione in cui si evidenzia il frutto della risurrezione: «Il tartaro, aperto, ha restituito i morti; la terra, rinnovata, germoglia creature destinate a risorgere; il cielo, dischiuso, accoglie quelli che vi ascendono». O ancora: «Nella risurrezione di Cristo tutti gli elementi si elevano a cose più alte». L’Ascensione non cancella il significato del corpo e della terra: li eleva al loro destino più alto!

La meditazione ripetuta sul mistero di questa festa, dunque, garantisce e assicura il dinamismo fondante della vita spirituale: lo slancio che collega la terra al cielo.

Nel medioevo l’Ascensione era raffigurata secondo due tipologie.

La più nota rappresentava il corpo di Gesù che sale nella gloria con gli apostoli che lo seguono con lo sguardo. Un’altra, meno nota, ma più suggestiva, celava il corpo di Gesù dietro una nuvola, dalla quale emergevano solo i piedi. Come dire: il maestro se n’è andato, ma qualcosa di lui è tuttora visibile. Cosa? I suoi piedi! I piedi non sono solo la parte terminale di un corpo, l’ultima a scomparire quando un corpo che sale si sottrae alla vista.

Una lettura più profonda, che i maestri di spirito non hanno mai mancato di sottolineare, vede nei piedi la parte del corpo che tiene il contatto con la terra, dalla quale l’uomo proviene. Scene evangeliche ben note (Lc 7,38; Gv 12,3; Mt 28,9) hanno dato origine nel medioevo a una “devozione” ai piedi di Gesù, perché vi si vedeva l’espressione più plastica della sua umanità. È a Gesù-uomo che va anzitutto il nostro amore e il nostro desiderio, per andare con lui “oltre”. Questa è la rivelazione definitiva, «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4).

Tutto è chiaro. Una volta “agganciati” al cielo grazie al “riscatto” meritatoci dal Salvatore, sappiamo dove dirigere il nostro amore, il nostro desiderio, per ascendere, a nostra volta, in quella che è pure la nostra patria.

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