La bellissima chiesa tardo medioevale di San Francesco a Lodi conserva uno “spazio letterario e di preghiera femminile” che merita una sosta col pensiero e – se possibile – con una visita.
La poetessa Ada Negri (1870-1945) rivela quanto le fosse caro “quell’antico tempio” dove “sorridean le Madonne del trecento, miti ed ingenue sui giallastri muri”. In un brano poetico, ancorato a uno stile letterario per noi superato, ricorda la sua preghiera adolescente tra quelle “arcate” e, da adulta, confessa il desiderio di tornare lì per dimenticare “tutto il mal ch’io commisi e ch’io soffersi”.
Un luogo amato e dove spesso sostava accanto a una colonna affrescata con la Madonna dell’ermellino che le guide non a caso riportano come “colonna di Ada Negri”. Un’immagine che ci invita a riflettere sul “cammino di fede”, espressione nota e ripetuta nella tradizione cristiana e che rimanda sia a vie transitabili, concrete e urbane (come le strade degli antichi pellegrini), sia a passaggi interiori e noti solo a chi vive tra sé e sé il movimento dello spirito.
Spesso questi sono binari che si avvicinano e si intrecciano perché proprio un luogo ricercato favorisce raccoglimento e preghiera. Qui ci piace il rimando a quei brevi percorsi feriali che i nostri passi operano nella ricerca di spazi sacri capaci di restituire un respiro nuovo e ossigeno prezioso nel tempo della vita quotidiana.
In un periodo in cui le case a tratti ci appaiono soffocanti e le chiese offrono una quiete pari a quel silenzio che la Negri coglieva in San Francesco (“il silenzio delle antiche cose nel tramonto dei secoli sopite”), rintracciamo nella poesia l’invito a muoverci per sostare dove la Voce e la Parola possono risuonare e proprio lì tacitare voci e parole frastornanti.
Se è vero che le nostre chiese non sempre mostrano angoli artisticamente pregiati e tantomeno colonne dipinte o arcate di un tempio “grave d’anni”, comunque capita di preferire alcuni spazi sacri ad altri e sceglierli per sostare. Una ricerca che richiama la famosa “stanza tutta per sé” che Virginia Woolf auspicava per le donne, troppo a lungo chiamate a vivere e a servire in case non fatte proprie.
È sempre la Negri che descrive quel che le consente tale raccoglimento interiore: la memoria di altri tempi vissuti che si intreccia all’attenzione sul presente e ai desideri che questa muove (“Avanti… – ma al passato un dolce, intenso desio la torturata alma rimena”).
Ma anche ciò che il corpo partecipa: intense esperienze sensoriali che affiorano: “V’era come un odor di vecchie rose, un odore di mammole appassite “ e “profumi di gigli e vecchio incenso”. Percezioni sensibili, respiro interiore, intimità vitale: tutto questo favorisce la preghiera, anticipata da un cammino specifico e direzionato. Il luogo, così come il tempo per raggiungerlo conta: rivela un desiderio, inizialmente confuso e, nel tempo, sempre più nitido e personalizzato.
L’icona mariana presso la quale Ada Negri sostava rimanda a una maternità elegante: la vergine eretta, longilinea e dal volto mesto ha in braccio il Bambino e indossa una veste pregiata e intessuta di una pelliccia di ermellino. Tra la “gracile Madonna” e il piccolo vi è un contatto di mani, mediato da due fiori che ella trattiene tra le dita.
Anche il piccolo tiene nell’altra mano un elemento floreale che ci sembra un soffione di campo. Difficile per noi cogliere i significati simbolici di queste minute piante arboree: sicuramente non casuali come ci spiega nei suoi splendidi saggi il compianto padre Giovanni Pozzi, l’iconologo autore, tra l’altro, della dotta “Postilla sul fiore mariano” (in Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi 1993).
Semplici fiori, quelli in mano a Maria che il bimbo sembra guardare con lieta attenzione, come i bambini osservano contenti e incuriositi piccoli sonagli.
In una raccolta di poesie intitolata Maternità (1920) la poetessa, racconta di maternità ferite restituendo loro una ricchezza esistenziale e umana con immagini ed espressioni intense, pur segnate da vocaboli del suo tempo. Ci sembra che tali figure femminili (Eliana, Mara, suor Benedetta) si colleghino con un filo di lana delicato (come quello che cuce le pagine di stoffa dell’artista Maria Lai) a quel volto mariano trecentesco presago di un dolore che solo il contatto affettuoso col Bambino può lenire.