Le vitali nature morte di Giorgio Morandi

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Ci sorprende l’immagine di una natura morta di Giorgio Morandi sul frontespizio del fascicolo che accompagna la celebrazione liturgica matrimoniale di una giovane coppia. Una scelta iconografica raffinata, di silenziosa e vitale intimità.

Un’occasione per riguardare la produzione artistica di un grande artista italiano del ’900, stimolante nella ricerca dell’essenziale, del segreto delle cose.  Un modo per riflettere sul tema della natura morta (o “viva”, in inglese still life-vita ferma) quale modello di una convivenza spirituale tra oggetti comuni e atmosfere.

Nei quadri dell’artista bolognese (1890-1964) in mostra a Milano (qui) è in scena la ferialità della vita domestica, il quotidiano nella sua astrazione metafisica e nella sua dimensione spirituale e filosofica. Le bottiglie, scodelle, stoviglie – simili a quelle che ritroviamo ogni giorno sulla tavola – vengono ripetutamente dipinte nell’arco temporale dei primi sei decenni del secolo scorso.

Quegli anni, segnati da deflagrazioni belliche e importanti trasformazioni economico-sociali, sembrano silenziati dallo sguardo di un maestro che vive tra le camere-studio di via Fondazza a Bologna e a Grizzana sull’Appennino emiliano, insegnando disegno prima nelle scuole elementari poi all’Accademia di Belle Arti.

Nelle immagini, in cui è possibile leggere un intimo diario nella ricerca dell’essenzialità espressiva, sempre si coglie la calma eco di una pittura che assorbe il rumore del mondo. I primissimi lavori risalgono agli anni del primo conflitto mondiale e – pur risentendo delle avanguardie di una Parigi che tuttavia Morandi mai frequentò – sono decisamente lontani dai clamori della città.

Nel tempo, sono assimilate le lezioni degli amati esponenti della pittura italiana: il realismo di Giotto, il rigore matematico di Piero della Francesca, la luce di Caravaggio. Ci sono risonanze di Chardin, Cezanne, Picasso. Lezioni assorbite senza mai rinunciare alla propria originalità esistenziale e sociopolitica (nel maggio del 1943 l’artista venne arrestato come oppositore del regime fascista). Le pure cose, ritratte nel loro isolamento silenzioso e assediate dallo sguardo dialogico di Morandi, evocano una polvere ben diversa da quella dipinta virtuosisticamente dai Baschenis sulle tele secentesche che ritraggono strumenti musicali.

Quella morandiana è una polvere che suggerisce l’eternità del tempo presente. Chi ha descritto le stanze in cui il maestro dipingeva – “non un atelier nel senso pomposo del termine ma una camera di media grandezza con una finestra aperta su un piccolo cortile ricoperto di verde” (W. Haftmann) – riferisce anche il modo in cui egli lavorava. Faceva lentamente comparire gli oggetti, studiando gli spazi e i volumi perché la loro presenza restituisse verità ed “evidenza mentale” (Cesare Brandi) alle cose stesse.

Non è difficile associare questa espressione alle riflessioni che la corrente filosofica della fenomenologia aveva inaugurato nel primo ’900 europeo. Comune – pur nella diversa grammatica dei linguaggi – il lavoro di astrazione, riduzione e scavo. In primo piano, c’è la ricerca dell’essenza che non prescinde dal peso della materia né dalle vibrazioni sensoriali ed emozionali. Vibrazioni attentamente ascoltate e raccolte. Inevitabili i richiami alla poesia (non solo l’ermetismo di Ungaretti e Montale ma anche la lirica di Leopardi, intensamente amato dall’artista) e alle larghe pause presenti nelle partiture musicali novecentesche.

Negli anni Venti e Trenta del ’900, quando i totalitarismi prendevano foscamente corpo in Europa e in Italia, con modestia e semplicità Giorgio Morandi lavorava guardando i suoi oggetti domestici, le strade e i cortili bolognesi restituendo a queste presenze la bellezza che i più non coglievano. La sua biografia rivela una coraggiosa insistenza nel dipingere soggetti a lui cari anche quando alcune voci, un tempo amiche, non lesinarono critiche rimproverandogli monotonia e scarsa originalità.

Eppure, la stessa bottiglia dal collo sinuoso è ogni volta diversa. Le composizioni risultano differenziate dalla luce, dagli angoli di visuale, dagli impasti pittorici e dalle variegate, calde e pallide cromie. Come la Montagna Saint Victoire, ripetutamente dipinta da Cézanne, cambiava continuamente agli occhi dell’artista, poiché sempre nuova era la luce, e mutevole lo sguardo di chi la osservava in tempi e luoghi diversi e con cangianti vissuti interiori.

Non so per quale ragione la coppia di sposi abbia scelto una natura morta di Morandi per la copertina della raccolta di preghiere e di testi liturgici delle loro nozze. Forse hanno voluto sfidare la banalità della routine quotidiana con la magistrale ricerca di forme essenziali nelle cose di tutti i giorni. Oppure hanno pensato di avvicinare la mensa eucaristica all’affascinante atmosfera interiore di una tavola domestica morandiana. Ci piace credere che abbiano apprezzato la scelta singolare e unica di un maestro che non si fece sconvolgere dagli eventi né dalla solitudine esistenziale ma caparbiamente seppe ricercare la forma delle cose e dei paesaggi più prossimi attraverso luce e colore.

 A loro, comunque, l’augurio di cogliere affacci sempre nuovi e vitali, in cui finitudine e semplicità si aprono all’eterno.  Con lo stesso coraggio e rigore propri di un grande artista nei cui quadri «c’è sempre un punto da cui spiare l’infinito» (Bernardo Bertolucci).

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