“Tu canti agli uomini le tue canzoni, io canto agli angeli le mie orazioni”. Con queste parole e con il rosario tra le mani, la voce da contralto della madre cieca di Gioconda si rivolge alla sua inquieta e amatissima figlia, cantante di strada e protagonista dell’omonima opera lirica di Amilcare Ponchielli (1834-1886).
Lo scorso giugno, con studenti e qualche collega, trascorsi una bella serata alla Scala di Milano per assistere a questa rappresentazione, il cui primo debutto fu proprio al Piermarini nell’aprile del 1876.
Nel testo il rosario risulta un importante segnale di salvezza in una vicenda complessa tra amori non corrisposti, trame oscure ordite da un perfido agente dell’Inquisizione e da un potente nobile membro del Consiglio dei Dieci. Un fitto intreccio di vicende umane avente come scenario una Venezia secentesca che lo spirito tardo-romantico avrebbe molto apprezzato.
Di mano in mano
Non so se i numerosi giovani presenti quella sera (anche grazie a un’ottima politica culturale per le scuole da parte dell’istituzione scaligera) abbiano riflettuto sulla scelta del librettista Arrigo Boito e del maestro Ponchielli a proposito della preghiera mariana e di quella particolare “collana” tra le mani di chi prega. Forse fu solo un espediente utile al drammaturgo per legare gli eventi a un finale dove la morte tragica si associa all’amore e a un atto sacrificale.
È tuttavia possibile un’altra lettura di quell’oggetto che passa di mano in mano durante le preghiere e che può rivelare un più profondo significato. La corona del rosario già appartenuta alla madre non vedente di Gioconda viene donata dalla stessa cieca ad un’altra donna e ciò consentirà la salvezza di una coppia e del loro amore. “La salvezza del mondo nella preghiera mariana” è, non a caso, il sottotitolo di un bel testo del teologo H.U. Von Balthasar intitolato “Il rosario”(1977).
Tra cecità e preghiere corre un filo nascosto, quasi come quello che unisce i grani della nota collana che soprattutto le donne hanno a cuore. A chi ripetutamente recita le parole dell’angelo a Maria spesso rimane nascosto l’esito delle proprie invocazioni; sa di non poter sicuramente scorgere se e come le sue preghiere saranno esaudite.
Tuttavia, chi lega al suo dito quel filo recitando le decine di “Ave Maria” confida pazientemente nella promessa di un Dio misericordioso presso il quale una Madre buona può intercedere ed elargire un dono.
Maria è stata maestra di pazienza o meglio della “perseveranza che salva le anime” (Lc 21,19). Ella infatti ha imparato ad attendere e a pregare fin dalla gravidanza di suo figlio e poi a perseverare nel credere alle parole di Gabriele anche nei tempi lunghi in cui non capitava niente; a sperare contro ogni speranza sotto la croce e fino al sepolcro.
Fuori dal temp(i)o
“Vivendo il Sabato Santo, infuse speranza ai discepoli smarriti e delusi” (sono parole di Carlo Maria Martini). Il filosofo francese contemporaneo J-Y. Lacoste, parlando dell’esperienza liturgica (in verità da lui definita propriamente una “non esperienza”), riflette a fondo sull’inoperosità di tale luogo spirituale (per lui “non luogo”) e sulla virtù liturgica superiore che la caratterizza, ovvero la pazienza.
Nella recita del rosario è evidente un largo esercizio di questa disposizione: ripetitività che rasenta l’ecolalia e la monotonia, scarso spazio alla riflessione concettuale, manifestazione di impotenza della parola sono propri di questa preghiera in cui il filo conduttore è l’invocazione a una madre che è Madre anche di Dio.
Durante tale recita si interrompe il tempo cronologico, quello ritmato dalle faccende quotidiane, e nasce uno spazio temporale anomalo che può essere condiviso con altri credenti. I soggetti quasi scompaiono in un coro di voci che fanno esperienza di un intervallo segnato dallo spirito e non da azioni concrete.
Ascoltando quel famoso brano della “Danza delle Ore” incastonato nella stessa opera di Ponchielli, è possibile chiedersi se proprio la preghiera mariana abbia suggerito al compositore note così belle e giustamente famose che dicono la labilità e la sospensione delle ore. La danza, inoltre – sempre per Lacoste – risulterebbe l’immagine più propria del momento liturgico dove agisce il singolo che è corpo e anima.
Voci
Nel libretto del Boito compaiono voci femminili che recitano litanie latine e invocano la Vergine in contesti difficili. Sono voci di donne che dimostrano coraggio e speranza in una vicenda storica funestata da bramosie oscure e doppiezze che sfociano anche in atti violenti. La storia umana, con le sue contraddizioni più penose, è pur sempre sullo sfondo della nostra vita di fede.
Compare anche una poetica definizione del rosario: “pietoso don… che le preghiere aduna”. Nella vicenda narrata nel melodramma il dono è elargito da una madre segnata da cecità: ella non può vedere il volto di colei che lo riceve ma quest’ultima ne sarà coinvolta profondamente.
Il rapporto madre-figlia qui risulta importante ma si racconta di una donna che sa vivere una maternità allargata a figli che ella non ha partorito. Proprio tale maternità favorirà orizzonti e farà sorgere un’alba nuova a chi era stato ingannato e vilipeso.
È sempre difficile trovare immagini che dicano la vita di fede e l’esperienza della preghiera. Come la figura di Dio, anche la personalissima e originale avventura spirituale non è mai del tutto raggiungibile con figure appropriate.
Luce e colore
Tuttavia, non sono pochi gli artisti che hanno tentato questa impresa. Nella ricerca di raffigurazioni che dicano la speranza e la luce innescata dalla preghiera del Rosario – nonostante e attraverso i misteri dolorosi di cui essa fa memoria – una ci è sembrata particolarmente convincente.
È quella firmata da Henri Matisse che disegnò una celebre cappella per la Congregazione delle Domenicane di Monteils tramite la mediazione di una giovane suora già sua infermiera personale in tempo di malattia. È infatti dedicata alla Madonna del Rosario la celebre Chapelle Matisse di Vence, nell’entroterra di Nizza, realizzata tra il 1949 e il 1951.
La luce intensa della Costa Azzurra penetra tra le splendide finestre colorate di giallo, verde e blu disegnate con uno stilizzato motivo vegetale dal grande Maestro.
Un cromatismo intenso e gioioso che dialoga con le bianchissime superfici del piccolo spazio sacro dove nei pannelli di ceramica bianca risplendono contorni neri di figure sacre e ripetuti fiori, semplicissimi come fossero disegnati da un bambino. È Maria, infatti, il “fiore della radice di Jesse”.
Qui si dà un luogo ideale in cui poter esprimere la gratitudine per quel dono di Dio che – nella scelta della croce – consente la salvezza di tutti.
Veramente un bel posto.
Molto bello.
Ma non c’è in Tabernacolo?
Io almeno non sono riuscito a trovarlo.