Nel giorno di Pasqua un’esistenza umana, vissuta nel segno di una dedizione che non conosce confini, viene ad abitare per sempre l’intimità del mistero di Dio – e la trasforma in maniera indicibile. Proprio perché Pasqua è l’evento di questa trasformazione intima di Dio, essa può essere anche la speranza che vince la pretesa del reale di essere tutto e che nulla è possibile al di fuori di esso. E lo fa, appunto, ospitandolo in sé e coinvolgendolo nella inenarrabile trasformazione che Dio vive nella risurrezione di Gesù – il Figlio amato da sempre, primo tra molti fratelli e sorelle nel corpo di carne.
Le dice Gesù: Mariam! Voltatasi, quella, gli dice: Rabbunì! Maestro.
Dice a lei Gesù: non trattenermi… (Gv 20,16-17).
E dissero l’un l’altro: non era forse il nostro cuore ardente quando parlava a noi nella via,
quando spalancava a noi le Scritture? (Lc 24,32).
Non sappiamo cosa pensare… Maria di Magdala e due dei nostri da Emmaus si sono precipitati da noi, pieni di gioia, danzando sulle note della vita di lui. Proprio oggi, mentre noi ci preparavamo a onorare un morto ci raggiungono canti di festa, passi di danza, volti che trasudano gioia e speranza.
Perché non trattenerlo? Perché sentire il cuore inebriato di gioia allo sparire di lui? Perché la luce di questo mattino di festa è così gentile e discreta da apparire l’abbaglio di una follia? E continuiamo a essere senza parole – se non fosse per Maria e per i due di Emmaus non avremmo nullla da dire, saremmo ancora rinchiusi nel nostro sconforto a temere per noi, anziché a gioire per lui.
C’è qualcosa di insondabile nella gioia di Maria e in quella dei due dei nostri: è come se avvessero incontrato ciò che non scambierebbero con nulla al mondo, qualcosa che non si corrompe e rimane per sempre fedele compagno dei nostri giorni – qualsiasi cosa succeda.
Per la prima volta nella nostra vita, la mancanza ci appare in una luce diversa – non come il peso insopportabile di ciò che non potremmo mai ottenere, ma come uno spazio aperto in cui far abitare e riposare la vita.
Una radura senza nulla in cui trovano posto i nostri desideri, le nostre attese, i nostri dolori, le nostre domande, l’ansia che ci attanaglia, e quella speranza che non osavamo confessare neanche a noi stessi.
E passeggiamo in questa radura dove tutto manca perché tutto possa essere ospitato per sempre. Non solo il nostro, non solo noi, ma quello di tutti attraverso i secoli, le vite e i volti di coloro che non sono più e di coloro che non sono ancora.
E mentre camminiamo in questa radura, i nostri piedi iniziano a muoversi, le braccia si sciolgono, le mani si protendono – danziamo la vita, danziamo i giorni, cerchiamo corpi a cui stringerci, vite da abbracciare, storie da custodire, giorni a noi ignoti da ascoltare anche se non li vivremo mai.
È da millenni che ci muoviamo sulla musica di un’alba diversa, siamo arrivati dove mai lo avremmo immaginato, contornati e custoditi da innumerevoli fratelli e sorelle nella fede e nell’umano. Danziamo la mancanza, perché solo essa ci dice che c’è posto per tutti sotto i raggi caldi di questo mattino di Pasqua.
Vi guardiamo e scorgiamo nei vostri volti i nostri volti, sulle note di un Dio che danza insieme a noi e che assomiglia tantissimo al corpo di lui.
Raccolti nella sua dimora quando ancora abitiamo i duri giorni della nostra terra, illuminati dalla gioia quando ancora usiamo violenza contro gli altri, avvolti nella speranza quando ancora disperiamo di un’esistenza riuscita degna di essere vissuta.
Eppure danziamo, stringendo mani amiche e sconosciute – scorgendo nel volto di tutti i tratti del volto di lui.