L’elogio del passato è un esercizio retorico che ha sempre appassionato gli insoddisfatti, i cinici, i disfattisti, i tradizionalisti, i timorosi. Davanti alle incertezze del futuro e ai rischi che increspano la superficie del presente, i contorni definiti del già accaduto raccontano orizzonti di certezze in cui è sempre possibile rifugiarsi, sentendosi al sicuro.
Sulla riva opposta stanno gli ottimisti ad oltranza, quelli che «andrà tutto bene» anche di fronte ai genocidi autorizzati e alla violenza che, in modo subdolo ma implacabile, contamina le falde sotterranee del vivere comune.
Lo sguardo all’indietro e la proiezione nel futuro raccontano due posizioni simmetriche, sbilanciate l’una sulla nostalgia, l’altra sull’idillio, ma entrambe avviluppate dentro una narrazione che trova perno e motore nella necessità di mettere a tacere le ansie sull’oggi. Il passato era migliore; il futuro sarà migliore.
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Del tempo che è stato trattengo solo i giorni chiari, il racconto che pacifica o esalta, azzerando tutti i travagli da cui ogni presente viene partorito; del tempo che sarà mi concedo il sogno – Leopardi lo chiamava illusione – di un nonluogo utopico in cui tutto sarà diverso, più felice, più bello.
Così, tra rimpianti nostalgici del tempo che fu e utopie idealizzate del tempo che verrà, quella presa realistica sul presente che si chiama «speranza» continuamente si sfilaccia, facendosi sempre più vacua e inconsistente.
Strana sorte, quella della parola «speranza». I suoi contorni, nell’uso comune, vanno spesso a confondersi con quelli di parole come «sogno, illusione, miraggio, chimera». «Speranza» si riduce allora ad essere una vacua immagine di superficie, completamente priva di profondità, un’immagine che smarrisce l’affondo della traiettoria che, liberando il desiderio dalle strettoie talvolta mortifere del presente, segna la direzione, cioè il senso, del nostro andare avanti, del nostro procedere verso, del nostro tendere a.
Il legame etimologico che salda fra loro spes e spatium indica il protendersi spazio-temporale verso una meta, cioè verso un orizzonte che è, prima di tutto, orizzonte di direzione e di senso. Il tendere verso della radice sp- è anche nel verbo greco speudo e nel sostantivo spoudé, vocaboli portatori dell’idea di un agire direzionato e perciò stesso spinto da sollecitudine e da premura. È il correre verso la meta di cui parla Paolo nel terzo capitolo della Lettera ai cristiani di Filippi: non si dà speranza se non nello slancio di passi in cammino, di passi affrettati verso, protesi a.
I passi di Maria che, alzatasi, va in fretta (metà spoudès) verso i monti della Giudea, dalla cugina Elisabetta, come lei gravida di un figlio, come lei gravida di futuro.
Le statistiche che descrivono la tristezza di questo nostro lungo inverno demografico occidentale descrivono anche lo spegnersi della speranza nell’anima dell’Occidente: cosa più dell’attesa di un figlio è in grado di dare spessore e plasticità all’immagine e al volto della speranza, che è apertura sul futuro generata dalla piena consapevolezza del presente?
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Sì, consapevolezza del presente. Niente a che fare con l’idillio utopico; men che meno con la nostalgia. La speranza morde il pane del presente e tiene il conto dei giorni – perché solo così, ci insegna il salmista, si può giungere alla sapienza del cuore.
Il poeta Pindaro, che lungo tutta la vita aveva celebrato le vittorie dei più grandi atleti di Grecia, suggellò il suo ultimo componimento, la Pitica VIII, composta in onore di un famoso lottatore, con una pacata riflessione sulla fragilità umana e sulla durata effimera della gloria:
La gioia dei mortali in un attimo s’accresce
e altrettanto rapidamente cade a terra,
solo che venga scossa da un pensiero diverso.
Creature di un giorno: che cos’è “qualcuno”? Che cos’è “nessuno”?
Ombra di sogno, la vita umana.
Ma quando giunge un bagliore − dono divino,
uno splendore di luce è sugli uomini e dolcezza d’eternità.
Gli uomini sono brotòi, mortali, ed epàmeroi, effimeri, creature di un solo giorno. Consapevolezza del presente è, prima di tutto, consapevolezza della mortalità e del limite che, in quanto umani, ci segna e ci dà forma. Le gioie della vita, come la gloria e la fama, sono soggette a mutamenti che non è in nostro potere determinare e condizionare. Perciò, che senso ha sentirsi «qualcuno»? che senso ha sentirsi «nessuno»? La vita umana non è che un’ombra di sogno, una pallida ombra.
Quest’ombra, però, può essere toccata dalla luce. Una luce che i mortali non si danno da sé, ma che ricevono da Dio come dono. Ed è proprio lì, in quell’incontro tra ombra e bagliore di luce, che si gioca per i mortali la visione (l’anticipo?) dell’eternità, è lì lo squarcio temporale che incardina nel presente quello slancio proteso al futuro che chiamiamo speranza. È Pindaro, ma un po’ sembra Mosè.
Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
ma quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo.
Insegnaci a contare i nostri giorni
e giungeremo alla sapienza del cuore.
Salmo 90 (89)