Per una mistica delle periferie

di:

periferie

«La forza viene dalla mistica,
non dalla dimensione giuridica».
(Yves M.-J. Congar, Per una Chiesa serva e povera)

È ormai ben conosciuto che tra i basilari principi epistemologici utilizzati da Papa Francesco nel suo Magistero ve n’è uno che sembra ergersi su tutti gli altri. Ovvero quello a partire dal quale viene considerato che ogni situazione si comprende meglio se operiamo su noi stessi un forte gesto di decentramento, un’uscita da sé che comporta una rinuncia al desiderio di potere, un auto-impoverimento e un riposizionamento altrove: nella periferia.

Questo gesto, se orientato dall’amore fraterno, ci rende capaci di vedere il mondo da un punto di vista radicalmente altro e con una maggiore chiarezza − poiché la realtà autentica è nascosta dietro le apparenze, confusa e pervertita dalle immagini-merce dello «società dello spettacolo» − permettendoci così di costruire relazioni vere che operino per il bene[1].

Come ha precisato in questi giorni madre Maria Ignazia Angelini, a proposito delle relazioni vi è infatti un primato della visione sulla prassi: «prima ancora che di “fare”, si tratta di “vedere”. Il vedere che è alla base della spiritualità sinodale: “Ubi amor ibi oculus”: dov’è amore si apre una nuova visione»[2].

Può sembrare paradossale ma, in questa nostra società che ruota tutta attorno ad esse, la pervasività delle immagini ci rende ciechi di fronte alla realtà e i poveri, con le periferie, sono i primi a scomparire dalla nostra vista. Siamo evidentemente una società in cui amare è diventato qualcosa di molto difficile; perciò, abbiamo bisogno di un gesto che sia abbastanza forte da trapassare ogni ostacolo alla visione.

È tutta la Chiesa, innanzitutto, in quanto organismo vivente, ad essere chiamata da Francesco a compiere questa operazione ek-statica e a «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo»[3]. Ed è attraverso questo movimento «alterizzante» che, nella visione del Papa, la «periferia» rompe il tetto di cristallo delle ideologie egoistiche del mondo emergendo come il luogo dal quale si vede e intende meglio anche il «centro», e dunque il basso l’alto, il piccolo il grande, l’ultimo il primo, lo scartato l’integrato, il fuori il dentro. Il senso dell’uscire ha dunque una direzione ben precisa.

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Le periferie sono innanzitutto i «luoghi dell’abbandono» urbano, rurale e industriale del pianeta dove vivono i poveri, gli sfruttati e i senza-potere per i quali la dottrina sociale della Chiesa esprime un’«opzione preferenziale»[4], ma sono anche quei luoghi in cui il popolo genera reti di solidarietà e si industria per condurre la vita quotidiana tramite relazioni di prossimità ormai sconosciute o rinnegate nel «centro». Sono i luoghi dove si formano i movimenti popolari che si organizzano per lottare contro le ingiustizie e inventare possibilità di «buona vita» per tutti, ma sono anche i luoghi delle nostre più personali fragilità, solitudini e povertà, le cosiddette «periferie esistenziali».

Se riusciamo a compiere questa conversione dello sguardo ci accorgeremo infatti che «ci sono periferie che si trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia»[5]. O in me stesso.

Ognuna di queste periferie dice una verità sul mondo-così-com’è in senso sociale, politico, economico, esistenziale e anche spirituale. Per tutto questo, dice Francesco, «sono convinto che il mondo si veda più chiaramente dalle periferie. Bisogna ascoltare le periferie, aprire loro le porte e permettere loro di partecipare. La sofferenza del mondo si capisce meglio insieme a quelli che soffrono»[6]. Per guadagnare questo punto di vista bisogna, evidentemente, abbattere muri di ogni tipo, cominciando da quelli presenti nella nostra anima.

La verità della nostra storia si vede con il cuore, ci dice ancora il Papa, raggiungendo il suo vero centro a partire dalla «fine del mondo», la quale si può comprendere tanto in senso di periferia geografica, tutti ricorderanno il primo discorso di Francesco subito dopo l’elezione a Pontefice[7], che temporale/escatologico, poiché «il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine»[8] e noi siamo ora «come la grande folla dell’Apocalisse»[9]. Dalla periferia del tempo che si va consumando si può infatti vedere meglio l’intera storia dell’umanità.

Sarebbe quindi un grave errore di valutazione ridurre quello che Francesco fa sulle periferie a un discorso di carattere puramente sociologico, politico o anche filosofico[10]. Invece è possibile dire che tutte le discipline scientifiche e umanistiche e le «potenze» umane vengono chiamate a intrecciarsi e ad incontrarsi in quel luogo, superando limiti ideologici e forme di autoreferenzialità per raggiungere, valorizzandoli, i propri stessi margini: periferizzandosi[11]. Ma soprattutto la questione è che «qui è in gioco la nostra salvezza. Per questo, il Papa non può smettere di porre i poveri al centro. Non è politica, non è sociologia, non è ideologia, è puramente e semplicemente l’esigenza del Vangelo»[12].

La periferia, insomma, si dice in molti modi, ma nella predicazione del Papa essa si configura come il luogo dell’irruzione di un mistero e le operazioni in, attraverso e su di esso, come una mistica, più precisamente una mistica dell’agape[13]. L’uno va insieme all’altra: nel mistero vi è una rivelazione alla quale restare fedeli, nella mistica una sua esperienza intima, «viscerale». Mistero del Cristo nel volto del povero, dell’escluso, dell’abbandonato; mistica del «samaritano collettivo»[14] che lo vede, si ferma e se ne prende cura.

Vi sono dei momenti nella vita spirituale in cui, scriveva Michel De Certau a proposito della mistica cattolica, accade un «rompersi, un esplodere, uno spezzarsi dei limiti»:

Ogni esperienza, quella che ci racconta il Vangelo o quella che ci raccontano tanti mistici, comporta questi momenti. «Estasi» personale, se si vuole, o esperienza collettiva di un gruppo sorpreso da ciò che accade in sé stesso, illuminazione intellettuale in certi casi, brusca intuizione che sposta (senza che si sappia troppo ancora il come) l’organizzazione di una vita e il tipo di relazioni che si hanno con gli altri. Si è prodotta una breccia. Una irruzione apre una breccia. Tutto d’un colpo, è cambiato il paesaggio, con nostra sorpresa. Questo, è un luogo. Nell’esperienza individuale, come nella storia, vi sono momenti che fanno dire: Dio è là[15].

Il Pontefice credo ci stia dicendo proprio questo, invitandoci a partecipare alla sua «estasi» e a vedere, nello stupore della rivelazione, che il paesaggio sta cambiando e ciò richiede una diversa relazione con gli altri, ossia una conversione integrale. Attraverso questa si apre uno squarcio nella realtà da dove intravediamo il luogo che ci fa dire: “Dio è là”. Tale luogo mistico sono, qui e ora, le periferie. Ma questa esperienza dello spirito non porta a una staticità nel luogo bensì, scriveva De Certau, questo luogo stesso diviene cammino personale e collettivo – un sinodo! – che si fa missione:

È l’inizio di un itinerario. “Bisogna che vada in altre città” […] Il luogo e l’itinerario sono strettamente articolati. L’esperienza cristiana non può essere ridotta, né all’uno né all’ altro. Senza un momento privilegiato, non ci sarebbe altro cammino. Il luogo come un cammino rende possibile l’itinerario della ricerca. Ma non si può legarlo a nessun posto, fissarsi e ricondurre l’esperienza ad uno di questi momenti. Mediante il suo primo termine, questa tensione raggiunge l’aspetto propriamente «mistico» della tradizione spirituale: Dio è là, Emmanuele, dato e ricevuto nella luce di un giorno. Mediante il suo secondo termine, restaura il significato «escatologico» dell’esperienza cristiana. Il superamento di ogni obiettività: Dio non è là, «egli viene», atteso fino all’ultimo giorno, sorprendendo sempre i desideri che lo annunciano[16].

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Il gesto «principiale» di Francesco, con il quale egli pone la periferia in quanto elemento discriminante della «realtà», si mostra essere, in perfetto stile evangelico, un poderoso rovesciamento del regime epistemico dominante, il quale invece presuppone uno sguardo che, dall’alto e da lontano, domina da un centro tutto il resto e che, fino ad oggi, ha conservato un’egemonia ideologica di carattere mondiale e specialmente «epocale». Ma questo tempo sta volgendo al termine, portando drammaticamente con sé le sue forme: «Passa la figura di questo mondo!» (1Cor 7,31). Non è certo un caso che Francesco ripeta spesso che siamo, tutti, nel pieno di una krisis di cambiamento d’epoca. Il filosofo tedesco Reiner Schürmann avrebbe parlato, a proposito dell’effetto del gesto «periferizzante» del Papa, di una hégémonie brisée[17], un’egemonia epocale infranta, spezzata, destituita dalla irruzione di un’urgente attualizzazione della Parola. Il «centro» si rimpicciolisce sempre più, diventa quasi spettrale, a fronte dell’emergenza delle mille e mille periferie nelle quali la storia profana si intreccia a quella della salvezza.

Periferia indica perciò un luogo dinamico di trascendenza. Essa è uno dei nomi di questa conversione dello sguardo ed è la realtà concreta, vivente, di questa urgenza evangelica che preme sui muri, sui confini, sulle frontiere e sulle barriere di ogni tipo, rimuovendoli per costruire ponti, tunnel, passaggi e far sì che tutte le parti abbandonate divengano a loro volta un centro vivo e pulsante che si espande, scorre, cade e risale in ogni direzione.

Periferia, nella sua etimologia, significa infatti «portare intorno» e, nel discorso di Francesco, riveste una posizione incoativa da cui si disegna una figura irregolare, il famoso poliedro che «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità»[18]. La totalità del poliedro, inoltre, è superiore alla semplice addizione delle parzialità: se «il tutto è superiore alla somma delle parti»[19] significa che il poliedro dà vita a una dinamica di eccedenza, di traboccamento che, ad esempio nell’assunzione dell’integralità del Vangelo, indica secondo Francesco l’effervescenza di una «mistica popolare» che «lo incarna in espressioni di preghiera, di fraternità, di giustizia, di lotta e di festa»[20]. Mistero delle periferie, mistica dei popoli.

È il fiorire sovrannaturale e sovversivo di ogni genere di relazione: «se questa relazione umana è vissuta “nel Signore” […] essa non è più la relazione naturale contemplata dal codice civile, dalla sociologia, dalla politica o dall’economia. La relazione muta profondamente significato»[21].

La lotta e la festa, la giustizia e la misericordia, il grido e la preghiera: non c’è dubbio, quello di Francesco è un gesto forte, di rottura, a volte duro come dura a volte appariva ai discepoli e alle folle la Parola di Gesù. Non è il suo un atteggiamento irenistico né, tanto meno, compromissorio e tuttavia è amorevole, poiché «senza l’amore tutto questo non si capisce»[22]. L’amore, sostiene il Papa, è insieme una categoria teologica, etica, politica e anche economica che ci permette di non perdere mai l’orientamento in ogni situazione. Sant’Agostino, volendo dire che l’amore a volte deve agire con forza, usò un’espressione che mi ha sempre emozionato: «l’amore infierisce, la carità infierisce»[23].

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Il cammino della redenzione, in realtà, prende sempre avvio dal mistero di una periferia, dal povero luogo dei poveri, i prediletti da Dio: «Questa salvezza è giunta a noi attraverso il “” di una umile ragazza di un piccolo paese sperduto nella periferia di un grande impero»[24].

Nel Vangelo, di fatto, figure come gli «ultimi», i «bambini», i «piccoli» e i «poveri» sono il corrispettivo esistenziale della periferia intesa in senso geografico, che pure è ben attestata in quanto vero e proprio «luogo teologico»: Gesù nasce in periferia, inizia a predicare in una periferia dell’impero e della stessa Giudea, i suoi incontri più memorabili avvengono in periferia con persone a dir poco periferiche, pensiamo solo a quello con la samaritana. Infine, muore «abbandonato»[25], cioè nella povertà più assoluta e nella solitudine abissale: bandito e appeso a un legno fuori dalle mura della Città, in periferia. Risorto dà appuntamento ai suoi di nuovo in Galilea, poiché è a partire dalla periferia che la Città, intesa come il centro del potere politico e religioso, in una parola in quanto «civiltà», dovrà essere convertita.

Uno storico marxista, de Ste. Croix, nel suo monumentale The Class Struggle in the Ancient Greek World[26], prestò una particolare attenzione ai luoghi della predicazione di Gesù, confrontandoli con la partizione dei territori ellenistici dell’impero romano da lui suddivisi tra chora (territorio, per lo più rurale, collocato «fuori dalla città») e polis (la città, in senso propriamente politico, economico e sociale). Nell’analisi che compie dei vangeli sinottici, de Ste. Croix rileva che Gesù è sempre nella chora, attraversa i suoi villaggi, che gli evangelisti a volte in un senso molto ampio e generico chiamano polis, ma evita accuratamente le città e comanda ai suoi di non entrarvi. Egli passa in mezzo ai territori e anche quando si trova eccezionalmente in una vera polis si sposta nelle sue parti periferiche, sempre e ovunque esaltando i ptochoi (i poveri).

Lo storico preferisce non ricordarlo, perché da marxista si attiene ad una pura analisi dei «fatti», ma noi sappiamo che, fin da Platone, la chora riveste anche un significato spirituale. Chora è ricettacolo, matrice, grembo e infatti, nella tradizione orientale, la stessa Vergine Maria verrà illustrata come Chora del Cristo. Gesù, allora, trasforma le periferie in grembo dell’Annuncio, prima di “indurire il volto” e puntare diritto sulla Città per eccellenza, Gerusalemme. La Croce stessa sarà Chora gloriosa, matrice della nuova vita dell’umanità.

Nel suo intenso “passare intorno” sembra quasi che la strategia di Gesù sia quella di accerchiare la Città prima di investirla con la sua Presenza, attraendo i poveri che sono fuori di essa – geograficamente o esistenzialmente – per rimandarli dentro con un messaggio per tutti[27]: «Gli ultimi saranno/sono i primi» è il principio che capovolge ogni apparente ordine mondano che, guardato con gli occhi del Signore, si configura come un reale disordine.

L’attuale caos del mondo guarirà per il tocco delle sue periferie?

***

Se il Papa ci parla di periferie che sono geografiche ed esistenziali, non è difficile allora pensare che, grazie all’esercizio di questo sguardo decentrante che ci viene proposto e per il quale impariamo a riconoscere le periferie in quanto luogo dell’incontro con gli altri e con l’A-altro, viene quel momento in cui potremmo trovarci nella situazione di riconoscere nella nostra esistenza personale quel luogo che sta per la mia propria periferia: il luogo dove sono bambino, vedova, orfano e straniera, in cui vivo come ultimo, oppresso e povero e, da lì, guardare e toccare il mio proprio centro, quel luogo chiuso e abitato dalle mie durezze di cuore, i miei egoismi, i miei assurdi attaccamenti. Ovvero rintracciare il luogo del mio fuori per poter vivere con più verità il mio dentro e quindi lanciare lo sguardo oltre poiché, come ha scritto Piero Coda in un articolo che «fa il punto» sul pensare nel cambiamento d’epoca: «Il fatto su cui riflettere per prenderne adeguata coscienza è che, come umani, possiamo stare “dentro” la realtà che siamo e viviamo solo guardandola in certo modo da “fuori”»[28].

Quel luogo da dove vediamo altrimenti, ci dice ancora Piero Coda, non è altro che il “luogo di Gesù”, per l’esattezza il luogo di Gesù crocifisso e abbandonato: «Il “punto di vista” dell’Altro – quel punto di vista “altro” che ci dà di vedere senza filtri e distorsioni la realtà così com’è, con l’energia e la determinazione capaci di trasformarla –, si dà in Gesù come quello che si fa carico delle vittime, degli esclusi, degli scartati»[29].

È l’incontro con l’A-altro nei volti della periferia, nei corpi martoriati della guerra, nei migranti dispersi nelle acque e nei deserti, nelle mani ferite degli abbandonati, che ci fa, ogni volta, tornare in noi stessi con un di più di verità. Ed è molto probabile che senza intraprendere questo «esodo», dal dentro al fuori e viceversa, sia molto arduo riuscire a percepire nella carne, cioè com-patendola, ogni periferia possibile, la quale è sempre in stato di abbandono. Dobbiamo allora abbandonarci ad essa ed essere pronti ad essere a nostra volta abbandonati in essa.

L’essere nell’abbandono ci dà, per altro, l’occasione di aprirci al sapere filosofico contemporaneo più penetrante per il quale, pur nel suo faticoso scetticismo, non è possibile fare come se non ci fosse stato mostrato, nel suo abissale abbandono, l’Ecce homo. Scrive allora Jean-Luc Nancy che, per noi, ciò indica che «bisognerebbe lasciarsi infine abbandonare. Questo significherebbe, al limite estremo delle parole, “pensare”»[30]. Per pensare veramente bisogna che diventiamo radicalmente poveri di noi stessi: poveri di spirito.

Nel vangelo di Matteo è a questi che è dedicata la prima beatitudine e tale posizionamento può far pensare che essa sia la porta per accedere a tutte le altre beatitudini, oppure che sia prima perché è il vertice di queste, come se ogni beatitudine fosse una balza del Monte da scalare. In ogni caso, almeno per il cristiano, questo radicale farsi-periferia in senso materiale, esistenziale e spirituale, a partire da uno sguardo d’amore, appare inaggirabile.

Il luogo di una periferia, il vedersi e il camminare insieme, trasportati dall’amore, protesi verso Colui che viene.


[1] «Chi vive in esse [le periferie] ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti», Fratelli tutti, Cap. VI, 215.

[2] Dalla meditazione proposta da Madre Angelini durante il Sinodo  il 7 ottobre 2024.

[3] Evangelii Gaudium, Cap. I, 1.

[4] Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Cap. IV, III.c: “Destinazione universale dei beni e opzione preferenziale per i poveri”.

[5] Fratelli tutti, Cap. III, 97.

[6] Papa Francesco, Gli incontri mondiali dei Movimenti Popolari e il nostro pensiero sociale. 10 anni di IMMP, LEV- Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Roma 2024, p.45.

[7] «Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo … ma siamo qui …», Primo saluto del Santo Padre Francesco, 13 marzo 2013.

[8] Papa Francesco, Gli incontri mondiali dei Movimenti Popolari e il nostro pensiero sociale. 10 anni di IMMP, cit., p.20

[9] Papa Francesco, Omelia per la Veglia ecumenica di preghiera del 30 settembre 2023.

[10] A operare tale riduzione sulla «visione» del Papa, non poi così inaspettatamente, sono sia i laicisti, per i quali è un’ottima cosa in termini sociologici almeno fin quando non vengono toccati argomenti “scottanti”, che i cosiddetti tradizionalisti, che invece ne pensano malissimo non comprendendone nulla.

[11] Ricordando in qualche modo il rovesciamento epistemologico compiuto dai Subaltern Studies indiani. In particolare si veda Dipesh Chackrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004 Scrive Chackrabarty: «Il pensiero europeo è al tempo stesso indispensabile e inadeguato per riflettere sulle esperienze di modernità politica nelle nazioni non occidentali, e provincializzare l’Europa si trasforma nella sfida di scoprire come questo pensiero – un’eredità che ormai appartiene a tutti e che influenza tutti – possa essere rinnovato dai margini e per i margini», p.34, corsivi miei. Questo discorso credo possa essere valido per la storia e per la filosofia come anche per la teologia. In fondo non è così lontano dal reiterato appello del Papa ad essere molto attenti alle dinamiche di inculturazione del Vangelo.

[12] Papa Francesco, Gli incontri mondiali dei Movimenti Popolari e il nostro pensiero sociale. 10 anni di IMMP, cit., p.48.

[13] «[…] l’amore esige una progressiva apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza», Fratelli tutti, Cap III, 95.

[14] «Samaritano collettivo» è una espressione di Papa Francesco utilizzata per la prima volta nel suo video messaggio ai Movimenti Popolari del 16 ottobre 2021, cfr. Papa Francesco, Gli incontri mondiali dei Movimenti Popolari e il nostro pensiero sociale. 10 anni di IMMP, cit., p.44. Con altri amici e amiche, ispirati da questa figura, stiamo costruendo una “fraternità mediterranea” che porta questo nome.

[15] Michel De Certau, Sulla mistica, Morcelliana, Brescia 2010, p. 101-102.

[16] Idem, p.103.

[17] R. Schürmann, Des hégémonies brisées, Diaphanes, Zurich-Berlin 2017.

[18] Evangelii Gaudium, Cap. IV, III, 236

[19] Idem, 234-237.

[20] Idem, 237.

[21] Y. M.-J. Congar, Per una chiesa serva e povera, Edizioni Qiqaion, Magnano 2014, p.90-91.

[22] Papa Francesco, Discorso in occasione del decennale del primo incontro con i Movimenti Popolari, Roma, 20 settembre 2024.

[23] Sant’Agostino, Commento alla prima Lettera di Giovanni, Omelia VII-11.

[24] Evangelii Gaudium, Cap. IV, II, 197

[25] Su Gesù abbandonato cfr. Piero Coda, Dio Uno e Trino. Rivelazione, esperienza e teologia del Dio dei cristiani, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993, pp.250-257.

[26] G.E.M. de Ste. Croix, The Class Struggle in the Ancient Greek World, Cornell University Press, Ithaca-New York 1981, si vedano in particolare sulla predicazione di Gesù le pagine 422-437.

[27] Un episodio illustrativo della dialettica chora-polis, del fuori-dentro la città, richiamato anche da de Ste. Croix, è quello di Mc 5, 1-20.

[28] P. Coda, Parole per un cambio d’epoca, Settimananews, 19 settembre 2024.

[29] Idem.

[30] J.-L. Nancy, L’essere abbandonato, Quodlibet, Macerata 1995, p.18.

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