Cancellare quanto stiamo vivendo non basta: bisogna pensare, fin che ne abbiamo il tempo, a un Giubileo dell’umanità, a una palingenesi condivisa.
In questi giorni di quaresima radicalizzata dalla quarantena condivisa con tutti, persino in monastero, dove la vita non cambia poi così tanto, c’è comunque un ritmo più pacato e regolare. Come monaco, condivido la sofferenza e lo smarrimento dei fratelli e sorelle in umanità e, al contempo, lascio emergere i pensieri del cuore.
Cancellare non basta…
Vorrei condividere un’esperienza di questi giorni inediti che si sposa con un ricordo: quello di cancellare. A motivo delle restrizioni, per contenere il contagio della pandemia che stiamo attraversando, si sente spesso parlare di impegni, viaggi, incontri… che vengono cancellati. Bastava guardare nei giorni scorsi i pannelli degli aeroporti per cogliere questo verbo: cancellato. Anch’io ho dovuto cancellare una serie di impegni previsti nella mia agenda personale come pure in quella della comunità.
La quaresima di quest’anno, a motivo dell’imprevista e inedita quarantena, è diventata, per così dire, “perfetta” dal punto di vista “monastico”. La consueta discrezione del tempo quaresimale è diventata radicale.
Mentre i giorni della quarantena passano e si protraggono, continuo a cancellare impegni previsti e penso già a quelli che ancora dovranno essere cancellati. La mia agenda, come penso quella di molti, guadagna ogni giorno di più in “biancore” e, gradualmente, si svuota. L’anno in corso assomiglia sempre di più all’anno che deve ancora venire!
Per quanto mi riguarda, bisogna arrivare al 2023 per trovare tanto spazio vuoto nell’agenda elettronica… tanto tempo disponibile e non ancora impegnato come quello ormai di questo mese di marzo e di aprile… e di maggio. Tutti speriamo di non dover far tabula rasa anche per giugno… ma nessuno può dirlo.
Ho cancellato… continuo a cancellare… forse dovrò continuare a cancellare… per quanto tempo? Settimane? Mesi?
Mentre ero intento a “fare le cancellazioni” per le prossime settimane, mi sono ritrovato bambino, sui banchi della scuola elementare con il mio astuccio da scolaretto diligente. Tra penne e matite, l’immancabile gomma. Mi è tornato in mente il gesto di fanciullo proteso ad imparare tutto ciò che serve per attrezzarsi in vista del magnifico compito di vivere. Ho risentito la fatica della mia mano sinistra – cominciare a scrivere con la destra per me, mancino di natura, è stato un tormento! – nel fare forza sulla pagina per cancellare.
Mi è tornato in mente che, per il bambino che sono stato, cancellare era un modo per migliorare. Dopo essermi reso conto di avere sbagliato nel dare una risposta, nel comporre un periodo o nel fare un calcolo, mi mettevo a cancellare per fare meglio. Ricordo l’emozione interiore: cancellare era il modo per riconoscere di avere sbagliato e rinnovare la speranza di migliorare. Da una parte, la gratitudine di poter riparare lo sbaglio, e, dall’altra, un certo rammarico per non avere fatto bene il mio compito sin da subito… un vero colpo al mio orgoglio di scolaro modello!
A distanza di quasi mezzo secolo, mi ritrovo a cancellare i miei impegni con un touch sul cellulare o con la gomma sull’agenda cartacea della comunità. In ambedue i casi devo accettare di assumere l’imprevisto. Mentre cancello, il pensiero mi dice che si tratta solo di rimandare, in attesa di recuperare.
Ma un altro pensiero, più profondo ed esigente, mi sale dal cuore: forse bisognerà non solo rimandare a tempi migliori, ma anche cambiare profondamente, perché i tempi siano migliori. Ogni cambiamento fa paura, per questo ogni vero cambiamento non si improvvisa, ma va preparato con cura e grande umiltà per viverlo con umana dignità e con una bella nobiltà d’animo di cui, spesso, ad essere maestri sono i poveri.
Bisogna pensare…
Giustamente in queste ore concitate in cui cerchiamo di seppellire i morti, curare i malati e sostenere i più deboli, non possiamo dimenticare di pensare al “dopo”. Mentre ci impegniamo a fronteggiare l’emergenza sanitaria, già prendiamo coscienza del dramma umanitario che già viviamo e che dovremo affrontare duramente nei tempi che verranno. Non solo è giusto, ma doveroso pensare al “dopo”. È compito di chi resta quello di preparare saggiamente i modi e immaginare i mezzi per continuare a vivere e sperare, senza dimenticare i più poveri e i più fragili. Nondimeno, siamo chiamati ad essere più saggi di come e di quanto siamo stati prima di questa «grande tribolazione» (Ap 7,14).
Accontentarsi di pensare al “dopo”, illudendo noi stessi e gli altri che basterà superare questo tempo di emergenza per ritornare alla spensieratezza cosmica con cui abbiamo vissuto fino all’8 marzo scorso, non solo è impossibile, ma pericoloso.
Quando già la Lombardia contava i suoi morti e gli ospedali facevano fatica a reggere l’urto dei ricoverati in terapia intensiva, la domenica dopo Carnevale, che era pure la prima di Quaresima, in tanti hanno confuso allegramente le restrizioni dovute all’epidemia come un’occasione per allungare le vacanze e concedersi un po’ di svago in più. Non c’è nulla di male a godersi le vacanze e concedersi momenti di svago e di serena distensione, ma, in un attimo, è stato chiaro che non avevamo capito quello che stava succedendo: una parte di noi non voleva assolutamente rispondere all’appello della storia, pensando di esserne giocatori e arbitri al contempo. Il giorno dopo tutto è cambiato per il nostro Paese e, a cascata, per i nostri vicini e i nostri lontani.
Certo, è doveroso pensare “al dopo” mentre seppelliamo i morti, curiamo i malati e salvaguardiamo i deboli. Nondimeno tra il “prima”, di cui abbiamo una profonda nostalgia e di cui ci sentiamo derubati, e il “dopo” che siamo chiamati a costruire con impegno e passione, non possiamo dimenticare il grave compito di pensare “attraverso” ciò che stiamo soffrendo.
Non potremo aprirci ad una speranza condivisa e stabile se non saremo capaci di discernere ciò che di illusorio e persino malfunzionante abbiamo vissuto prima della pandemia di Coronavirus.
Il discernimento, come capacità di leggere attraverso gli eventi quelli che sono gli appelli, è ineludibile ed è urgente. Se immaginiamo di poter semplicemente riprendere a vivere come prima e, soprattutto, a chiudere gli occhi e il cuore sulle ferite dell’umanità e del cosmo, non potremo che essere così delusi da rischiare la disperazione con tutta la violenza che questa può scatenare dentro di noi e tra di noi.
Sofferenza e violenza sono intimamente legate nel nostro umano sentire e reagire. Solo una sofferenza riconosciuta e assunta può creare un incremento di compassione. Al contrario, una sofferenza negata o semplicemente sopportata, per essere dimenticata non appena possibile, non può che creare un vortice di violenza che crea altra sofferenza.
Mentre, per esorcizzare le comprensibili paure e confortare i più deboli, da più parti si parla, con toni quasi euforici, del “dopo”, come discepoli di Cristo saldamente ancorati all’ottimismo tragico del Vangelo, vogliamo prendere tutto il tempo per leggere fino in fondo quello che sta succedendo. Solo il discernimento umile e coraggioso del presente, così drammatico, che viviamo potrà permetterci di pensare al “dopo”.
Questa è la grande lezione della Pasqua che quest’anno celebreremo ritualmente in modo assai povero, ma che, in realtà, potrebbe essere l’occasione di vivere in modo esistenzialmente più ricco a livello spirituale.
Mentre il digiuno dai riti per gli uni e la rinuncia alle vacanze per altri renderanno questa Pasqua diversa, siamo chiamati – tutti indistintamente – ad assumere la logica pasquale. In una parola, attraverso i Vangeli, possiamo imparare dal Signore Gesù a vivere fino in fondo il fallimento, l’angoscia e persino la morte senza inutili scorciatoie. Mentre si preparava alla sua Passione, il Signore Gesù preparò i suoi discepoli al “dopo”, aiutandoli a vivere fino in fondo il dramma che stavano per vivere, con chiarezza lucida e luminosa, fino a dire: «Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me» (Gv 16,33). Nel suo mistero pasquale il Signore Gesù ha vinto la morte attraversandola interamente e, con il suo mite patire, ha messo persino la morte al suo posto.
…nel segno del gabbiano…
Tutti ricordiamo l’immagine del gabbiano appollaiato sul comignolo della Cappella Sistina prima dell’ultima fumata bianca.
Mentre le immagini della preghiera di venerdì 27 marzo in Piazza San Pietro hanno attraversato il mondo intero, il ricordo di quel gabbiano si è caricato di profezia diventando un presagio.
I gabbiani non sono colombe!
L’immagine del gabbiano è in genere portatrice di sensazioni inebrianti legate al senso di libertà e di spazio, al sentirsi immersi nella luce e partecipare intimamente e profondamente della vita. Come dimenticare Jonathan Livingstone?!
Presente in alcuni miti e racconti indiani, come colui che possiede la luce, il gabbiano è un animale che vola sul mare e sulla terraferma, in solitudine o in grandi stormi, che si ciba pesce fresco appena catturato o di resti rinvenuti nelle discariche di immondizie, che resta indipendente e libero pur vivendo a stretto contatto con l’uomo e non mostrando timore nei suoi confronti.
Il gabbiano è un grande esempio di adattabilità, di utilizzo delle proprie risorse per sopravvivere, di capacità di vivere la bellezza e la leggerezza dell’esistenza senza dimenticare il senso pratico, la concretezza che lo fa ritornare a terra a becchettare qua e là come un animale da cortile. Eppure, nelle sue scorribande aeree, esprime tutto il piacere della libertà, nei suoi gridi rauchi e sgraziati la gioia della vita e del movimento.
Gregorio Magno, predecessore di papa Francesco, il quale visse momenti altrettanto difficili, evoca l’immagine della Chiesa prefigurata dall’arca di Noè nella cui parte superiore ci sono i santi, e alla cui sommità – a guisa di torre – non c’è altri che il Signore Gesù: «Egli, come scrive il salmista, divenne come passero solitario sull’edificio».
In questo drammatico frangente che ha scosso l’umanità cominciando dalla parte privilegiata di essa, papa Francesco si è messo di fronte agli occhi dell’umanità, affranta e impaurita, come «passero solitario», esercitando in modo radicale uno dei compiti insiti al suo ministero: essere pontefice. Nella sua solitudine di condivisione assoluta, papa Francesco ha incarnato in modo radicalmente evangelico il ruolo del sommo pontefice imperiale e pagano di cui il papato ha ereditato attributi e insegne. Con rara e semplicissima solennità ha esercitato nel suo ministero particolare quel sacerdozio battesimale, sempre regale e profetico, di tenere collegati il cielo e la terra, il tempo e l’eternità, il grido d’angoscia e il canto di speranza.
Sin da subito, papa Francesco ha voluto rinunciare all’ambiguità pagano-imperiale del titolo di pontefice senza peraltro abdicare al senso profondo e duraturo di ciò che questo termine esprime in realtà e in profondità. Lo ha spiegato lui stesso parlando al Corpo Diplomatico all’indomani della sua elezione. Dopo aver di nuovo sostato sulla scelta del nome sottolineando che Francesco d’Assisi rappresenta pure una continua esortazione, oltre che alla custodia del creato, anche alla costruzione della pace, si premurò di chiarire per orientare:
«Uno dei titoli del vescovo di Roma è pontefice, cioè colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini. Desidero proprio che il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere ed abbracciare! Le mie stesse origini poi mi spingono a lavorare per edificare ponti. Infatti, come sapete, la mia famiglia è di origini italiane; e così in me è sempre vivo questo dialogo tra luoghi e culture fra loro distanti, tra un capo del mondo e l’altro, oggi sempre più vicini, interdipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fraternità».
Il gesto di presenza alla sofferenza del mondo, compiuto da papa Francesco nel vuoto così magnificamente pieno di senso di Piazza San Pietro, è stato un atto di “governo spirituale”. La piazza, stretta in abbraccio dal colonnato del Bernini nella sua nuda povertà, è stata posta sotto lo sguardo del Crocifisso bagnato di pioggia purificatrice: preludio e promessa della fine anche di questa “peste” moderna… quando Dio vorrà!
Quello esercitato da papa Francesco è un ministero liberato da ogni apparenza di potenza, persino quella del sacro ingombrato di orpelli, e vissuto in quella spogliazione pasquale che è la nota dominante di questo pontificato.
Da Piazza San Pietro si è levato un grido accorato come quello dei gabbiani che volteggiano su Roma, senza rinunciare all’eleganza della speranza: «Signore, non ti importa che siamo perduti?» (Mc 4,38). L’indimenticabile gesto di papa Francesco possa diventare una profezia per sognare insieme una umanità responsabile e solidale. Quando papa Francesco ha ricordato che «siamo tutti sulla stessa barca», in realtà ha esortato l’umanità a fare corpo e a “remare” insieme verso un futuro che non sia la continuazione del passato con la semplice cancellazione di questa dura parentesi di pandemia.
… un Giubileo dell’umanità
Pensando al “dopo”, senza perdere l’occasione di pensare “attraverso” quello che stiamo soffrendo in questo tempo, sarebbe magnifico immaginare un Giubileo dell’umanità. Nella tradizione di Israele, ereditata in modo particolare dalla Chiesa del secondo millennio, il Giubileo è un momento di verità.
Come prescrive la Torah, il Giubileo non è che l’estensione dello spirito dello shabbat: «Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà nella sua proprietà» (Lv 25,8-13).
Sarebbe bello che papa Francesco suonasse lo shophar per chiamare a raccolta tutti gli uomini e le donne di buona volontà per proclamare un anno di Giubileo universale, per profetizzare insieme, giovani e anziani (Gl 3,1), discepoli di tutte le Chiese, credenti e non credenti. Ciò che la Chiesa cattolica ha cercato di vivere, durante il Giubileo dell’anno 2000, potrebbe essere riproposto, in modo adeguato e amplificato, all’intera umanità.
Come cattolici, proprio davanti all’immagine di quel Crocifisso che il mondo intero ha imparato a conoscere in occasione della pandemia di Coronavirus, abbiamo chiesto perdono per le nostre colpe. Con coraggio papa Giovanni Paolo II comprese che non si può mai rinnovare la speranza senza riconoscere i propri errori. La litania di perdono e di invocazione, che è risuonata nel deserto di Piazza San Pietro benedetto da una pioggia fine e battente, potrebbero divenire la supplica di tutta l’umanità che ha bisogno di ritrovare la capacità di battersi il petto per non rimanere prigioniera dei suoi errori di discernimento e dei suoi passi falsi.
Le guide spirituali dell’umanità, come nei tempi d’oro delle grandi civiltà, invece di sostituirsi alle autorità civili sono chiamate ad invitarle a riconoscere il “segno” che questa pandemia offre a tutti: non ci possiamo salvare che tutti insieme e non c’è possibilità alcuna per nessuno di scampare a scapito degli altri. Non basterà superare l’emergenza, bisognerà imparare da quello che l’umanità sta soffrendo.
Un Giubileo dell’umanità nella sua interezza di Corpo solidale non può che partire da un riconoscimento delle colpe commesse, in tanti modi, contro la casa comune del creato e contro il corpo sofferente dei piccoli e dei poveri. Se non riconosciamo gli errori, cominciando a mettere tra parentesi le accuse contro gli altri, nessun futuro sarà veramente possibile per nessuno, nemmeno per i ricchi e i potenti che il virus non distingue e non risparmia. Quanto è stato condiviso, talora dolorosamente, nel recente Sinodo speciale per l’Amazzonia può offrire già una buona strumentazione di bordo per salpare verso una comprensione più adeguata della nostra vita sul pianeta Terra.
Un Giubileo dell’umanità potrebbe essere l’occasione per ristabilire il regime dell’alleanza con la Trascendenza, con la Creazione di cui siamo parte e di cui siamo ospiti, con i nostri fratelli e sorelle in umanità. Se saremo capaci di riconoscere, con umiltà e verità, i nostri errori, saremo capaci di diventare migliori e rendere più abitabile la terra e più umana la vita di tutti.
Un primo passo per una conversione universale, attraverso la proposizione di un Giubileo di tutti e per tutti, è quello di ristabilire un giusto rapporto con il tempo e con lo spazio, con il fare e il contemplare, con il diritto dei poveri di riposare e il dovere dei ricchi di non trasformare la vita in una continua vacanza da preparare o da cui riprendersi.
Il Giubileo come amplificazione del mistero umanizzante dello shabbat sarebbe da riscoprire in modo quasi terapeutico per la nostra generazione malata in umanità.
Come spiega padre David d’Hamonville con la sua rara finezza: «Una delle funzioni essenziali del sabato è di sospendere la disumanità della schiavitù (cf. Dt 5,15). Una seconda funzione maggiore del sabato è la desacralizzazione del lavoro e dell’opera umana: non adorerai l’opera delle tue mani, non darai un valore supremo all’efficienza del tuo agire, per quanto possa essere importante. Questa sospensione del tempo di lavoro e di attività obbliga le persone a guardare oltre se stesse, a contemplare l’opera del Creatore (cf. Es 20,11). Questo è un insegnamento ancora valido: la tentazione dell’idolatria del lavoro come efficienza è una delle più potenti tentazioni nella nostra epoca».
La costrizione del confinamento, la fatica di non poter uscire di casa neanche per andare a lavorare o di non poter coltivare i propri affetti nemmeno in punto di morte ha stravolto la vita di milioni di persone. Ma non basta essere stravolti per divenire uomini e donne migliori, popoli e culture più saggi. Se aspettiamo solo di riprendere a vivere come prima, il prezzo, già ampiamente pagato all’indifferenza, diventerà ancora più salato tanto da rischiare di essere ingestibile.
Al contrario, dopo essere stati costretti a fermarci e a cancellare buona parte dei nostri programmi, da quelli personali, familiari e professionali a quelli economici ed internazionali, possiamo scegliere di fermarci tutti insieme. Fermarci per pensare e decidere con libera volontà per entrare, tutti insieme, in un processo di sapienza.
Sarebbe augurabile decidere di fermarci spontaneamente per fare shabbat tutti insieme prima che sia troppo tardi. Sarebbe auspicabile prendere un tempo di seria riflessione e di onesta rilettura della nostra recente storia di globalizzazione, non per riparare i danni semplicemente, ma per sperare insieme in modo nuovo.
Un Giubileo dell’umanità potrebbe essere il modo adeguato di imparare da quello che stiamo patendo e di rinnovare quei vincoli tra persone e con la Creazione senza i quali saremo inevitabilmente «perduti» (Mc 4,38).
In un tempo della storia post-cristiano e post-religioso, forse questa è l’occasione per gli uomini e le donne di fede di diventare profeti di un’umanità possibile e desiderabile. Se, come credenti, sapremo unirci per servire alla causa comune dell’umanità, persino le religioni e gli uomini e le donne che le rappresentano diventerebbero più affidabili, come più credibili diventerebbero le nostre pratiche religiose plurimillenarie. Le religioni, come diceva Carl Gustav Jung, sono un «complesso sistema di preparazione alla morte» chiamate a mettersi a servizio della vita per tutti «in abbondanza» (Gv 10,10).
Il tempo che viviamo rischia di essere la grande occasione perché le religioni, e in particolare quella cristiana, vivano un tempo di compimento e di incremento in autenticità.
Una profezia risuona ancora nell’aria che, a causa delle restrizioni, si è fatta più respirabile: «Così dice il Signore degli eserciti: In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle nazioni afferreranno un giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo udito che Dio è con voi”» (Zc 8,23).
- Fr. MichaelDavide, osb, www.lavisitation.it