Questa creatura desiderava ottenere dalla grazia di Dio tre doni: il primo era la memoria della passione, il secondo era una malattia fisica, il terzo era il desiderio di ricevere tre ferite nella mia vita, e cioè: la ferita di una vera contrizione, la ferita di una genuina compassione, e la ferita di un intenso desiderio di Dio. (2.137-139)
Una delle prime cose che vengono alla mente quando ci si avventura sulla via della croce sono sicuramente il sangue e le ferite. Quelle del crocifisso divennero così importanti che produssero la devozione alle cinque piaghe, le due alle mani, le due ai piedi e quella del costato, gloriosamente sopravvissuta nella devozione al Sacro Cuore di Gesù.
È naturale pensare alla ferita come a qualcosa che fa male, come a una dolorosa menomazione, al punto che potremmo calcolare il progredire del patetismo nella rappresentazione del crocifisso dal numero di ferite che si vedono sul suo corpo.
Si sa, per esempio, che, in un tempo che precede di poco la vita di Giuliana, santa Brigida di Svezia nelle sue Rivelazioni ne conta più di quattromila!
Mi è capitato di vedere miniature dell’ultimo medioevo dove le piaghe sono dipinte come pezzi autonomi, separate dal corpo di Gesù: entro un quadrato segnato in alto dalle due mani, e in basso dai due piedi, sta la piaga del costato, una fessura che apre l’accesso al cuore che poi diventerà il centro di tutto.
La reclusa di Norwich fa un altro uso di questo linguaggio delle ferite, ponendolo su due livelli: uno fisico e uno metaforico. Lo si tenga presente, perché i due livelli non indicano un’opposizione, facendo per esempio coincidere “fisico” con reale, e “metaforico” con irreale o puramente immaginario! Tutt’altro.
La realtà fisica è la base concreta e sperimentabile per intendere il significato profondo e più alto di ciò che, a prima vista, appare solo come ciò che è percepito dai sensi. Solo così si può comprendere cosa intende dire Giuliana quando chiama “doni”, regalati dalla “grazia” di Dio, la memoria della passione, una malattia fisica e tre ferite, in seguito lette come contrizione, compassione e desiderio di Dio; e ancor più quando – come vedremo – tali ferite diventano “medicine”. Qui ci sono riuniti non solo gli eventi fondanti della spiritualità cristiana riassunti nella passione, ma anche i capisaldi della vita spirituale e del linguaggio che la esprime, prima, durante e dopo il tempo di Giuliana.
Si dovrebbe sapere che, a partire da una morte, come quella di Gesù, che diventa e produce vita, tutto il linguaggio cristiano non può che essere una serie di “paradossi”, quasi un mondo capovolto!
Questo linguaggio che mescola in Giuliana la narrazione realistica con il livello superiore della metafora, o immagine, non è dunque un pasticcio, ma semplicemente il tentativo di rileggere la passione con il lessico della spiritualità, o, se si vuole, di rileggere il cammino spirituale a partire dalla croce, che offre, per così dire, non solo il contenuto, ma anche il vestito e il linguaggio del discorso che si va a fare.
Perché una malattia fisica?
Cominciamo dall’interrogativo che sorge spontaneo: come si può desiderare una “malattia fisica”? Oggi tale sentimento sarebbe presto qualificato come malato e morboso. Per il vero, è la stessa Giuliana a valutare problematicamente questo suo desiderio, quando, nel bel mezzo del cap. 17, dove descrive la tortura impressionante patita da Gesù sulla croce, scrive in riferimento al suo desiderio: «Allora mi accorsi che conoscevo ben poco quanto grande fosse la sofferenza che avevo chiesto, pensando che, se avessi saputo di cosa si trattava, avrei esitato a farne richiesta» (17.176).
Pare di ritrovare un’eco della risposta con cui Gesù frenò lo slancio dei figli di Zebedeo che si dicevano disposti a bere con lui il calice della sua passione: «Voi non sapete quello che chiedete» (Mt 20,22).
Andando oltre, va anche osservato che lo stesso Gesù, che pure si era detto disposto ad affrontare la morte (cf. Mc 10,38-39), quando si trovò a fare i conti con tale possibilità, pregò che tale sorte gli fosse risparmiata (cf. Mc 14,36).
Ciò detto, e tenuto conto del radicalismo giovanile di Giuliana, possiamo leggere nella sua richiesta un duplice, legittimo desiderio:
1) quando si ama davvero qualcuno diventa naturale desiderare una forma di identificazione con la persona amata;
2) lo stesso desiderio diventa serio e non una pura velleità quando si ha bisogno di “sperimentare” ciò che si desidera. Ecco perché Giuliana desidera che la “memoria della passione” non rimanga fluttuante nell’immaginazione, ma scenda nella carne fino a segnarla con una “malattia”.
In più, non c’è come l’esperienza del dolore per esorcizzare un pericoloso senso di autosufficienza causa di molti errori e molti mali. Detto altrimenti, non si può propriamente meditare sulla passione se non si attraversa il campo del dolore.
Le tre “ferite”
Messo in chiaro questo inizio, passiamo ora ad analizzare il senso delle tre “ferite”.
Anzitutto, tale linguaggio ha un fondamento fuori discussione: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5), un’affermazione che spiega già lo slittamento che opererà Giuliana dalle ferite alle medicine. Ma perché questo accada, quelle ferite devono diventare nostre, e ciò avviene ove le si legga come figure di quei sentimenti intensamente spirituali chiamati contrizione, compassione e desiderio di Dio.
Per capire tale trasferimento, ricordiamo che, se le ferite sono, da una parte, causa di sofferenza, dall’altra, diventano anche possibili fessure che aprono varchi in quella frontiera che è la pelle. Se la contrizione spezza, letteralmente “tritura”, la nostra orgogliosa autosufficienza, la compassione ci apre all’accoglienza e alla condivisione, mentre il desiderio di Dio esprime sia la nostra radicale deficienza sia la fiducia che Dio venga a riempirla.
Questo è il pensiero di san Bernardo, che, commentando Ct 2,13-14, vede nelle ferite di Gesù le porte attraverso le quali la misericordia di cui sono ricolme le sue viscere fluisce al di fuori verso di noi, e dunque il luogo in cui si deve «sostare in meditazione in quanto lì è contenuta tutta la devozione» (Sul Cantico, Sermone 61,5).
San Bonaventura riprende l’immagine e vi legge un “nido” che si apre nelle fessure della roccia, dove la colomba del Cantico può rifugiarsi e sfuggire così all’assalto dei rapaci, e pure una “fonte” da dove zampillano le acque del Salvatore (Lignum Vitae VIII, 30).
Poesia – dirà qualcuno, scuotendo il capo, come se si trattasse di un sogno etereo e irreale –. Poesia, certo, ma nel senso della bellezza che rifulge in una sorta di “teologia per immagini”, un linguaggio da tempo dimenticato – temo – che però traduce in forme belle ciò che è vero e buono.
Tre “medicine”
Giuliana chiama poi queste ferite “visite” di Dio e ne fa delle “medicine”. Così si esprime: «Con la contrizione siamo resi puri; con la compassione siamo resi pronti; con il vero desiderio di Dio siamo resi degni. Questi sono i tre strumenti con i quali tutte le anime giungono al cielo… Perché è necessario che con queste medicine ogni anima di peccatore sia risanata» (39.215). Onde superare, se necessario, ogni visione lugubremente penitenziale che può essere evocata dal termine “contrizione”, mi piace qui riportare come la descrive la stessa Giuliana situandola nel contesto dell’esperienza del peccato: «Il peccato è il flagello più crudele con cui possa essere colpita ogni anima eletta. Questa sferza colpisce tutti, uomini e donne, e manda in pezzi l’uomo, e lo rende spregevole ai suoi stessi occhi, al punto che talvolta egli pensa di essere degno solo di precipitare nell’inferno, fino a che la contrizione lo prende sotto il tocco dello Spirito Santo e trasforma l’amarezza in speranza della misericordia di Dio. E allora le sue ferite cominciano a guarire e la sua anima, riportata nella vita della santa Chiesa, comincia a rivivere. Lo Spirito Santo guida l’uomo alla confessione perché riveli spontaneamente i suoi peccati, in semplicità e verità, con grande dolore e grande vergogna per avere con essi sfigurato la bella immagine di Dio. Poi egli accetta la penitenza che gli viene imposta per ogni peccato dal confessore, che è fondato sull’autorità della santa Chiesa secondo l’insegnamento dello Spirito Santo. E questa è un’umiltà che piace molto a Dio; e con altrettanta pazienza accetta la malattia fisica mandata da Dio, e anche la sofferenza e le umiliazioni esterne, con il rifiuto e il disprezzo del mondo, e tutte le specie di afflizioni e tentazioni, fisiche e spirituali, nelle quali veniamo a trovarci. Con il massimo amore il nostro buon Signore ci custodisce quando ci sembra di essere quasi abbandonati e respinti a causa del nostro peccato e quando noi vediamo di aver meritato questo abbandono. E per l’umiltà che noi ne ricaviamo veniamo elevati a un livello altissimo agli occhi di Dio, per la sua grazia». (39.213-214)
Si noti la delicatezza del passaggio, operato sotto la guida dello Spirito Santo, per cui siamo condotti dall’amarezza alla speranza, dal rifiuto di sé al rivivere in Dio, dalla depressione e dall’abbattimento alla positiva accettazione della sofferenza in qualunque forma essa si manifesti: questo è il dinamismo della contrizione, che dunque è insieme “ferita” e “dono”, ferita che risana e rende vivi.
E mi piace ricordare qui un’antica preghiera che il prete recitava a conclusione della confessione, dove chiedeva che «La passione del nostro Signore Gesù Cristo, i meriti della beata vergine Maria e di tutti i santi, tutto quanto avrai fatto di bene e sopportato di male ti giovi come remissione dei peccati, aumento di grazia e premio di vita eterna». Perché non restaurarla? Ne verrebbe un’idea di contrizione-confessione meno “privata” e più sanamente ecclesiale.