Come quando in una semplice e comune casa nasce un bambino: la vita si rinnova, il futuro si dischiude davanti a noi, le promesse sembrano compiersi, i germogli dei nostri desideri si aprono all’amore, tutto respira di gioia e di festa. Così è del Natale: un Bambino è nato per noi, compimento di tutte le attese e i desideri profondi di Israele e del genere umano, Colui nel quale siamo stati creati, scelti e amati, Colui che ci libera dalla schiavitù e dalla morte.
Questo canto di gioia, che attraversa la liturgia della Parola del tempo natalizio e viene scandito al ritmo di campane che suonano a festa, quest’anno stride con quella voragine che la pandemia da coronavirus sta scavando dentro le nostre anime e dentro la nostra società. La sofferenza, la morte, ma anche l’angoscia, la paura, la stanchezza, l’incertezza del futuro e tutto ciò che, tra una mascherina e l’altra, ci attraversa dentro come un rivolo d’acqua pacato, consegnandoci a una malinconia di fondo che quasi ci fa rigettare gli aspetti più festosi del Natale. La domanda ci sta tutta: quest’anno, che Natale sarà?
Nella notte, Dio viene
Eppure viene. Questo Dio ostinato nell’amore, che non tiene conto del male ricevuto e si rigetta dietro le spalle il nostro peccato, che non si arrende al male ma fa sorgere semi di speranza anche nei deserti più aridi, che soffre con noi quando cadiamo negli abissi del dolore, che mai e poi mai è il Dio dipinto da taluni, quello serioso, castigatore, vendicatore e assetato del nostro sacrificio, viene.
E il venire di Dio nella nostra vita e nella nostra storia è sempre un venire nella notte del cuore e del mondo. Nella notte di Israele, in quella di Giacobbe, fino alla notte Getsemani, notte di abbandono, solitudine e tradimento, quando Gesù scopre la radice della preghiera nell’atto di consegnarsi con fortezza interiore al proprio destino;[1] per poi giungere a quella notte che si apre al trionfo dell’alba la mattina di Pasqua, quando le donne scoprono la presenza vittoriosa dell’amore definitivo di Dio nel vuoto di una tomba, nella quale ormai la luce ha definitivamente vinto la notte del peccato e della morte.
Sempre di notte viene la luce. Ed è così anche nel Natale del Signore: la luce viene nelle tenebre del mondo e le tenebre non l’hanno vinta. Durante l’Udienza Generale del 10 giugno scorso, papa Francesco ha affermato: «Tutti quanti noi abbiamo un appuntamento nella notte con Dio, nella notte della nostra vita, nelle tante notti della nostra vita: momenti oscuri, momenti di peccati, momenti di disorientamento. Lì c’è un appuntamento con Dio, sempre. Egli ci sorprenderà nel momento in cui non ce lo aspettiamo».
Proprio nella notte può esserci una grazia nascosta, un mistero di benedizione della nostra vita che prende forma nelle domande, in una pausa rigenerante, in una possibilità di cambiamento, nella riscoperta di certi valori della vita. Questa notte del dolore o del dubbio può aprirsi alla luce della scoperta se la attraversiamo con la luce della fede e ci arrendiamo al Dio che è capace di squarciare ogni tenebra.
Come attendere il Signore che viene
Attendiamo il Natale, dunque. Coltiviamo con fiducia l’attesa del Signore che viene, senza per questo fuggire dalla notte della pandemia, né tantomeno cercando di attutirne il dramma. Ci mettiamo piuttosto nell’atteggiamento di chi coltiva la speranza, anche in mezzo alla notte, che Dio non delude le nostre attese e – come ci ha ricordato papa Francesco:
«Sappiamo bene che la vita è fatta di alti e bassi, di luci e ombre. Ognuno di noi sperimenta momenti di delusione, di insuccesso e di smarrimento. Inoltre, la situazione che stiamo vivendo, segnata dalla pandemia, genera in molti preoccupazione, paura e sconforto; si corre il rischio di cadere nel pessimismo, il rischio di cadere in quella chiusura e nell’apatia. Come dobbiamo reagire di fronte a tutto ciò? Dio cammina al nostro fianco per sostenerci. Il Signore non ci abbandona; In mezzo alle tempeste della vita, Dio ci tende sempre la mano e ci libera dalle minacce» (Angelus 29 novembre 2020).
In questa situazione che viviamo, abbiamo almeno tre aspetti importanti del Natale che possiamo recuperare e abbracciare con maggiore consapevolezza.
Il primo è imparare che «la fragilità è il nostro destino: la possiamo detestare perché ci impedisce di sentirci più forti, oppure accoglierla per sentirci più umani».[2] La pandemia ci ha fatti scoprire e sentire fragili, mentre nel nostro delirio di onnipotenza occidentale pensavamo di avere tutto sotto controllo. Non è un bambino appena nato il massimo della fragilità da custodire? Non è questo Dio l’antitesi di tutti i nostri miti di grandezza e potenza, se sceglie di farsi uomo e di nascere bambino in una grotta? Possiamo imparare a benedire la fragilità, come luogo che si rende ospitale per accogliere Dio e la sua Parola, avendo egli stesso scelto la via dell’abbassamento, nascendo nella carne e morendo sulla croce. E quando avremo benedetto la nostra fragilità, saremo anche diventati più umani.
Il secondo aspetto è la riscoperta del valore della sobrietà. Ne ha parlato anche papa Francesco. Su quest’aspetto non bisogna fare inutili moralismi. È bello anche scambiarsi dei piccoli doni a Natale, rallegrare i bambini con qualche regalo, comprare qualcosa di nuovo per noi o per le nostre case. Un’altra cosa è assistere a quanto riesce a produrre nelle nostre anime la frenetica società dei consumi, restringendo la nostra visuale, spingendoci a desiderare il superfluo, consegnandoci alla nervosa agitazione degli acquisti. Così «celebriamo una festa, forse l’unica che ancora celebriamo con intima convinzione, ma ci stiamo lentamente dimenticando del festeggiato! Insomma, una festa della nascita di Gesù ma senza Gesù! Celebriamo una festa in cui l’unico a mancare è il festeggiato».[3]
Quel Gesù che nasce lo possiamo contemplare in una cornice essenziale e semplice: una grotta, dei pastori, un villaggio sperduto in cui ha vissuto trent’anni. Un po’ di sobrietà, in questo tempo di pandemia, ci può far riscoprire il gusto dell’essenziale, la bellezza delle cose semplici, il tarlo velenoso dell’ansia di accumulare, una riscoperta delle cose che nella vita contano davvero.
Il terzo aspetto la crescita del senso di solidarietà. La semplicità del Natale, che ci fa riscoprire l’importanza della fragilità e il valore della sobrietà, ci indica che la vita acquista significato e sapore quando ci apriamo all’amore. Da soli non possiamo farcela: è la grande lezione della pandemia e, paradossalmente, anche quella del Natale. Adoriamo un Dio che è Dio-con-noi, che stabilisce relazioni, desidera raggiungerci, si apre all’incontro.
Oggi possiamo ripartire allargando nella società il senso della solidarietà tra gli uomini, recuperando l’importanza delle relazioni umane oggi costrette alla distanza, sviluppando un più evangelico senso della giustizia e dell’attenzione ai poveri. Il Natale ci parla di un Dio solidale con gli uomini che ci chiede di accoglierlo anzitutto nel volto degli altri.
Fragilità, sobrietà e solidarietà sono segni evidenti del Natale del Signore e sono vie che, suo malgrado, la pandemia ci ha messo dinanzi ai piedi. Percorrerle potrebbe essere un modo per riscoprire il significato del Natale e riflettere sul mondo e sulla società che vogliamo costruire nel prossimo futuro.
Una lettura del Natale
Il cardinale Martini nel dicembre del 2008, scrisse un testo sul Natale che sembra straordinariamente attuale. Egli ricorda come il contesto in cui accade Natale è oscuro:
«Un viaggio faticoso da Nazaret a Gerusalemme per soddisfare la vanità di un imperatore, le pesanti ripulse ricevute da Giuseppe che cerca un posto dove possa nascere il bambino, il freddo della notte, il disinteresse con cui il mondo accoglie il figlio di Dio che nasce. E su tutto questo grava una pesante cappa di grigiore, di incredulità, di superficialità e di scetticismo, evidenziata nelle gravissime ingiustizie presenti allora nel mondo. Non si può dire che il contesto del primo Natale fosse un contesto di luce e di serenità, ma piuttosto di oscurità, di dolore e anche di disperazione».
Dunque, se la pandemia ci ha sorpresi e ha fatto piombare «fitte tenebre» su di noi, coltiviamo l’attesa e alimentiamo la speranza: Dio ha vinto il mondo e la sua luce vince le tenebre.
[1] L’illuminante trattazione si trova nel testo di M. Recalcati, La notte del Getsemani, Einaudi, Milano 2019.
[2] G. Pani, Pietre che rimbalzano sull’acqua. Cerchi di teologia del limite per vivere il nuovo presente, Effatà, Torino 2020, 21.
[3] A. Matteo, Incontro al Natale. Un invito a credere di nuovo, Ancora, Milano 2020, 5.