Dio si fa precario come noi: «il Verbo di Dio è diventato carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi». Sebbene Dio non ne avesse bisogno, per eccesso di amore vuole diventare simile a chi ama: cioè a noi. L’amore rende simili.
Non è voluto diventare genericamente uomo (il prologo di Giovanni non dice antropos), ma uomo fragile (il testo originale dice sarx). Dio ha scelto, per amore, di diventare sarx, mortale e vulnerabile come ciascuno e ciascuna di noi: non per una breve comparsa ma “accampandosi” nella nostra umanità (il testo dice eschenosen en emon): mise la tenda in mezzo a noi. Nella tenda dimora chi è nomade, di passaggio non chi si radica in sontuosi e sicuri palazzi. La tenda è immagine dell’umanità che mai come in questo tempo si è riscoperta precaria, di passaggio ma preziosa ai suoi occhi.
La presenza di Dio (shekinà dell’Esodo) non è più racchiusa in un accampamento costruita da mani d’uomo, né nell’arca, né in un Tempio adornato di belle pietre bensì nelle mani con cui Gesù ha lavorato, nell’intelligenza con cui ha pensato, nella volontà con cui ha agito e nel cuore d’uomo con cui ha amato (GS 22).
Con la nascita di Gesù infatti Dio dimora stabilmente in mezzo a noi: è tra noi, è come noi, è in noi. «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro … e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 21,3-4). Quale gioia più grande di questa? Dio supera ogni distanziamento sociale per compiere il più bel ri-avvicinamento sociale di cui abbiamo veramente tanto bisogno.
Qualcuno si chiede: e se Gesù fosse nato oggi? Per il suo grande amore verso di noi, avrebbe indossato una mascherina ma non si sarebbe sottratto al ri-avvicinamento sociale. L’amore lo spinge ad abitare non solo l’infinito del Cielo ma anche questa umanità: impaurita, disorientata e ammalata. È veramente Natale se riconosciamo che non c’è distanziamento tra noi e Dio: nessun peccato, nessuna fragilità, nessuna condizione irregolare, nessuna ferita, nessuna solitudine, nessun virus può tenere distante la tenerezza di Dio dalla nostra vita.
Prenderci cura della nostra debolezza
Ormai noi siamo la sua casa: la nostra carne diventa la sua carne, la nostra debolezza diventa la sua debolezza. E se il dolore di questi giorni ha provocato la solitudine lacerante dei nostri nonni e nonne morti senza l’ultima carezza dei loro cari, il ri-avvicinamento sociale di Dio ci metta nel cuore la nostalgia della fragilità altrui. La pandemia ci ha fatto riscoprire – togliendocela – la ricchezza delle relazioni affidandoci alla terribile povertà della solitudine.
La tenerezza del neonato Gesù ci offre la possibilità di cambiare rotta: superare le brutture del passato e aprirci fiduciosi al futuro. Se la pandemia ci ha tolto tanto: agende, relazioni, programmi, calcoli, soldi, affari ecc. non ci ha sottratto però la preziosità della nostra vulnerabilità, grazie alla quale è ancora possibile amare ed essere amati.
Vogliamo prenderci cura della nostra debolezza, senza vergogna! Vogliamo lasciarci scomodare dalle nostre vulnerabilità senza rimuoverle. Questo Natale che passerà alla storia ci sta paradossalmente affidando l’opportunità di recuperare la vulnerabilità e la debolezza che fu anche del neonato di Betlemme, l’opportunità di diventare inermi ma teneri come Dio, dal quale impariamo la più grande lezione: non c’è virus che blocca l’amore, se non la presunzione di sentirci forti e capaci di tutti.