L’anno liturgico ci sfida a trovare un senso alla ripetizione, oltre la noia che può provocare il già visto a chi è malato di modernità ed è sempre alla ricerca di nuove occasioni e nuove emozioni. Siamo ancora una volta, chiamati a scoprire il segreto della Parola e dei Sacramenti ripetuti in stagioni diverse della vita personale e collettiva.
Ciò che non dovrebbe mai essere ripetitivo è il nostro vivere costellato di paure, desideri, dubbi, incertezze, domande, squilibri, vizi e limiti, in ricerca perenne del senso: sforzo di capire e accogliere gli altri, impegno a leggere e interpretare le vicende del mondo. Sono proprio i cambiamenti del nostro esistere quotidiano che ci espongono alla sorpresa di Parole e di Riti antichi, ripetuti a volte, anche nelle nostre Chiese, come riesumazioni di cadaveri, piuttosto di parole e gesti che hanno il potere di illuminare le oscurità della nostra vita e del nostro tempo.
In questo Avvento, due momenti mi hanno interpellato in una maniera nuova. Probabilmente, anche in questo caso, il nuovo è propiziato dalla percezione dei limiti che, nonostante l’età, io rivelo nel quotidiano, nei miei rapporti con le persone: familiari, amici, conoscenti. Scoprire che sono inevitabilmente peccatore consiste oggi per me nel constatare che non sono disposto a rinunciare ad abitudini, non accetto di perdere ed esigo, mi impongo, non sono attento e rispettoso della sacralità dell’Altro, non ascolto, non comprendo e non so trovare cammini di riconciliazione e perdono. E forse anche molto altro che non so. Certamente, in questo cammino che ci porta al Natale, la rilettura di molti testi di Simone Weil – che ho di nuovo ripreso in mano- mi ha condotto a ridefinire il peccato come l’inevitabile escrescenza dell’ego.
Il primo momento che mi colpisce è costituito dal deserto. Lo Spirito convoca Giovanni Battista nel deserto. Certamente l’esegesi a cui sono abituato pone una questione fondamentale: il deserto è periferia, ben lontana dal Tempio e dai Palazzi. Come ha detto, lo scorso 5 dicembre, Papa Francesco: “La redenzione non inizia a Gerusalemme, ad Atene o a Roma, ma nel deserto.”
Ma qualcosa di nuovo balena nei pensieri: deserto è anche fisica assenza dell’intervento umano, è mancanza, è privazione, è vuoto: un vuoto salutare che può lasciar spazio allo Spirito; un vuoto in cui l’io e il noi hanno sempre meno parole da dire. Un vuoto in cui lo Spirito potrebbe ispirare profezie. Ricordo poi questa scommessa del deserto che si ripete nella storia dell’Occidente cristiano: i Padri e le Madri della Tebaide, gli anacoreti che si dissociano dal tradimento perpetrato dalla Chiesa costantiniana, e poi gli eremiti sconosciuti fino a Tamanrasset di Charles de Foucauld, che già aveva cercato risposte nel non detto, né dicibile, del nascondimento di Gesù a Nazareth, prima della vita pubblica.
E, inevitabilmente, non posso dimenticare il Benvenuti nel deserto del reale di Slavoj Žižek, che ci parla delle rimosse rovine e macerie della civilizzazione capitalista. Un nuovo deserto da svelare e frequentare con Giovanni Battista e Gesù di Nazareth. Il deserto di una umanità fallita, violenta e genocida.
Il secondo momento è il sì di Maria di Nazareth all’arcangelo Gabriele: balena nuovamente nei pensieri la certezza dell’intimo di Maria, senza le parole dell’io, senza peccato, deserto assoluto, piena di Grazia, umanità in cui lo Spirito Santo può danzare e cantare.
Che questo Natale confermi la nostra fede nella materna misericordia di Dio. Con l’augurio che riusciamo a creare un poco di deserto nel nostro intimo, per poter riconoscere Gesù negli abbandonati e oppressi nel deserto del reale.