Una ricorrenza – come capita per compleanni o anniversari vari – può essere occasione di nuove conoscenze e richiami di affetti non scontati, imprevisti. Così è forse per il sessantennale ricordato con gioia dal piccolo gruppo delle Monache Romite in un monastero poco noto, radicato in una storia antica e incastonato in uno spazio verdissimo.
Risale infatti all’8 settembre del 1962 l’ufficiale fondazione della comunità nell’ex monastero benedettino di Bernaga posto sulla sommità di un piccolo colle in provincia di Lecco. In quella data l’allora arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Battista Montini, con la scelta dell’immobile, diede avvio all’esperienza claustrale di una comunità che sarebbe stata guidata da Madre M. Candida Casero.
E dopo 60 anni nello stesso 8 settembre – ricorrenza della Natività della Vergine a cui il Duomo milanese è dedicato e data di apertura dell’anno pastorale diocesano – l’attuale arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ripercorrendo i passi del suo santo predecessore, si reca al monastero per celebrare con le monache e i fedeli i solenni Vespri della festività mariana.
Una cerimonia semplice e raccolta dove il Rito della Luce risplende con intenso significato. Quella “viva fiamma” è rimasta accesa in questi sei decenni: un tempo prezioso non nella sua mera quantità, ma perché ha consentito a molti di avvicinarsi a Dio grazie ad un luogo governato da donne che hanno scelto una vita di preghiera.
Dopo la recita dei vespri l’arcivescovo esprime gratitudine e benedice i presenti e gli amici del monastero che hanno beneficiato del silenzio, dei colloqui e delle meditazioni offerte. In una breve riflessione presenta la figura della neonata Maria come il segno di chi si affida totalmente a Dio e -nella sua fragilità – esprime forza nell’accogliere la Grazia. All’ingresso del Monastero, in una lapide, con ampie lettere, è scolpito questo motto: “Dio mi basta”.
Storie di donne nella storia
Le origini di questa comunità – come anche per famiglie, gruppi e associazioni sia laiche che religiose – affondano in intrecciate vicende storiche. Ci riferiamo alla “grande storia”, segnata in questo caso da esperienze monastiche risalenti alla prima età moderna con successive riforme, poi espropri e riacquisizioni ecclesiastiche; e la colleghiamo alla storia non meno grande fatta di scelte spirituali ed esistenziali singolari, a volte tratteggiate da carismi vivacissimi.
La vicenda della monaca romita Maria Candida Casero (1913-1989) – documentata da alcuni testi anche autobiografici – decolla nel più noto monastero del sacro Monte di Varese dove in epoca medioevale si aggrega una comunità eremitica e, a metà ‘400, due donne – Caterina da Pallanza prima e Giuliana da Verghera poi – scelgono di vivere in preghiera, dapprima isolate (Romite sarà il loro nome), ma in grado di accogliere altre presenze femminili.
Nel 1474 papa Sisto IV – su richiesta di Galeazzo Maria Sforza – autorizza l’erezione di un monastero che, secondo i desideri di Caterina, seguirà la regola di Sant’Agostino e le costituzioni dell’Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus. Nel 1769 sarà papa Clemente XVI a proclamare beate Caterina e Giuliana. Nomi “importanti” e altri apparentemente secondari scandiscono una vicenda secolare.
Ma torniamo a Suor Maria Candida, eletta nel 1967 Madre Abbadessa alla Bernaga. Ella apparteneva alla stessa Comunità varesina delle Romite (nella quale si inserisce nel 1935) e definiva la beata Caterina “un vero gigante, un colosso di santità, di penitenza e di sacrificio”.
Sicuramente attratta dalla scelta di una coraggiosa donna del XV secolo, che lascia tutto per ritirarsi in preghiera, ma soprattutto persuasa della necessità di una vita contemplativa radicale e nello stesso tempo feconda, confida all’arcivescovo Montini il proprio desiderio e richiede il sostegno: così con otto consorelle, lascia il monastero del Sacro Monte di Varese per fondare quello della Bernaga.
Monachesimo e arte
A lei si deve la nascita di altre due comunità monastiche tuttora in vita: ad Agra (VA) nel 1974 e a Revello (CN) nel 1986. L’arcivescovo, poi Papa Paolo VI, favorirà la ristrutturazione del monastero. Uno spazio che il segretario personale del papa – monsignor Pasquale Macchi – amò a tal punto da trascorrere lì gli ultimi anni di vita.
Il cenobio domina una piccola altura nel verde della Brianza e all’interno è impreziosito da opere d’arte contemporanea che lo stesso monsignore donò al monastero.
È nota, infatti, la ricca sensibilità artistica di Paolo VI che, anche con l’aiuto del suo segretario, auspicò e favorì un significativo rinascimento dell’arte sacra durante gli anni del suo pontificato. Sui muri della piccola cappella del Monastero – sobria e raccolta “cella” per la preghiera – si snoda una intensa via crucis.
Composta da 14 formelle bronzee con eleganti bassorilievi, è firmata da Enrico Manfrini (1917-2004), scultore allievo di Francesco Messina e già in cattedra all’Accademia di Brera. Sempre del Manfrini il crocifisso posto nella stessa cappella.
La statua della Vergine lì presente è dello scultore vivente Mario Rudelli (1938). Inoltre, un ritratto di S. Giovanni Paolo II, appeso nel Parlatorio, è opera di una donna: Dina Bellotti (1912-2003) che non a caso si fece conoscere come “la pittrice dei papi”.
Preghiera e colloquio
La cappella, i parlatori sono frequentati da persone di diversa estrazione socio-culturale – mi dice Madre Maria Alessandra. Si prega, si hanno colloqui con donne dalla vivace spiritualità, si riflette con loro su scelte esistenziali e di fede non semplici.
A fronte dell’evidenza di scarse vocazioni religiose e di profonde crisi spirituali anche tra consacrati e consacrate, non si deve ignorare che la storia della Chiesa è costellata di periodi critici dove proprio le riforme monastiche hanno favorito rinascite e fertili esperienze di vita religiosa. La scelta claustrale di donne contemporanee è un richiamo esplicito che meriterebbe maggiore risonanza.
Quando mi reco in questi monasteri isolati, a volte posti su alture, la voce del profeta Ezechiele mi accompagna: “Figlio dell’uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d’Israele” (Ez3,16). E così San Gregorio Magno la commenta in tempi di invasioni barbariche: “È da notare che quando il Signore manda uno a predicare lo chiama col nome di sentinella. La sentinella, infatti, sta sempre su un luogo elevato, per poter scorgere da lontano qualunque cosa stia per accadere”.
Il monastero, la cui prima pietra fu benedetta nel 1628 dall’allora cardinal Federico Borromeo, da 60 anni è un luogo nuovamente presidiato da un piccolo gruppo di donne- sentinelle che vigilano. Meritano attenzione e ascolto.