Nella lingua italiana il termine “ospite” indica contemporaneamente sia chi chiede accoglienza sia chi la offre, come a dire che c’è un legame sottile e nascosto e che, in fondo, la precarietà – e la lontananza – appartiene a tutti, è cosa comune, ci rende simili e quindi fratelli.
C’è bisogno però di uno sguardo “contemplativo” per interiorizzare questa realtà senza lasciarsi sopraffare da atteggiamenti e parole cariche, nella migliore delle ipotesi, di indifferenza. C’è bisogno di uno sguardo “contemplativo” per cogliere la ricchezza, ma anche la fatica di gesti capaci di migliorare il nostro mondo piuttosto che incattivirlo seminando sterili sospetti e letture faziose.
Pensiero ospitale
È necessario ritrovare la centralità dell’accoglienza, dell’ospitalità nella vita cristiana. L’ospitalità non deve essere considerata solo come una virtù cristiana e politica, ma il tempo kairos) e lo spazio dove, superata la paura e la mancanza di conoscenza dell’altro, Dio si rivela inaspettatamente trasformando la vita delle persone. L’accoglienza diventa, quindi, un locus theologicus, il luogo in cui, accogliendoci reciprocamente, accogliamo in realtà Dio e i suoi angeli, anche senza rendercene conto (cf. Eb 13,2).
È nostro intento riflettere sull’ospitalità intendendola come categoria teologica capace di rispondere alle richieste dei segni dei tempi che viviamo. Siamo convinti che la cifra dell’ospitalità, indagata come pensiero prima ancora che come pratica, aiuti a pensare e a praticare lo stile del dialogo. È lo stile che inevitabilmente genera le pratiche di ospitalità: relazionali, ecclesiali, pastorali, ecumeniche.
La pratica ospitale chiede un pensiero ospitale per diventare pratica diffusa (virtù), non declinazione operativa, ma stile delle persone e delle comunità che professano un credere ospitale.
Pratica ospitale
L’ospitalità è una delle più antiche e diffuse forme di virtù sociale dell’umanità. Le radici di questa virtù sono certamente da ricercare nell’obbligo all’aiuto reciproco, specie in considerazione che la necessità di essere accolto è esperienza che prima o poi chiunque si trova a fare. Così, per garantire che chi ne ha bisogno possa trovare accoglienza, ogni religione e sapienza umana ha sempre posto l’ospitalità come un obbligo sacro.
Non possiamo però non notare che nell’Antico Testamento non si trovi nessun comandamento al riguardo, e che l’ospitalità non fa parte delle virtù per le quali sia prevista una speciale benedizione (o maledizione nel caso di trasgressione dell’obbligo dell’accoglienza).
Eppure proprio all’ospitalità e all’accoglienza (perché ci sia ospitalità occorre essere capaci di accoglienza, ecco perché i due termini in questo articolo saranno spesso usati come sinonimi) sono legate molte storie bibliche. I patriarchi prima e l’intero popolo poi si presentano originariamente come “stranieri” che possono vivere solo se “accolti” da altri. La vicenda di Abramo, il padre per eccellenza di Israele, ne è paradigma essenziale (cf. Gen 18,1-10).
Al forestiero che si accoglieva a casa non veniva chiesto né il nome né l’identità, perché era sufficiente trovarsi di fronte a uno straniero in condizione di bisogno affinché scattasse la grammatica dell’ospitalità. La reciprocità delle relazioni d’accoglienza era alla base delle alleanze tra persone e comunità, che componevano la grammatica fondamentale della convivenza pacifica tra i popoli.
La guerra di Troia, l’icona mitica di tutte le guerre, nacque da una violazione dell’ospitalità (da parte di Paride). La civiltà romana continuò a riconoscere la sacralità dell’ospitalità, che veniva anche regolata giuridicamente. La Bibbia, poi, è un continuo canto al valore assoluto dell’ospitalità e dell’accoglienza dei forestieri, che, non di rado, vengono chiamati “angeli”.
Il primo grande peccato di Sodoma fu rinnegare l’ospitalità a due degli uomini che erano stati ospiti di Abramo e Sara alle Querce di Mamre (Gen 18–19), e uno degli episodi biblici più raccapriccianti è una profanazione dell’ospitalità – lo stupro omicida dei beniaminiti di Gabaa (Libro dei Giudici, 19). Il cristianesimo raccolse queste tradizioni sull’ospitalità, e le interpretò come una declinazione del comandamento dell’agape ed espressione diretta della predilezione di Gesù per gli ultimi e i poveri: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35).
L’ospitalità richiede ben di più che permettere l’esistenza dell’altro. Certamente, è già un grande passo di umanità la concessione che l’altro possa esistere nella sua alterità e diversità, “accanto” a me. Tuttavia ben diverso è l’atteggiamento necessario per fargli spazio e permettergli di entrare dentro la “mia casa”.
Non offriamo l’ospitalità da vicino, non la forniamo sotto una quercia nel bosco o lungo la strada, ma si dice all’amico: “Vieni a casa mia”. Avete mai pensato a quella frase che è sorprendente: Vieni a casa mia? Suggerisce che l’accoglienza è prima spirituale, che aprirò al mio ospite il mio “io”, il mio cuore.
Perché la mia casa sono io, il mio io allargato. La casa si prende cura di me come il corpo all’anima, è per me come il mio corpo sono io. La casa focalizza l’uomo, fisicamente e moralmente. Favorisce l’intimità; attraverso di essa si sa dove incontrarsi, dove radunarsi.
L’ospite migliore è colui che mette tanto a proprio agio colui che è arrivato da farlo sentire come a casa propria: c’è qualcosa di sacro, c’è qualcosa di divino nell’ospitalità. Immagino Dio che, per chi ci crede, quando ci accoglierà alla fine della nostra vita farà di tutto per non farci sentire scomodi o fuori posto, per non metterci a disagio. Forse il Paradiso, per chi ci crede, consisterà nel sentirsi totalmente, completamente, interamente accolti. Sarà il non patire più alcuna lontananza.
È particolarmente significativo che una delle cifre della relazione dell’umanità con Dio in Gesù Cristo sia proprio la categoria dell’ospitalità: dinanzi a un Dio che si fa presenza nella vita del mondo, l’atteggiamento da assumere non può che essere quello dell’accoglienza.
Non è un caso che l’ultima immagine di Dio che il Nuovo Testamento ci offre sia proprio quella di qualcuno che promette di arrivare (cf. Ap 22,20) e, in questo, assume la condizione di chi bussa alla porta attendendo che gli venga aperta: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
Anche il Vangelo di Giovanni esprime il mistero dell’incarnazione con le stesse categorie: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome […] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,9-14).
Esponendomi all’altro, accogliendolo presso di me, nella mia casa, alla mia tavola o semplicemente sulla soglia – e a condizione che io sia vero con me stesso in questa accoglienza –, sono sempre in attesa che l’altro faccia lo stesso. Se per miracolo lo fa, io divento suo ospite ed egli mi dà ospitalità. Questa è la trama fondamentale che attraversa le Scritture, dalla figura di Abramo fino al pasto promesso nell’Apocalisse.
Così, se relazionarsi a Dio è innanzi tutto accoglierlo, fargli spazio, non meraviglia che lo stesso atteggiamento sia richiesto anche nei confronti delle altre persone, addirittura riconoscendo loro una qualità divina. Accogliere qualcuno è fondamentalmente accogliere Dio, e non ospitare chi bussa alla nostra porta viene paragonato al non ospitare Dio stesso.
Vari sono i brani che esprimono questo principio fondamentale, spesso ricordando proprio l’esperienza di Abramo a Mamre: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (Eb 13,2); “ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35; cf. anche i vv. 38.40.43-45).
Queste considerazioni permettono di allargare lo sguardo da atteggiamenti individuali più o meno virtuosi a quello che potremmo definire un vero e proprio stile sociale. Sappiamo bene dalla storia come la vitalità e la longevità di una civiltà (di una cultura, di un “impero”) siano direttamente proporzionali alla sua capacità di accogliere popolazioni differenti, facendo loro spazio sia fisicamente sia culturalmente.
Quando invece l’atteggiamento diviene ossessivamente difensivo e la società si organizza secondo il detto latino «hospes hostis» (ovvero ogni straniero è nemico), si assiste a un veloce e inesorabile degrado che finisce per travolgere anche chi pensava di difendersi da un pericolo e garantirsi la sopravvivenza. Solo l’inattesa irruzione di qualcun altro può rimetterci in piedi e in movimento.
L’ospitalità è stata una caratteristica della vita civilizzata in molte società, ma è impressionante vedere anche la prossimità minacciosa fra ospitalità e ostilità. I greci hanno un solo termine, xénos, per riferirsi al nemico-straniero e all’ospite, mentre il latino, come abbiamo visto, attribuisce la stessa radice hostis allo straniero e all’invitato.
Disposizioni essenziali per l’ospitalità
L’ospitalità implica una gamma di relazioni intricate e dice rispetto all’accoglienza dell’altro e dell’accettazione della differenza. È un tema chiave nell’approccio relazionale tra gli esseri umani.
L’ospitalità richiede alla persona una gamma di disposizioni che risultano essenziali. Perché avvenga un dialogo autentico è necessario, prima di tutto, alimentare la vita con un’attitudine di ricerca essenziale e profonda. Partire sempre animati dalla convinzione che si sta percorrendo un cammino “in suolo sacro”. L’altro è portatore di un “patrimonio umano” che non può essere rivelato o minimizzato. La ricerca di un contatto stretto e disarmato con l’altro è anch’esso un prerequisito essenziale.
Questo richiede una prima attitudine di rispetto e amicizia. È necessario avere rispetto per le persone e per le loro convinzioni, riconoscendo che in esse vive ciò che c’è di più prezioso. Tale clima spirituale deve comprendere tutti i passi del processo di ospitalità, con l’attenta disponibilità a mettersi sempre in discussione. L’ospitalità non può essere intesa come leva per altri scopi; non può essere intesa come mezzo per l’evangelizzazione.
Purtroppo soprattutto noi ministri ordinati veniamo educati a relazioni “funzionali”, “strumentali”, cioè miranti allo scopo di evangelizzare. Le nostre sono appunto relazioni “pastorali”. Non dimentichiamo che “pastorale” deriva da “pastore”. “Pastore” è colui che provvede al “pasto” delle pecore. Quindi la nostra formazione è unidirezionale.
La formazione di “allevamento dei presbiteri” è orientata a “imboccare” gli altri, a preparare la “pappa”, il “pasto” per gli altri. Abbiamo sempre qualcosa da dare agli altri, giammai da ricevere! Urge un’educazione alla convivialità delle posizioni, delle convinzioni, delle culture, delle fedi, delle prospettive e delle visioni.
Ecco allora che l’ospitalità necessità di un’altra attitudine: l’umiltà. L’apertura all’altro esige tale abbandono di sé, una consapevolezza della contingenza e della vulnerabilità. Come osserva Panikkar, “nessun individuo, nessun gruppo umano, neppure tutta l’umanità vivente in un dato momento della storia può incarnare la misura assoluta della verità”[1].
Niente di più letale per il dialogo che il sentimento di superiorità, di hybris arrogante o di disprezzo anche se camuffato. Il dialogo, l’ospitalità, richiede questo svuotamento di sé, questa kenosis, per poter lasciare emergere l’altro, questo decentramento essenziale, questa apertura di cuore.
C’è anche un’altra disposizione importante, che comprende la simpatia e l’attenzione verso l’altro. Bisogna rivolgersi all’altro, esporsi al suo enigma e mistero con un’attenta applicazione di spirito. Stare attenti e vigili per addentrarsi dentro le sue frontiere, sintonizzarsi con la sua vita. Simone Weil parlava della “virtù miracolosa della simpatia”, cammino essenziale per addentrarsi nel mondo interiore dell’altro; e anche dell’attenzione come “la forma più rara e più pura della generosità”[2]. Virtù che sono essenziali per la conoscenza dell’altro a partire da dentro, rompendo le gerarchizzazioni problematiche. Sosteneva con ragione che colui che conosce il segreto dei cuori è l’unico che conosce anche il segreto delle differenti forme di fede. L’attenzione è la porta d’entrata per l’ospitalità.
Ospitalità e alterità
L’alterità è caratterizzata da un patrimonio di mistero che si rivela in ogni momento, permettendo di capirne in ogni occasione la sua importanza. Essa sempre sconcerta e seduce. Traduce prima di tutto il mistero della meraviglia, che è fascino e ammirazione. E’ quando l’alterità si presenta in maniera significativa e accade l’impatto con l’altro, con la sua inusuale e improrogabile presenza. E’ questa ammirazione che rende possibile lo stupore e mette in moto una provocazione inedita di decentramento e apertura.
Nella sua lezione sulla metafisica, nel 1929, Martin Heidegger segnala questo incontro con “la stranezza dell’ente”. L’ammirazione succede proprio nel momento in cui la stranezza si scontra con il soggetto, obbligando all’indagine e al perché[3].
La presenza dell’altro non suscita solo ammirazione, ma anche inquietudine nella misura in cui la sua presenza provoca disorientamento e una deviazione del cammino sicuro fino a quel momento seguito[4]. E’ l’altra parte della dinamica dell’alterità, che provoca l’esperienza del limite e della frontiera, dell’auto-esposizione al mondo dell’altro.
I cammini dell’ospitalità includono anche questo processo di agonia e di straniamento. Ciò è stato notato con ragione dallo studioso Alain Montandon, in una preziosa prefazione al libro curato da lui stesso. Per parlare del tema, parte da una domanda posta da Ulisse nell’Odissea, quando percorreva i mari dentro avventure che erano prove di ospitalità. Quando arrivava ad una nuova spiaggia, si scontrava sempre con la stessa singolare domanda: “Incontrerò dei cattivi, dei selvaggi senza legge o uomini ospitali, timorosi delle divinità?” (Odissea, XIII, vv. 200-202).
L’ospitalità era così un segnale di civilizzazione e di umanità. Sulla base del famoso saggio di Marcel Mauss sul dono, Montandon indica che l’ospitalità non si riduce semplicemente all’offerta di un riparo o di un pasto, ma si rivela come un “fenomeno sociale totale”. Quello che si condivide “non sono solo beni di consumo, ma cortesie, banchetti, riti, danze, feste”[5].
L’ospitalità ha inizio sulla porta di casa, quando succede il fatto di imbattersi nel volto di uno sconosciuto, di un estraneo o di uno straniero. Lì si pone la delicata questione del “limite tra i due mondi”, quello di dentro e quello di fuori. Si tratta di una linea di demarcazione di un’intrusione, dal momento che l’ospitalità è intrusiva, essa comporta, volendo o meno, un aspetto di violenza, di rottura, di trasgressione, perfino di ostilità.
È quello che Derrida ha chiamato “ostipitalità” nella misura in cui tale dinamica di incontro/scontro segnala una frontiera quando non una minaccia. L’ospitalità segna un limite, ossia, una linea che comporta una trasgressione, un’intrusione. Penetrare nel dominio dell’altro[6].
Si deve battere piano, con attenzione, alla porta dell’altro. Entrare in un nuovo spazio richiede cautela, delicatezza e attenzione. Occorre mantenere un profilo basso e rinunciare ad imporre. Il gesto dell’ospitalità presuppone rompere i residui di ostilità che sono sempre implicati negli atti che fanno parte dell’incontro. Questo non significa rompere la distanza che permane vigente: “Il paradosso del gesto ospitale è quello di dover offrire preservando, di mantenere la distanza instaurando una presenza”[7]. Non si tratta semplicemente di un’“accoglienza integratrice”, ma di un radicale rispetto verso l’alterità che è irriducibile e irrevocabile. Nella pratica dell’ospitalità avviene quella trasformazione che implica un dono di sé.
Quale condizione essenziale dell’ospitalità c’è il dialogo, il passaggio dall’io al noi, all’esercizio dell’amicizia che comporta l’accoglienza dell’altro nella sfera dell’intimità. C’è nel dialogo un singolare esercizio di oltrepassare le frontiere, di avanzare oltre i limiti della nostra finitudine e contingenza. Il dialogo lascia sempre un “segno” che rivela un orizzonte inaudito: “Ciò che fa un vero dialogo non è aver sperimentato qualcosa di nuovo, ma aver incontrato nell’altro qualcosa che ancora non avevamo incontrato nella nostra propria esperienza di mondo (…). Il dialogo possiede una forza trasformatrice. Dove il dialogo ha avuto successo è rimasto qualcosa per noi e in noi che ci ha trasformato. Il dialogo possiede, così, una grande prossimità con l’amicizia”[8].
Non c’è un cammino promettente se non attraverso il dialogo, nonostante occorra riconoscere le difficoltà e le tensioni che caratterizzano la sua realizzazione. È sempre un tesoro prezioso, una zona di avventura, spavento e inquietudine.
È una “zona di passaggio”, una “cartografia incompleta” dove gli interlocutori sono invitati, mantenendo la propria identità, a riflettere sotto una nuova luce. Decentrati dal loro rispettivo centro, sono messi in direzione di un nuovo punto di luce e di un gesto solidale. Al centro del dialogo c’è l’accoglienza: nella bellezza del volto che contemplo, nello sguardo dell’altro che mi osserva e mi invita a muovere le labbra.
A proposito di volti, don Tonino Bello affermava: “Vorrei ricordare una bellissima e suggestiva frase di Emmanuel Levinas: “L’altro – dice – è un volto da scoprire, contemplare e accarezzare”. C’è tutta la nostra teoria morale: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Rivolti verso l’altro. Volti rivolti”[9].
Il dialogo è l’espressione viva della nobile virtù dell’ospitalità. Richiede l’apertura delle porte, un respiro aperto, uno spazio luminoso. E’ condizione essenziale per una cultura della pace.
L’incontro con l’altro non può ridursi ad essere una “mescolanza sonora”, ad un semplice esercizio di ascolto, ma deve implicare i cuori e le menti in un movimento di amicizia e di ricerca di comprensione mutua. Non sono individualità ferme e impenetrabili quelle che si incontrano, ma due mondi che si implicano, anche se conservano ognuno un mistero che rimane insormontabile. E’ la stessa individualità che è convocata ad aprirsi e ad appropriarsi di nuove possibilità. Non è semplice, dal momento che provoca una lotta interiore, di rimozione dei dubbi per lasciarsi ospitare dal diverso.
L’ospitalità come accoglienza dell’alterità caratterizza la figura di Gesù di Nazaret, «l’essere ospitale» per eccellenza. Ogni terra può diventare terra promessa quando degli esseri vivono l’incontro fino in fondo, come ha fatto Gesù di Nazaret. (…) La sua ospitalità è radicale, al punto che egli si annulla per permettere all’altro di trovare la propria identità: «La tua fede ti ha salvata» (Lc 7,50; 8,48; eccetera).
Quando si reca alla tavola di Simone il fariseo (cf. Lc 7,36-50), si tratta per lui fin da subito di un’ospitalità aperta. Nelle scene evangeliche, quasi mai Gesù si trova in un faccia a faccia. Sempre interviene un terzo: in casa di Simone, è la donna che sopraggiunge e gli bagna i piedi con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli…
L’accoglienza e l’ospitalità dovrebbero essere innanzitutto realtà quotidiane, che pratichiamo per andare oltre il dialogo, oltre l’incontro, verso una comunicazione più vitale, verso la comunione. L’ospitalità, infatti, non si ferma all’incontro con l’altro sul terreno neutrale di una lingua comune, ma lascia entrare l’altro nel proprio spazio, nella propria casa.
Viviamo in un’epoca in cui le paure si ingrandiscono, le frontiere si chiudono. Vogliamo ricordare che l’ospitalità è un tema centrale nel Vangelo. Dio ci accoglie sempre, senza condizione. Cristo bussa alle nostre porte, si presenta a noi come un povero, non si impone ma ci chiede di accoglierlo. Ci dà fiducia e vuole che questa stessa fiducia possa abitare anche nelle nostre vite e tradursi in fiducia per gli altri. Nessuna società può vivere senza fiducia e il nostro pellegrinaggio di fiducia sulla terra vuole semplicemente essere un segno di speranza. La speranza che una civiltà dell’ospitalità è possibile.
Per un’etica dell’ospitalità
L’ospitalità concerne molteplici dimensioni della nostra vita, nelle relazioni brevi e nelle relazioni lunghe, negli incontri sociali, politici o religiosi. Non è forse perché essa è legata alla radice del nostro comportamento morale come atteggiamento fondamentale nei confronti degli altri? Certi autori hanno persino fatto di questa nozione la metafora inglobante della moralità[10]. Più in larga misura, gli autori filosofici hanno trattato la relazione Io-Tu in modi diversi, dando significati variegati alla presenza dell’altro[11].
L’ospitalità è una delle grandi sfide del nostro tempo. Essa concerne il nostro incontro con l’estraneo, l’ignoto. Ci obbliga a scegliere il modo in cui reagiremo di fronte all’altro. Abbiamo bisogno di esercitare questa virtù dell’apertura e di resistere alle tendenze crescenti verso la chiusura, il tribalismo e l’isolamento. Abbiamo bisogno di accogliere le idee degli altri in modo da capirle, coglierne l’impatto e l’importanza e, infine, valutarle per poter argomentare con i nostri oppositori eventuali[12].
L’etica della discussione, necessaria per trovare un fondo comune di valori in un mondo pluralista, presuppone un tale atteggiamento, che è al cuore di ogni dialogo. Come riconosce Jurgen Habermas, le regole procedurali dell’etica della discussione devono essere completate da un senso di solidarietà che include la possibilità di abitare nel mondo dell’altro: “secondo i presupposti pragmatici di una discussione inclusiva e non-violenta fra partecipanti liberi ed uguali, ciascuno è obbligato ad adottare la prospettiva degli altri e così a proiettare se stesso nella comprensione di sé e del mondo che è propria di tutti gli altri”[13].
Un tale atteggiamento necessario al dibattito democratico deve essere appreso in vista di una cultura e di un’etica della “convivialità delle differenze”, secondo il noto sintagma di don Tonino Bello. La tradizione cristiana, attraverso l’impatto della virtù, può contribuire a tal fine.
L’ospitalità è un modello di integrazione tra identità e alterità. Essa indica un’attenzione all’altro poiché, come me, l’altro è un essere umano. L’altro nella sua estraneità non è totalmente altro, ma è colui che posso accogliere nella sua alterità come simile in umanità. L’ospitalità e il dialogo non sono uno scambio inutile di idee, ma il compito mai terminato di aprirsi all’altro facendogli un posto presso di sé, nella propria vita, nella propria casa, nella propria lingua e cultura.
Ospitalità: virtù del presbitero-educatore
L’accoglienza rispettosa e benevola è un fattore fondante e incrementante la qualità della vita personale e comunitaria. È la condizione generativa della relazione e del senso di appartenenza. Accogliere rispettosamente e benevolmente significa accettare anche che l‘altro sia dissimmetrico. Ospitare il tu è permettergli di esistere accogliendo la sua vulnerabilità e la sua precarietà.
Ospitare l’altro è fargli posto, è offrirgli un posto in cui sentirsi a proprio agio e in cui muoversi con libertà, è farlo sentire “a casa”. L’accoglienza non può essere confusa con la sopportazione o con la consolazione o con la compassione o con il filantropismo o con l’accettazione condizionata e, tantomeno, con la difesa dall’altro.
L’ospitalità si concretizza in un incontro che si costruisce e si mantiene quando la persona (ospitante) sa dislocare il proprio sguardo e il proprio interesse da sé all’altra (ospitata) quando si volge verso l’altra e non si ripiega su di sé, vede nel chiunque non l’estraneo o lo straniero bensì il simile. Per quanto possibile, lo tratta come prossimo e non antepone se stessa all’altro, si apre e non si chiude, si rende sempre più visibile e sempre meno opaca, si raccoglie e non si distrae, esprime interesse e sensibilità all’altro e non lo rende destinatario di atteggiamenti e comportamenti egocentrici e dominanti, sa concentrarsi sulla propria interiorità e sa ascoltarla.
L’incontro ospitante, mentre implica l’esodo dal proprio io e l’espropriazione di sé, chiede alla persona di rendersi autrice di espliciti quanto continui messaggi di accoglienza e sensibilità e di accettare e difendere la singolarità e l’irrimpiazzabilità dell’altro.
L’umanità si manifesta facendosi incontro. La persona giunge a se stessa protendendosi oltre se stessa verso l’altra, accogliendola incondizionatamente, gratuitamente, senza attese di ricompensa.
Grazie alla condotta ospitale, chi svolge compiti formativi, come il presbitero, riesce a uscire dal proprio ruolo, a distaccarsi dall’immediatezza del proprio essere, a liberare lo spazio dell’incontro dal troppo pieno del proprio sé, ad assumere una postura cava, a rendersi disponibile all’altro “scorgendolo” soggettività singolare interrogante e interpellante, ponendosi dal suo punto di vista ed esprimendo attenzione e fedeltà per il suo futuro e le sue attese, la sua gioia e la sua sofferenza, i suoi progetti e le sue speranze, e ad accompagnarlo pazientemente in un percorso di ulteriorizzazione[14].
L’incontro interpersonale si costruisce e si mantiene volgendosi verso l’altro, aprendosi, concentrandosi, esprimendo attenzione e sensibilità all’altro. Per renderlo destinatario di accoglienza educativa è necessario fargli posto nella propria anima, ospitarlo nella propria mente, essere presenza, offrirgli dedizione, regalargli tempo, donargli energie, dislocarsi dai propri interessi e dai propri affanni, dai propri bisogni e dalle proprie ansie.
Grazie all’evento dell’incontro, il presbitero-educatore è chiamato a “uscire da sé”, ed è sollecitato a rendersi disponibile all’altro mettendosi dal suo punto di vista e assumendone generosamente e fedelmente il destino e le aspettative, la gioia e la sofferenza, i progetti e le speranze, a rispettarne e coltivarne le ricchezze senza sostituirvi le proprie, ad accompagnarlo in un cammino di libertà senza deresponsabilizzarlo.
Un’ospitalità diventa opportunità pedagogica di incremento di umanità, di coinvolgimento dell’altro nel processo di crescita, di un progressivo umanarsi dell’altro. Il presbitero-educatore deve passare da un io convesso ad un io cavo, per “accorgersi” dell’altro, “sporgersi” su di lui, andargli incontro, aprirsi a lui, farsi “sorprendere” da lui, comprenderlo e aiutarlo ad esprimersi.
[1] R. PANIKKAR. Religione in C. FLORISTAN e J. J. TAMAYO, Concetti fondamentali del Cristianesimo, Borla, Roma, 2000, p. 1149.
[2] S.WEIL E J.BOUSQUET. Corrispondenza. Milano: SE SRL, 1994, p. 13. Si veda anche S. WEIL, L’attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2008 e Lettera a un religioso, Adeplhi, Milano, 1996
[3] M. HEIDEGGER. Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 43.
[4] B. FORTE. Teologia in dialogo, Cortina, Milano, 1999, p. 61.
[5] A. MONTANDON (a cura di), O livro da hospitalidade: acolhida do estrangeiro na historia e nas culturas, Senac, São Paulo, 2011, p. 32.
[6] Cf. F. TEIXEIRA, Il reticolo dell’ospitalità. L’articolo è frutto dello stage senior che l’Autore ha fatto presso l’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” di Venezia dal dicembre 2015 al febbraio 2016, qui.
[7] A. MONTANDON (a cura), O livro da hospitalidade: acolhida do estrangeiro na historia e nas culturas, Senac, São Paulo, 2001, p. 35.
[8] H. G. GADAMAER, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983, p. 247.
[9] A. BELLO, Volti rivolti, Edinsieme, Terlizzi 1996, p. 15.
[10] Cf. R. KEARNEY– J. TAYLOR (edd.), Hosting the Stranger between Religions, Continuum, New York-London 2011.
[11] Cf. J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2008; E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2010.
[12] Cf. A. THOMASSET, Un’etica delle virtù sociali. Giustizia, solidarietà, compassione, ospitalità, speranza, Queriniana, Brescia 2022, pp. 181-228.
[13] J. HABERMAS, Reconciliation trough the Public Use of reason. Remarks on John Rawl’s Political Liberalism, in “Journal oh Philosophy 92/3 (marzo 1995), pp.117-118.
[14] Cf. B. ROSSI, Il lavoro educativo. Dieci virtù professionali, Vita e Pensiero, Milano 2014, pp. 111-121.