Pregare non è mai impresa facile, ma ci sono giorni in cui sembra essere quasi non possibile. Eppure, è proprio in giorni come questi che il vissuto della fede deve in un qualche modo passare attraverso il crogiolo della preghiera. La comunità cristiana ha un riferimento evangelico affidabile a cui attingere in momenti della vita come questi – la preghiera che Gesù ha consegnato ai suoi, di generazione in generazione.
Nei vangeli troviamo due versioni del “Padre nostro”: una più breve nel vangelo di Luca (11,1-4) e una più ampia in quello di Matteo (6,7-13) – quest’ultima è quella che ci è più familiare perché la preghiamo insieme come comunità ogni domenica nella celebrazione eucaristica. Sullo sfondo del “Padre nostro”, vorrei cercare di mettere a fuoco alcuni aspetti essenziali del pregare cristiano che possono orientarci proprio nei giorni in cui esso sembra farsi arduo per ragioni legate alla vita stessa dei giorni.
Mai da soli
Un primo spunto che possiamo cogliere è quello del carattere sostanzialmente sociale, comunitario, della preghiera cristiana. Essa è sempre nella e per la comunità, nella e per l’umanità. Incastonata come è nel discorso della montagna nel vangelo di Matteo, questa parola di Gesù sulla preghiera si destina sì ai discepoli (questo gruppo un po’ strano e raccogliticcio, non sempre in sintonia con quello che loro chiamano maestro, radunato nella sua prossimità senza essere poi così consapevoli di cosa questo significhi), ma non è solo per loro.
Più a distanza, quasi in dissolvenza, dietro la comunità dei discepoli ma sempre in ascolto della parola del Signore, c’è anche la folla – la moltitudine ignota della gente, il volto di chiunque. Anche per loro è detta la parola del “Padre nostro”, così cara alla comunità dei discepoli e delle discepole del Signore.
Dunque, la preghiera dei suoi è sempre anche la preghiera di tutti; va oltre ogni barriera di appartenenza esclusiva, oltre ogni soglia di possibile incomprensione o differenza culturale. In questo senso, la preghiera cristiana associa i molti diversi tra loro – e lo fa già all’interno della comunità parrocchiale, dove ci si raduna insieme non in ragione di particolari affinità elettive del credere.
Il cristiano e la cristiana, nella preghiera, sono sempre attraversati e sovvertiti nei loro schemi dalla moltitudine dei chiunque, dalla anonimità delle loro storie che rimangono a noi ignote ma non sono esterne o estranee alla nostra preghiera. Essa è effettivamente tale, solo quando è di tutti e per tutti – e in questo risiede la sua fondamentale socialità ospitale. Questo non vuol dire che nella fede non c’è mai una preghiera personale, quanto piuttosto che anche e proprio in questo caso la preghiera però non è mai privata. Anche nel più intimo della mia relazione con Dio entra ciò che non sono io, entrano colui e colei che sono altri da me (e che forse neppure conosco).
Desiderio di familiarità con Dio
In precedenza Gesù aveva ingiunto ai suoi di non ostentare mai la preghiera come un’indebita esposizione pubblica della propria devozione e della propria fede; ma il “Padre nostro” ci costringe a pensare che anche ciò che avviene nel “segreto della nostra stanza” non è mai solo un affare privato tra me e Dio. Nel modo proprio della preghiera, che toccheremo più avanti, in quella stanza e nel suo segreto fanno ingresso anche i fratelli e sorelle nella fede e nell’umano. Il noi che ci accomuna è dunque raccolto e portato nella singolarità del tempo segreto di colui/colei che prega.
Questo legame ci conforta e ci sostiene nella comunità cristiana, perché io so di essere presente sempre in un qualche modo nel pregare degli altri – di essere sostenuto in esso nel mio camminare lungo i sentieri dei giorni, per essere reso presente a Dio dalla calda devozione di molti fratelli e sorelle.
Passiamo ora per un attimo alla versione lucana del “Padre nostro”. Qui ci accorgiamo che la parola del Signore è spesa per corrispondere a una domanda dei suoi discepoli: appunto, quella di insegnare loro a pregare. Cosa c’è dietro a questa domanda, oltre l’esigenza di avere una pratica di pietà distintiva per quel strana accozzaglia che si è messa alla sequela di un uomo venuto da Nazareth? Mi piace immaginare che questa domanda dei discepoli nasca dal loro desiderio di essere introdotti alla familiarità della relazione di Gesù con il Dio che egli chiama l’Abba.
Pregare significa dunque vivere il desiderio di questa familiarità con il Dio di Gesù proprio come l’ha vissuta e sentita lui; e significa, soprattutto, essere sorprendentemente introdotti a essa dal Signore – senza remora alcuna. Gesù non esita un attimo a introdurre i suoi alla familiarità che lo lega all’Abba; anzi, la condivide con gioia e convinzione con chiunque abbia il desiderio di abitarla anche lui/lei.
Nell’intimità originaria di Dio
Nella vita di Gesù la preghiera è il modo evangelico per portare alla narrazione l’intimità originaria della sua relazione all’Abba: nella preghiera egli vive e sente questo suo essere nell’origine paterna di Dio. Il dogma cristologico è lo sviluppo razionale della pratica devozionale della preghiera di Gesù e della portata teologica dell’esperienza spirituale lì portata al racconto.
Se Gesù non ha nessun tentennamento, né mostra la benché minima gelosia, nel condividerla con slancio e gioia con i suoi, se la familiarità con l’Abba non è esclusiva solo del Figlio, allora nella comunità cristiana la preghiera non è esclusiva solo di alcuni: tutti e ognuno possono e sanno pregare.
La preghiera dunque non è mai la specializzazione della fede di un particolare gruppo nella comunità o di una casta di credenti – ad essa vengono introdotti tutti coloro che vivono il desiderio di familiarità con l’Abba di Gesù; ma, al tempo stesso, la preghiera non è nemmeno solo spontaneità del cuore o dell’animo devoto. Certo, nel pregare entrano anche questi aspetti, ma essi non dicono tutto di questo gesto e non lo esauriscono.
La preghiera, della e nella fede, non è solo un momento umorale, una disposizione del tempo disponibile, ma si configura come una precisa intenzione della fede stessa.
I morti
Nei vangeli, quando Gesù prega, la narrazione cerca di farci intuire che qui la vita e il mondo non sono più costretti unicamente alle categorie fisiche di uno spazio e tempo misurati e misurabili (per quanto segue si veda SettimanaNews: K. Appel, In cerca della preghiera). Non lo sono, esattamente perché la preghiera rappresenta il modo narrativo per dire dell’originaria familiarità di Gesù con l’Abba-Dio: con la preghiera (di Gesù) si entra in un modo dell’esistenza che è quello proprio di Dio, che non può essere ridotto a semplici elementi fisici, materiali, quantitativi.
Se, dunque, la preghiera è l’ingresso desiderato nella familiarità dei rapporti che fanno essere Dio l’Abba, allora essa significa anche una rottura delle mere condizioni fisiche e causali della vita nel creato amato e riscattato da Dio.
La preghiera è, in primo luogo, trasformazione di colui/colei che prega; e poi, in secondo luogo, trasformazione dei legami di senso del mondo e della vita. Quando Gesù sale sul “monte altissimo” per pregare, quello che vivono i suoi discepoli è esattamente una trasfigurazione di tutte le categorie abituali con le quali ordiniamo e percepiamo il mondo, le cose e le relazioni; a cui consegue l’irruzione di un ordine dei rapporti che appare essere quello desiderato da sempre e per sempre.
In questo modo, la preghiera apre un orizzonte luminoso sulla vita di tutti coloro che ci hanno preceduto nella fede, negli affetti, nella generazione – dei morti, i nostri morti e tutti i morti. “Nella preghiera i morti non sono oggetti passati, ma creature la cui presenza si è trasformata” (K. Appel) – ed essa è incontro con questa trasformazione che li rende presenti. “I morti, infatti, non sono più con noi secondo coordinate spazio-temporali, ma nell’amore e nel significato” con cui abitano il nostro vissuto (K. Appel).
In questa prospettiva, mi piace pensare alla preghiera anche come a una prossimità reciproca e presenza nella comunità cristiana – in questo lungo tempo in cui la vicinanza fisica, la quotidianità dell’incontro, la frequentazione dello sguardo dei volti, non sono possibili o si sono rarefatte. Un tempo in cui persone a noi care sono a casa, in ospedale, al lavoro, e non ci è possibile essere con loro in quella prossimità calorosa che apparteneva alla nostra consuetudine di un tempo.
La forza della preghiera sta anche nella sua capacità di creare una presenza sentita per la fede e per gli affetti proprio là dove anche la tecnologia avanzata non arriva o arriva solo parzialmente.
Narrazione e desiderio
Ognuno di noi ha la sua personalissima storia, che chiede di essere narrata sempre di nuovo – perché ogni giorno accade qualcosa in essa e a essa. Magari piccole cose, di cui non ci accorgiamo nemmeno, che però la cambiano, la segnano, la alterano – liberandola dall’essere sempre e solo il medesimo. La preghiera è il tempo di questa narrazione, perché essa è il desiderio di Dio di ascoltare il nostro vissuto, i suoi tentennamenti, i suoi slanci, le sue battute d’arresto, i suoi orizzonti di gioia.
Nella preghiera veniamo sorpresi da un Dio che è desiderio di ascolto delle nostre vite, perché solo in tal modo egli può conoscere chi siamo, cosa sentiamo, quanto si muove nel nostro animo e grava sui nostri cuori – sono nella parola della nostra preghiera egli può apprendere il modo per farsi realmente prossimo a noi. Se non glielo diciamo noi, Dio non ha altre fonti per sentire di che pasta è fatta la nostra vita: nella preghiera veniamo resi certi di questo desiderio che è il Dio di Gesù, accendiamo la sua gioia di sentire da noi cosa accade nella nostra vita.
Certo, è quasi vertiginoso – tanto da rimanere bloccati; ma il cristiano e la cristiana possono giocare l’azzardo, nella preghiera, di far abitare Dio nel suo desiderio perché pregano fidandosi della parola del Signore. Le cose di cui abbiamo bisogno Dio le conosce già; cosa esse significano per noi, come plasmano le nostre vite, questo lo può (e lo vuole) imparare solo da noi – ossia nella preghiera.
Rendere a Dio la verità del suo desiderio – questo nocciolo duro della preghiera ci rende subito chiaro perché pregare non è impresa né facile né spontanea. Ma vi è un’altra ragione della preghiera difficile, che sta sul nostro versante. La preghiera getta una luce (inesorabile) sul Dio in cui crediamo, sull’immagine che ci siamo fatti di lui.
Se la preghiera è una sorta di partita doppia che fa i conti con un Dio ragioniere, o di un carrello di prodotti da richiedere al Dio supermarket, oppure di una supplica dall’esito incerto da presentare tremanti davanti al trono del Dio faraone, allora siamo ancora lontani dall’immaginario evangelico che Gesù ha condiviso con noi e ha consegnato alla fede di una moltitudine di fratelli e sorelle nella fede da secoli immemori. Nessuno di questi immaginari, infatti, consente di rimanere nella preghiera quando il suo destinatario si assenta – mentre è proprio il permanere nella preghiera anche in assenza di Dio che caratterizza la devozione di Gesù per il suo Abba.
Sarò ovunque tu sarai
In momenti come questi, mentre noi teniamo fisso lo sguardo verso un orizzonte in cui non si coglie alcuna presenza, il Dio di Gesù si è già ridislocato venendo a prendere dimora nella nostra stessa preghiera – accanto a noi, lì con noi, come l’ancoraggio che lo tiene nella verità del suo desiderio e nella storia dei nostri vissuti.
Il Dio che si assenta da davanti a noi per essere accanto a noi nelle effettività della vita, è il Dio che così dischiude dall’interno le nostre esistenze donandole nuovi legami di senso e orizzonti di speranza.