Dei fide, qua vivimus, Con fede in Dio, che è vita,
qua spe perenni credimus nostra speranza eterna,
per caritatis gratiam grazia che infonde carità,
Christi canamus gloriam. cantiamo a Cristo gloria.
Qui ductus hora tertia Condotto all’ora terza
ad passionis hostiam, a patire da vittima,
crucis ferens suspendia portò la croce, e riportò
ovem reduxit perditam. la pecora perduta.
Precemur ergo subditi, Preghiamo allor da sudditi,
redemptione liberi, redenti e fatti liberi:
ut eruata saeculo dal male ci distolga
quos solvit a chirographo. chi la condanna sciolse.
Le tre strofe di questo inno che introduce la preghiera di metà giornata costituiscono un esempio pressoché perfetto dei tre stadi che dovrebbero formare la schema base di ogni preghiera.
A noi, quando ci mettiamo a pregare, può capitare, o forse capita anche spesso, di partire da una richiesta. Naturale, se si pensa che il motivo che ci spinge sovente a pregare è una situazione di necessità per cui, o chiediamo di essere liberati da un male che ci affligge, o domandiamo in dono una grazia che ci soccorra nel fare il bene. Sono le due ali della preghiera di domanda, come ha ben illustrato Lancelot Andrewes in Una guida per la preghiera (Qiqajon 2015).
L’inno ribalta il percorso: la richiesta viene solo alla fine, dopo che ci siamo messi alla presenza di Dio evocando il suo volto (prima strofa), e dopo aver ricordato quello che Dio “ha già fatto” per noi, un qualche evento della “storia della salvezza” nella quale ci inseriamo con consapevolezza mentre entriamo in preghiera; qui si evoca un momento della vita di Gesù legato all’ora terza, la sua salita al Calvario e il frutto di bene che ne è venuto per noi (seconda strofa).
Ogni preghiera fatta nel corpo e nella storia della Chiesa non può prescindere da questo schema, che offre una logica piena e perfetta, e ci sottrae dal rischio di avvitarci un po’ sterilmente in un circolo che gira attorno a noi stessi, perdendo le coordinate fondamentali del legame con Dio, che di ogni preghiera è il fondamento, e con il suo popolo, che ne forma il paesaggio imprescindibile. Seguiamo lo schema.
- La prima strofa raccoglie in splendida sintesi Dio e Cristo, inquadrati nelle tre virtù teologali. In un linguaggio che più essenziale non si può, la fede è connessa con la vita, la speranza con l’eternità, la carità con la grazia.
Ognuna di queste frasi va meditata con attenzione, cosa non facile, perché si tratta di parole alle quali siamo così abituati che rischiamo di non coglierne più il senso profondo.
Dire che la fede in Dio è ciò per cui, o in cui, “viviamo”, significa ritrovare il messaggio fondamentale che Paolo mette in testa alla catechesi con cui si rivolge agli ateniesi nell’Areopago: «In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28), o ancora «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui» (1Cor 8,6). Ogni cosa che “vive”, o che semplicemente “esiste”, dovrebbe riportare alla nostra mente che “dipendiamo” da un Creatore, un “dipendere” che non ci umilia né ci fa perdere dignità, ma è invece l’unico fondamento che assicura la nostra consistenza.
La speranza, poi, un po’ a sorpresa, sembra dire la stessa cosa, visto che è la base del “credere” (credimus). Non è così. Anzitutto perché il credere (atto della mente), che è poi un affidarsi (atto del cuore), si fonda proprio sulla speranza, e poi perché si precisa che questa speranza è “eterna”. È un appiglio, fragile forse in noi, ma sicuro perché troviamo l’attracco in Dio, come ben evidenzia il simbolo dell’ancora (cf. Eb 6,19). Del resto, chi spera è perché crede, e chi crede in fondo non lo fa in quanto “vede” tutto chiaro, ma perché spera a partire da quel poco che vede, soprattutto nei “testimoni”. Credere e sperare sono due facce dello stesso sentimento.
Per finire, la carità diventa sinonimo di “grazia”, di quella cascata di doni che abbiamo ricevuto, e che ci stimola a nostra volta a donare (cf. Mt 10,8).
Messi così a fuoco i tratti del volto di Dio, siamo pronti a cantare la gloria di Cristo. Quale? Quella della croce.
- La seconda strofa è il nucleo narrativo-teologico che rimanda chiaramente alla passione; l’indicazione del tempo, l’ora terza della Liturgia delle ore, di cui l’inno costituisce l’introduzione, è quella in cui Gesù inizia il cammino sulla via dolorosa che lo porterà al Calvario e alla morte.
La prima parola, “condotto” (ductus) ricorda primariamente il gruppo di soldati che guida il corteo verso il patibolo. Ma il verbo è lo stesso che l’evangelista Matteo usa per indicare il momento della tentazione, quando, dopo il battesimo, Gesù è «condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1). Marco è più brutale, e scrive «fu spinto, cacciato» (Mc 1,12), quasi un anticipo che lega tentazione e passione; Luca scrive più gentilmente: «sotto l’azione dello Spirito» (4,1).
Può stupire che si canti la “gloria” di Cristo evocando lo strazio della sua morte. Peraltro, «nella croce di Cristo non vi è niente di tenero, niente di morbido, niente di delicato, niente che sia dolce per la carne e il sangue» (Aelredo di Rievaulx, Sermone 10,29).
Agli occhi della fede, però, come afferma Giovanni (12,32), nella croce appare la gloria, e questo per ciò che il Figlio vi ha realizzato morendoci sopra.
Il termine “vittima” rimanda al sacrificio che Gesù celebra sulla croce, ove è, nello stesso tempo, sacerdote e offerta.
L’attenzione deve concentrarsi sul frutto di tale sacrificio, sul “bello” della croce. L’inno lo fa in modo eccellente, trasfigurando il Crocifisso nell’immagine del Buon Pastore, come del resto usava fare nell’iconografia delle catacombe, in un tempo in cui era difficile trovare il coraggio di presentare come oggetto della propria fede un “morto in croce”.
Nell’inno, il Cristo che porta la trave alla quale sarà sospeso (suspendium) in realtà porta sulle sue spalle la pecora che si era perduta ed è stata ritrovata (cf. Lc 15,4-7).
Il logo del Giubileo della misericordia, in modo ancora più plastico, riproduce la stessa immagine collocando sullo spalle di Gesù, diventato il “buon samaritano”, il malcapitato caduto in preda ai ladri, immagine da sempre interpretata come quella dell’umanità ferita a causa della colpa. Si è marcata la connessione tra le due immagini, croce e pecora perduta, con due verbi, portò e riportò, che fanno eco.
Qui merita citare un passo di una bellezza straordinaria. È di Asterio di Amasea (IV-V sec.): «Vedi come, dopo aver trovato la pecora che si era persa, non la sferzò, non la costrinse a tornare al gregge spingendola con forza, ma dopo essersela messa sulle spalle, trattandola con dolcezza, la condusse al gregge, ricavando da quell’unica che aveva ritrovato una gioia più grande che dalla moltitudine di quelle rimaste nell’ovile» (Lettura di giovedì I Settimana di Quaresima).
Altrettanto bella e significativa è l’immagine usata da Lancelot Andrewes, secondo il quale il pastore “insegue” la pecora che si è persa, e scrive: «Seguire è già qualcosa, e però questo può essere fatto in modo debole e stando molto lontano; ma seguire nel folto e nel rado, seguire a fatica senza rinunciare, mai rinunciare fino a quando si raggiunge l’oggetto: è di questo che si tratta. Ed egli non cessò il suo inseguimento, anche se lungo e penoso, e lui stanco e sfinito, anche se questo lo fece sudare, e un sudore di sangue (cf. Lc 22,44)».
E, poco oltre, commentando il verbo “afferrò” (apprehendit), rimarca che è ben di più del semplice “prendere”, perché significa «strappare con forza, afferrare con grande veemenza, impadronirsi di una cosa con tutte e due le mani, una cosa che siamo felici di aver trovato, e che non vogliamo si perda di nuovo» (Andrewes, Dio è diventato uomo, Qiqajon 2012, p. 88-89). Quell’amore-carità, cantato come sostanza della nostra fede e della nostra speranza, trova qui la prova più bella e incoraggiante.
- Come viviamo allora la preghiera, in quale condizione ci dobbiamo porre?
L’inno ci descrive come “sudditi” e, insieme, “liberi grazie alla redenzione”. È una contraddizione? No. Se le due qualifiche debbono essere intese come una sequenza temporale, significa che la croce, da sudditi del diavolo che eravamo, ci ha resi liberi per il riscatto operato al Calvario. Lette invece in contemporanea, significa che la liberazione ottenuta da Cristo ci ha strappati dalla sudditanza al demonio per renderci “sudditi di Dio”, e questo è il senso profondo della libertà che ci ha guadagnato Cristo: ci ha resi liberi per servire!
Non è escluso che l’autore dell’inno intendesse esattamente questa ambiguità di significato del termine subditi. Merita in proposito segnalare quanto scrive il cistercense Isacco della Stella (sec. XII) in un passo folgorante, dalla pregnanza eccezionale:
«La condizione della natura, infatti, aveva stabilito l’uomo sotto il Signore;
la violazione dell’obbedienza lo ha messo sotto il giogo del nemico;
la riconciliazione della grazia invece lo ha sottoposto a un fratello servo come lui.
La natura l’ha sottomesso a Dio, la colpa al diavolo, la riconciliazione invece a un uomo da considerare suo amico» (Sermone 50, 10).
C’è tutta la storia della salvezza in questo paragrafo, messa sotto il segno della “sottomissione”, o dello stato di “suddito”. È scritto: «Siate sottomessi gli uni agli altri» (Ef 5,21), con il che rimaniamo sottomessi a Dio.
La richiesta che segue apre spazi di applicazione infiniti: ognuno vi ritrovi il suo. Si chiede di essere distolti/strappati dal “male” (così intendo il saeculum/mondo), dato che Cristo sulla croce ha cancellato il documento di condanna (cf. Col 2,14), sciogliendo così il nostro debito.
Quale? Quello che nasce dal peccato. Un debito che siamo chiamati a sciogliere anche noi. Come? Sostituendolo, e guarendolo, con un debito “virtuoso”, come scrive Paolo: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole» (Rm 13,8). Il canto (1) si fa memoria (2) e si traduce in servizio (3)!