Nico Guerini presenta alcuni testi poetici con l’intenzione di offrire spunti per un approccio originale ai racconti evangelici. Dopo una presentazione iniziale, vengono offerte le poesie corredate da un commento che ne sottolinea la peculiarità.
Una lunga e felice consuetudine mi ha convinto sempre più della grande utilità che deriva dal basare la propria meditazione su quanto nei secoli hanno prodotto la poesia, l’arte e la musica.
Vorrei presentare questa volta alcuni testi poetici con l’intenzione di offrire spunti per un approccio originale ai racconti evangelici, che corrono il rischio di tutte le cose troppo ripetute e troppo note, quello di passare nelle nostre teste come cose scontate, e di perdere così tutto il loro messaggio sconvolgente.
Il principio è quello proposto da due maestri dello spirito della grande stagione medievale.
Il cistercense Aelredo di Rievaulx (XII secolo), nella Regola scritta per la sorella monaca reclusa, offre una serie di brevi meditazioni su episodi del vangelo, con l’intento di farci entrare, «con l’immaginazione e con il cuore», in quelle narrazioni, così che l’affetto delle emozioni così risvegliate produca l’effetto di salutari decisioni.
Un altro autore, il certosino Ludolfo di Sassonia (XIV secolo), autore della mastodontica Vita di Cristo, uno dei più diffusi best seller dell’ultimo medioevo e oltre, introduce così la sua opera: «se desideri trarre frutto da quanto dico, leggi con tutto l’affetto della mente, con diligenza e gusto, indugiando a lungo sul testo. In tal modo ti renderai così presente a Cristo che, mediante ciò che viene raccontato, sarà come se lo udissi con le tue orecchie, e lo vedessi con i tuoi occhi. Quantunque molte di queste cose siano narrate come accadute nel passato, tuttavia tu meditale come accadute nel presente, perché facendo così gusterai di sicuro una dolcezza maggiore. Leggi, dunque, ciò che è avvenuto come se stia avvenendo».
Il gruppo di poesie di autori britannici che ho tradotto e che intendo presentare rispondono proprio all’obiettivo di entrare, con l’immaginazione e col cuore, nei racconti evangelici come se accadessero oggi.
La letteratura della Passione comincia in Inghilterra con un capolavoro, il Sogno della croce, un poemetto del X secolo presentato su SettimanaNews nella quaresima di un anno fa. La letteratura medievale e quella rinascimentale sono una miniera senza fondo di testi.
Quest’anno ho pensato di ricorrere a poeti del Novecento, non solo per dimostrare la persistenza di una tradizione di enorme rilevanza, ma anche per mostrare il tipo di risposta che autori a noi più o meno contemporanei hanno saputo dare agli eventi pasquali con accenti di assoluta originalità. Questa risposta segue sostanzialmente due filoni: quello narrativo e quello simbolico.
I primi tre componimenti sono narrazioni che descrivono quanto è successo. Muir legge la crocifissione come l’«esecuzione» di una condanna a morte, Braybrooke fa parlare il buon ladrone nella sua agonia, Mackay Brown legge la storia della Passione dal punto di vista di una locandiera a Emmaus. Tutte e tre le poesie aiutano a “denudare” la croce da tutto il sovraccarico con cui la teologia e la devozione l’hanno coperta, fino a farla diventare, ahimè, una collanina pulita e dorata, che pare non suscitare più alcuna emozione.
Questo scopo è realizzato dall’approccio scelto dai tre poeti: gli eventi sono raccontati non dai discepoli, ma da osservatori “esterni”: uno straniero, il ladro appeso accanto a Gesù, un’affittacamere che ha come ospiti i due discepoli di Emmaus. Tutti e tre i componimenti finiscono con una sorpresa che suscita un interrogativo.
Gli altri quattro appartengono più al discorso simbolico, o potremmo dire anche teologico, perché traducono il significato della morte di Gesù, non però con il linguaggio astratto della teologia, ma con quello tipico della poesia, che usa “immagini” per esprimere idee, con il vantaggio non piccolo di farci entrare, anche magari a costo di qualche sforzo, in un universo che più che la testa tocca il cuore.
Gascoyne, nel suo Ecce homo, immerge la visione del volto sfigurato di Gesù nelle grandi tragedie del Novecento, Eliot fa un’eccellente teologia della redenzione a partire dell’immagine di Gesù come «chirurgo ferito»; R.S. Thomas ci offre due miniature che riassumono il significato della «Pietà» ed evoca la «Risurrezione» con una immagine sorprendente e suggestiva; E. Jennings porta a vedere «risurrezioni ogni dove».
Penso a questi testi come a “incursioni” in un territorio vastissimo, che potrebbe fornire ottimi spunti anche per la predicazione. Ecco, di seguito, il primo dei brani poetici.
Edwin Muir (1887-1959): L’esecuzione (The killing)
Quello fu il giorno in cui uccisero il Figlio di Dio
su una tozza collina appena fuori Gerusalemme.
Sion era vuota, i suoi figli tratti dalla loro confusione
e come succhiati dal demone curiosità
erano usciti dalle porte. Perfino gli zoppi e i ciechi
ce l’avevano fatta in qualche modo a salire sulla collina.
Dopo i riti di preparazione, i flagelli, i chiodi, li inchiodarono,
innalzarono i grandi pali con i loro fardelli,
mentre dalla collina saliva un’orchestra di lamenti.
Eccoli là, finalmente, sospesi in alto nel dolce mattino di primavera.
Noi guardavamo il loro contorcersi, udivamo i lamenti, vedevamo
le tre teste roteare ciascuna sul suo asse
come ruote spezzate lasciate girare a vuoto. Attorno alla sua testa
era malamente intrecciata una corona di spine intrecciate
che a tratti feriva, pungendo tempia e fronte
secondo che il dolore ondeggiava nel suo cerchio invidioso.
Davanti la corona era raccolta in un nodo
che quando lui guardava appariva come l’ultimo pezzo rimasto
delle grandi corna di un cervo ferito a morte. Alcuni
di quelli che erano venuti a curiosare zittirono osservando la scena,
indignati o addolorati. Ma i vecchi induriti
e i giovani dal cuore duro, benché gli uni contro gli altri
fin dal primo mattino, lo maledicevano allo stesso modo,
poiché avevano pregato per avere un Rabbi o un Messia armato
e si erano trovato davanti il Figlio di Dio. Cosa poteva servire loro
un Dio o un Figlio di Dio? Quale vantaggio poteva offrire
per raggiungere il loro scopo? Ai piedi della croce,
sole, stavano quattro donne e non si mossero
per tutto il giorno. Il sole girò, le ombre roteavano,
cadde la sera. Il suo capo era chinato sul suo petto,
ma nel suo petto esse videro che il cuore continuava a muoversi
da solo, portando a termine il suo viaggio.
I loro scherni diventarono più forti, acutizzati dal sapere
che egli stava camminando nel giardino della morte,
lontano dalla loro rabbia. E però alla fine tutto diventò noioso (stantio),
gli sputi, la curiosità, l’invidia, l’odio stesso.
Essi aspettavano solo la morte e la morte era lenta
e giunse in modo così quieto che a stento riuscirono ad accorgersene.
Si arrabbiarono allora con la morte e con l’inganno della morte.
Io ero uno straniero, e non riuscivo a intendere quella gente
né quella divinità esotica. Davvero un Dio
morendo ha incrociato la mia vita in quel giorno
per caso, lui sulla sua strada e io sulla mia?
Commento
Il titolo allude chiaramente a un “evento”, che è descritto in termini cronachistici nei primi versi da qualcuno che sembra appartenere alla cerchia dei discepoli, che parla del «giorno in cui uccisero il Figlio di Dio». Poi, però, il discorso che segue si muove in modo da far trasparire la figura di uno che “osserva” la scena come fosse dall’esterno, senza capire bene di che cosa si tratta. Il suo sguardo è anzitutto sulle reazioni della folla, non primariamente sul condannato. La gente è attratta dal «demone curiosità», desiderosa di vedere lo «spettacolo» (Lc 23,48), certamente sconcertata dal contrasto tra quanto ricordava delle parole di Gesù e quanto stava davanti ai loro occhi.
Si parla di «zoppi e ciechi», e non si sa se sono lì perché speranzosi di una guarigione ricordando i miracoli di Gesù, magari per mettere un’ennesima volta alla prova la verità delle sue affermazioni, o in quanto simbolo della radicale deficienza della condizione umana.
Segue il racconto della crocifissione a partire dai «riti di preparazione», dove i tormenti dei condannati sono descritti con un feroce realismo (si noti il dettaglio impressionante delle teste che girano come «ruote spezzate»), e dove al centro appare Gesù con la corona di spine, eco dei «riti preparatori», che evoca ciò che resta delle «grandi corna di un cervo ferito». L’immagine arriva da una lunga tradizione medievale dove essa era applicata a Gesù, in linea con i bestiari del tempo che indicavano nel cervo che uccide i serpenti una metafora perfettamente adatta a Gesù che sconfigge il demonio.
Straordinaria nel suo disporsi in climax e anticlimax la sequenza dei tre gruppi di astanti, presenti nei vangeli, ma qui riletti con sottolineature significative: quelli che «osservano» indignati o addolorati (tacciono, ma se ne indicano i sentimenti), quelli (i vecchi induriti e i giovani dal cuore duro) che danno voce di «bestemmia» alla rabbia suscitata in loro da uno che ha deluso le loro aspettative (volevano un Messia armato / e si erano trovato davanti il Figlio di Dio. / Cosa poteva servire loro un Dio o un Figlio di Dio?), e infine le «donne», di cui si dice che sono «sole» e che «stanno là», semplicemente: è il silenzio muto e rispettoso davanti al mistero di un dolore incomprensibile. E però, paradossalmente, sono quelle che capiscono di più, forse perché rimangono davanti alla scena in puro atteggiamento di attesa e di accoglienza. Sono loro quelle che, dopo che Gesù ebbe chinato il capo, vedono che «nel suo petto il cuore continuava a muoversi / da solo, portando a termine il suo viaggio».
La fine è marcata da una crescente divaricazione, tra Gesù che se ne va quietamente nel «parco della morte, lontano dalla loro rabbia» e il gruppo di chi lo insulta con furia ancora più scatenata proprio perché se lo vede sfuggire, e in un modo che non era quello da loro atteso. Alla fine, tutto diventa perfino «noioso», inclusa la morte quieta e lenta di Gesù, che agli astanti infuriati fa maledire «la morte e l’inganno della morte», come se si sentissero presi in giro da quella conclusione inattesa. Muir, infatti, ignora il «grande grido» dei sinottici e si affida, invece, al più quieto e sereno racconto di Giovanni: «chinato il capo consegnò lo spirito» (19,30).
La sorpresa arriva alla fine. Scopriamo che il narratore è uno «straniero»: forse il centurione romano? Ammette di non capire né quella gente «né quella divinità esotica», ma resta la sua domanda: il chiedersi se è poi vero che «un Dio / morendo ha incrociato la mia vita in quel giorno / per caso, lui sulla sua strada e io sulla mia?».
Marco (15,38) ci dice che il centurione riconosce il «Figlio di Dio», che all’inizio della poesia appariva come un riferire ciò che dicevano di lui, e ora diventa una confessione di fede, pur se legata a una domanda: e questa è la situazione di ogni credente, perché il credere nasce da domande e le mantiene aperte. Ma ancora di più è da notare il verbo che designa l’incontro dei due, significativamente avvenuto “per caso”: essi in quel giorno si sono «incrociati», in inglese cross, che è sia verbo che sostantivo. Potremmo dire, senza timore di esagerare, che l’ambivalenza della parola potrebbe essere resa così: i due si sono incrociati sulla croce!