Un cappuccino e un gesuita partecipano agli esercizi spirituali. Un pomeriggio il cappuccino vede nel giardino il gesuita fare una passeggiata, con il breviario aperto e la pipa accesa in bocca. Si avvicina discretamente all’ignaziano e gli chiede: «Ma come ha fatto a convincere il suo superiore? Io ho chiesto se potevo fumare mentre pregavo, ma mi è stato negato». Il gesuita si toglie la pipa dalla bocca e risponde: «È stato facile. Io ho chiesto se potevo pregare mentre fumavo».
La preghiera è sempre un argomento «saponetta», difficile da afferrare e maneggiare con disinvoltura. Abbiamo molti stereotipi in testa su questo tema e per i giovani è difficile pregare ed è difficile parlare della preghiera. Mi pare di scorgere due grandi difficoltà.
Da un lato, la quasi totale incomprensibilità della “preghiera ufficiale della Chiesa” (lodi e vespri, per capirci). I termini usati, i linguaggi dei salmi, andare avanti e indietro nel breviario (quando poi ci sono memorie o feste, è peggio che andare di notte) … nulla aiuta la comprensione e la partecipazione. Dall’altro, la convinzione che la preghiera dev’essere qualcosa di personale, di intimo, e quindi «sono affari miei, perché devo pregare secondo certi schemi, insieme ad altri?».
In una strip domenicale dei Peanuts del 1963 Sally si nasconde insieme al fratello Charlie Brown, poi, sicura che nessuno li possa sentire, gli sussurra all’orecchio: «We prayed in school today», «Oggi a scuola abbiamo pregato». Inaudito: una preghiera in pubblico.
Credo che entrambe queste difficoltà abbiamo qualcosa di vero. Spesso noi preti tendiamo a giustificare una preghiera corale classica in vari modi, parlando dell’universalità della Chiesa, proponendo i salmi come la preghiera che anche Gesù faceva… Tutte argomentazioni più che giuste, ma resta un dato di fondo, incastonato come gioiello irremovibile nella spiritualità biblica. Se la preghiera è gesto d’amore e siamo invitati ad amare Dio «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5), allora la preghiera gode e deve godere di tutte le nostre facoltà, delle nostre capacità specifiche, della nostra indole particolare e unica e, last but not least, della nostra creatività.
La fantasia nella preghiera fa paura, perché temiamo che troppa fantasia minacci la comprensibilità dei nostri gesti e delle nostre parole. Vero. Eppure la preghiera è il linguaggio in cui siamo davvero liberi, in cui godiamo di una accoglienza a trecentosessanta gradi, in cui non possiamo venire giudicati, ma solo amati. C’è una domanda irrefrenabile che abbiamo dentro, raramente espressa ma sempre presente: essere protagonisti di ciò che facciamo. È una domanda profonda e ce l’ha messa Dio dentro.
Come il giocoliere Barnaba di Compiègne, nel famoso racconto di Anatole France. Egli può pregare in monastero Maria, pur non sapendo cantare, né scrivere, né fare pensieri teologici elevati. La sua preghiera è fatta di fantasia e competenza, come quella di tutti, ma le sue sono particolari: fa il giocoliere in chiesa, davanti alla statua di Maria. Tra un salto e una capriola, Maria accoglie la sua preghiera, più di quella dell’erudito priore, chino sui libri di teologia e spiritualità.
Allora forse, più che un percorso di “formazione alla preghiera”, come se ci fossero schemi di preghiera prestabiliti da raggiungere, potremmo pensare ad un cammino di “formazione della preghiera”, conducendo e lasciandosi condurre dalla volontà e dalla creatività. Una preghiera nuova, che non escluda le vie più “classiche”, ma che anzi le veda come uno sprone, un modello, una tappa o magari una meta, in una visione dinamica di crescita nel rapporto con Dio e con la comunità.
Dio accoglie sempre le nostre preghiere, offerta semplice e povera di quello che siamo, poesia fatta carne, senza nulla nascondere né ostentare. Forse chiede di pregare perché vuole stupirsi di fronte alla bellezza dell’uomo. In fondo, rischia di annoiarsi anche lui, certe volte: un po’ di originalità non può che piacergli.