Il rosario, oltre ad offrirci messaggi di gioia luminosa, rischiara i momenti della tristezza e della prova. Un commento ai venti misteri.
Misteri della gioia
Annunciazione
«Rallegrati, piena di grazia» (Lc 1,28). Stridente il contrasto quando questo saluto che annuncia gioia e “grazia” rintocca in un tempo, e per qualcuno anche in un luogo, di “disgrazia”! È comunque un inizio, un raggio di luce nella notte, che prefigura un altro annuncio ancora più gioioso che segnerà l’inizio dei misteri della luce: «Tu sei il figlio mio, l’amato!» (Mc 1,11). Sono parole che riguardano Gesù, ma anche noi, in lui. È nell’irradiazione di questo annuncio che si deve trovare la forza di respirare. «Il Signore è con te» viene detto anche a noi: ecco la “grazia”. Attaccarsi a questa promessa che rassicura, con la speranza che sia più solida di un ciuffo d’erba sulla riva, a cui si aggrappa chi sta per annegare. E meditare il mistero rivivendo i sentimenti di Maria, che reagisce alle parole dell’angelo passando per lo stupore, il timore, la domanda, la fiducia, per giungere all’abbandono generoso di chi si riconosce «serva del Signore». È l’intero cammino della fede.
Visitazione
«Beata colei che ha creduto» (Lc 1,45). Ripetere a se stessi questo saluto, ricordarsi di queste due donne che hanno creduto all’incredibile: da qui la loro gioia, che condividono cantandola. La stessa gratitudine visita pure noi, soprattutto quando, in momenti di desolazione, un gesto di accoglienza (un sorriso, una lettera, un incontro) ci fa dono della vicinanza del Signore, e ci aiuta a “credere” alla sua bontà. Sapere che è il nostro “vuoto” che “magnifica” il Signore perché rivela che lui solo è grande, ma anche ricordarsi che egli vuole servirsi della nostra miseria per compiere la sua opera nel mondo. Quale opera? Abbattere l’orgoglio, non confidare in ricchezze e potere; aiutare i deboli, soccorrere i poveri, saziare gli affamati: vivere il Magnificat.
Nascita a Betlemme
Gesù «avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia» (Lc 2,12): immagini di “poesia”? Piuttosto di morte e di squallore, che evocano il sudario e la tomba (Lc 23,53), come mostra l’iconografia bizantina della Natività. E tuttavia credere che in questi “segni” è venuto a nascondersi il Salvatore del mondo, Gesù, il Dio con noi, Emmanuele. Ci possono essere dei Natali che assomigliano più al Calvario. È l’occasione per contemplare il Signore come nostro compagno di strada, lui che si è “ridotto” nelle ristrettezze di una stalla, nell’impotenza di una croce, per farci comprendere che non siamo mai soli, dato che egli ci raggiunge nel fondo della nostra miseria. Rimaniamo dunque a “vegliare” da sentinelle, come i pastori e i magi, in attesa di ascoltare un canto di angeli nel cuore della notte (cf. Lc 2,13-14), e che «la stella del mattino si alzi nei nostri cuori» (2Pt 1,19).
Presentazione al Tempio
Strana storia: un vecchio che “abbraccia” un piccolo bambino nel quale vede «la salvezza preparata davanti a tutti i popoli» (Lc 2,30-31), e che è nello stesso tempo «segno di contraddizione» (2,34), fino a diventare per sua madre una «spada» (2,35)! Che salvezza è dunque questa che mischia gioia e dolore? È nell’atto stesso di “offrire” un bambino che, da adulto, “offrirà” lui la sua vita (cf. Gv 10,15). Questa offerta rivela una logica nuova nel modo di vivere, e ci fa scoprire che davvero “il sacrificio è il linguaggio fisico dell’amore”. In un mondo dove trionfano spesso la rapacità e la morte che ne discende, il “dono”, piccolo o grande che sia, è in ogni caso ciò che “salva”, ciò che ci garantisce la vera libertà del cuore. In effetti “condividere” è la maniera più efficace di vivere in pienezza, perché «chi semina largamente, largamente mieterà» (2Cor 9,6), e «chi perde/dona la sua vita, costui la troverà» (Mc 16,24).
Gesù perduto e ritrovato
Questo è un “mistero di gioia” che è attraversato dall’angoscia di una “perdita”. Si è detto che in quei tre giorni Gesù si sarebbe rifugiato presso “suo” Padre: cercava forse un sollievo alla sensazione di essere stato abbandonato nella tristezza del mondo? Ma se questa “fuga” poteva consolare lui, la sua assenza getta i suoi genitori nella desolazione. Che resta, comunque, nel “perché?” di Maria, che non comprende, ma che attende, conservando la domanda nel suo cuore. Peraltro, dopo una sparizione temporanea, Gesù riappare, «scende» di nuovo con loro, per essere loro «sottomesso»: è l’ordinario del quotidiano che riparte. Abbiamo bisogno di Gesù, e non cessiamo di cercarlo. E però sappiamo di poterlo trovare là dove lui ci dà appuntamento: “in alto”, nel conforto che viene dalla preghiera (cf. Rm 15,4), e anche “in basso”, in incontri in cui la condivisione del dolore e della gioia (cf. Rm 12,15), o il dono generoso ai più «piccoli» (cf. Mt 25,31-40), crea un senso di comunione che ripara qualsiasi “perdita”, e ci guarisce.
Misteri della luce
Battesimo di Gesù al Giordano
Il cielo che si apre, la colomba della pace e dell’amore che scende su di lui, e la voce del Padre che lo proclama il suo «Figlio amato» dicono chiaramente che il battesimo di Gesù è un’esplosione di luce. E tuttavia… Quando Gesù annuncia un altro battesimo che deve ricevere, ne parla in termini di «calice» della sofferenza (Mc 10,38), o di «fuoco» e di «angoscia» (Lc 12,50). Nessuna sorpresa. Marco ci dice che Gesù ebbe la visione nel momento in cui «risaliva» (ed è già il preludio della sua Ascensione!) dall’acqua (Mc 1,10) dopo che vi era «disceso» come nell’abisso della morte. Essere battezzato significa entrare nella stessa dinamica morte/vita che sta al centro della vita cristiana. Quando si è come sepolti nell’oscurità, ci si ricordi che il battesimo ci “radica” nel Cristo (Ef 3,17), e che la vocazione di queste “radici” è di scavare nel “buio” per trarne «di che / offrire del lavoro / alla luce» (Guillevic). Come fare? Luca annota che Gesù ebbe la “rivelazione” nel momento in cui «si trovava in preghiera» (Lc 3,21). È questo lo spazio in cui possiamo “battezzare” la nostra notte, e intravedere quelle piccole luci che arrivano a trapassare il nostro buio.
Nozze di Cana
La “luce” di Cana appare anzitutto nel fatto che in questo evento abbiamo il «primo (o l’inizio) dei segni» fatti da Gesù, un gesto che diventa epifania della sua «gloria», o manifestazione della sua potenza e della sua anima. Il segno è almeno duplice. Anzitutto la festa di nozze e il banchetto ci ricordano il sogno di Dio: fare dell’umanità la sua “sposa” e celebrare questa alleanza nella gioia. Inoltre, l’intervento di Gesù ci dice che egli non accetta che la festa sia bloccata da una mancanza: la ripara con il dono del “vino” (ma per fare questo egli chiede, comunque, la “nostra” acqua!), che diventerà il dono del suo “sangue” sulla croce, dove si compirà la sua «ora» che inizia a Cana. Credere in lui, come hanno fatto i discepoli alla vista di questo “segno”, implica l’essere disposti a seguire lo stesso cammino: il dono di ciò che si ha, sia esso un «bicchiere di acqua fresca» offerto a «uno di questi piccoli», o l’accoglienza a chiunque ne abbia bisogno (Mt 10,42).
L’annuncio del Regno di Dio (Mc 1,14)
È un grido di gioia, la fine di una lunga attesa: il Regno è a portata di mano, può essere visto e toccato. L’annuncio è rivolto in primo luogo ai “poveri” di ogni specie. Matteo lo fa proclamare nella regione “marginale” della Galilea (4,12-17), Marco lo circonda con molte “guarigioni” (1,21-2,12), Luca afferma che esso si materializza nella persona di Gesù, che viene «oggi a rendere la libertà ai prigionieri» (4,16-22). Si può pure aggiungere che «il regno di Dio è giustizia, gioia e pace nello Spirito Santo» (Rm 14,17). All’annuncio di un Regno che è sempre “vicino” segue l’invito a crederci e darsi da fare per realizzarlo: è questa la “conversione”. Non tutti se ne rallegrano, o sono d’accordo: Marco ci segnala una serie di reazioni ostili all’annuncio, fino alla decisione di far morire Gesù (2,1-3,4). Ma la «luce» è ora nel mondo: le tenebre, anche le “nostre” (Mt 6,23), possono non accoglierla (Gv 1,5), ma non potranno mai spegnerla (Gv 8,12).
La Trasfigurazione
Lo splendore che irradia dalle vesti e dal volto di Gesù sulla cima del Tabor fa di questo mistero l’apoteosi della luce, che impregna persino la «nube» che avvolge i tre personaggi di questa gloriosa epifania. Ma si sa che l’evento si situa tra due annunci della passione, che è una “pausa” su una strada che porterà Gesù sino al Calvario. E dunque, questo «sole» non dura che un istante: la nostra visione più normale è quella della «lampada che brilla in un luogo oscuro» (2Pt 1,19), giusto quanto basta a «camminare nella luce» (1Gv 1,7). Questa lampada è comunque ben visibile: è nella voce del cielo che ordina: «Ascoltate lui!». Essa è dunque la Parola che Gesù dice, che Gesù fa, che Gesù è! Parola che ora si può “vedere, udire, contemplare, toccare” (cf. 1Gv 1,1). E questo è ciò che comunque rimane, anche dopo che la “visione” si è dissolta.
La Cena
Questo mistero fa passare dalla luce del Tabor alle tenebre della Passione. Normalmente i pittori ce ne danno un’immagine calma e serena, ma se si leggono bene i testi si vede come il quadro si costruisce attorno a due poli opposti: Giuda, il traditore, e il “discepolo amato”. Da una parte, c’è l’incomprensione, la discussione sulle precedenze, la fuga dei discepoli; dall’altra, essi sono gli amici di Gesù, quelli che perseverano con lui, ai quali egli confida i suoi sentimenti più intimi. Ma soprattutto, al di sopra di tutto ciò, risuonano le parole di Gesù che annunciano il tradimento e l’abbandono, e nel contempo dichiarano la sua volontà di “consegnare” il suo corpo per loro e per la moltitudine. Le nostre eucaristie riprendono tutti questi motivi: non sono mai la “cena” ideale che sogniamo, ma una mistura piuttosto confusa. In effetti, ogni liturgia è, allo stesso tempo, una celebrazione e una provocazione: ti si mostra ciò che “sei” come discepolo, ti si dice: “diventalo”!
Misteri del dolore
Agonia al Getsemani
Nella notte un Gesù in preda a paura, tristezza, tedio, angoscia. Si comprende bene tutto questo quando capita di trovarsi in situazioni simili alla sua, quando queste parole non sono delle voci di un dizionario, ma dei sentimenti che feriscono la carne. La lista delle nostre paure è molto lunga, il vuoto del tedio può apparire a volte perfino un sollievo temporaneo, l’angoscia ci soffoca. Gesù ci dice di “vegliare”, ma cosa può significare questo quando gli occhi vedono solo buio? La sofferenza estrema ci fa ritornare alla fragilità dell’infanzia: si sente il bisogno della mano di un “papà”, Abbà, come Gesù chiama suo Padre (Mc 14,36), una mano che ci protegga, che ci rassicuri, che possa trasmetterci un po’ di tenerezza. Quale volto avrà l’angelo mandato a consolarci? Verrà? E quando? Che il buon Dio ci doni, quando lo preghiamo, di sentire la sua presenza accanto a noi e a tutti quelli che sperimentano una qualche forma di “agonia”.
Flagellazione
Questo supplizio, che mirava ad accelerare la morte del condannato, è appena menzionato nei vangeli (Mt 27,26), e però esso occupa tutto un “mistero”. La devozione medievale al crocifisso spiega questa enfasi. In effetti, la materia da contemplare comprende tutti gli oltraggi che Gesù ha ricevuto: i colpi delle sferze, gli sputi, gli schiaffi, la derisione, il disprezzo, l’abisso della desolazione.
Alonso Cano (XVII secolo) ha dipinto Gesù nel pretorio, un corpo seminudo e intatto; solo, su un fondo nero, dove la “flagellazione” del titolo è appena suggerita: si intravede qualcuno a lato che sta preparando le sferze, e l’orrore è affidato all’immaginazione. È la materializzazione dell’abbandono, cui dà voce il salmo: «Mi ignorano come un morto dimenticato, come un rifiuto che si butta» (Sal 30,13). Forse solo l’umiliazione aiuta a capire cosa è l’umiltà, la sola virtù di cui non ci si può vantare (M. Bellet). Ma a volte basta uno sguardo di tenerezza, e la solitudine si addolcisce.
Coronazione di spine
Cosa aggiunge questa scena a ciò che si è già visto nel mistero precedente? Ciò che colpisce è che la stessa immagine di una “corona”, che per sé è una “vetta” che celebra un trionfo o una gloria regale, qui viene rovesciata: è il vertice della sconfitta! Gesù raggiunge il fondo dell’ignominia, l’abisso della perdita totale di rispetto e di dignità. Le autorità ebraiche pretendono che egli faccia il “profeta”, i soldati romani che egli mostri il suo potere di “re”. Gesù tace, e la sua regalità avrà il massimo punto di visibilità su una croce! La sua impotenza fa scandalo: egli non è quello che dice di essere! Ma il paradosso resta la sua verità: è il suo silenzio che parla, è la sua debolezza che ci salva, almeno per il solo fatto di condividere la nostra. Ricordo un bel libro di una benedettina inglese dal titolo La porta della speranza, e che parla di Gesù come di “un Messia fallito”. La corona di spine diventerà una corona d’alloro, quella che si metteva su nude croci di pietra nell’antichità cristiana quando non si osava esporre il cadavere di un crocifisso.
La salita al Calvario
L’inizio della Via Crucis mostra, nei vangeli sinottici, un Gesù passivo: lo «condussero» (Mc 15,20; Mt 27,31), lo «conducevano via» (Lc 23,26) per crocifiggerlo. Soltanto Giovanni scrive che «portando la sua croce, si avviò» (Gv 19,17), il che però è già una lettura teologica dell’evento. Per noi “passione” significa soprattutto sofferenza, ma si dimentica talvolta che la sofferenza peggiore è forse quando si è “passivi”, privati di libertà e di autonomia, quando non si controlla più niente, si è “condotti” da qualcuno là dove noi non andremmo mai, quando si è obbligati a “subire” in uno stato di impotenza totale. Questo è la croce, e questo spiega anche perché le regole monastiche insistono tanto sull’obbedienza, che ci fa «imitatori di Cristo» (Isacco della Stella), che si è «annientato» e ha «obbedito sino alla morte» (cf. Fil 2,6-11). Quando si arriva a questo punto, ci si accorge molto presto che l’Imitazione di Cristo non è un aureo libretto da gustare nella calma tranquilla di un giardino, ma una ferita della carne, che occorre saper accogliere nella pazienza.
Morte di Gesù in croce
I vangeli ci danno tre quadri diversi di questa morte. Per Marco e Matteo è l’esperienza dell’abbandono e del vuoto: Gesù muore in una solitudine tragica in cui Dio stesso sembra scomparire. Per Luca il Crocifisso è l’icona della pietà: in tre frasi Gesù dice il perdono, l’accoglienza, la fiducia. Giovanni invece riveste questa morte di significati teologici, anche se lascia intravedere passaggi di dolore: la separazione dalla madre, la sete, e quel «tutto è compiuto» che potrebbe esprimere il sollievo che accompagna la fine di un dolore insopportabile. Abbiamo dunque tre modi di vivere la morte: la paura di entrare nel nulla, la sofferenza che diventa una scuola di compassione, e un senso di compimento che ancora non si vede ma in cui si crede. Come una morte che è nel contempo il dono di un «soffio di vita» che chiamiamo lo Spirito (Gv 19,30).
Misteri della gloria
La risurrezione
Cos’è la risurrezione? Un’idea, una dottrina, un’utopia? I vangeli ci dicono all’unanimità che si tratta di “incontri”. Da qui rinasce la speranza, che a sua volta genera la fede nella vittoria della vita sulla morte. Maria di Magdala è colei che esprime al meglio questo percorso. Non abbandona la tomba, aspetta di rivedere un volto, di tornare a sentire una voce ben nota. Ed è quello che capita. «Maria!» (Gv 20,16). Un nome, solo questo, ma è tutto! È riconosciuta, e riconosce. L’incontro con Colui che ti chiama con il tuo nome, perché ti conosce, e ti accoglie così come sei, nella tua bontà e nel tuo peccato, perché egli ti ama: ecco la risurrezione. Ogni domenica i cristiani sono chiamati a rifare questa esperienza di incontro con il Risorto: cosa ne è delle nostre eucaristie? E per il vero, ogni mattina il risveglio è una chiamata alla vita, anche nei giorni in cui non si ha voglia di alzarsi perché ci si ritrova «rivestiti di paura» (Sal 54,6). È il momento, allora, di pregare: «Al mattino fammi sentire il tuo amore, perché in te confido» (Sal 142,8).
Ascensione
Parrebbe piuttosto difficile esultare per una festa che celebra una partenza! Gesù se ne va, sparisce dalla nostra vista, e ai suoi discepoli si dice che è inutile continuare a guardare il cielo: egli «ritornerà» (At 1,11). Sì, ma quando? E come? E dove? Matteo si sbarazza presto del problema: conclude il suo vangelo con parole che rassicurano: «Io sono con voi tutti i giorni» (28,20). Al presente. Il punto è, dunque, comprendere che questa “separazione” assicura una “unione” più profonda, universale e perpetua. Che Gesù attraversi i cieli significa che egli è dovunque, misteriosamente. L’ascensione è il punto d’arrivo di una storia iniziata a Betlemme: là il cielo era entrato nella terra, ora è la terra che entra nel cielo (Pietro Crisologo). L’effetto è sconvolgente. Lo si può riassumere con san Paolo: «noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). L’ascensione dice che, in un modo per noi incomprensibile, questo “tutto” è salvato.
La discesa dello Spirito Santo
Se con l’Ascensione la terra, unita al Figlio dalla sua nascita, è salita con lui al cielo, a Pentecoste è il cielo che ridiscende sulla terra e si offre agli orizzonti del mondo. La Pasqua si completa nell’Ascensione, e questa manifesta la sua efficacia nello Spirito che viene a legare la terra al cielo in nozze durature. Questo ci permette di continuare quaggiù l’opera di Gesù, dal momento che noi riceviamo il suo “soffio” vivificante, il suo Spirito, che attira la terra verso il cielo. Lo Spirito ci raggiunge nello spazio domestico di un incontro familiare del Risorto con i suoi discepoli (Gv 20,19-23), ove si rivela nella pace che irradia su gente bloccata dalla paura. Gesù, vivo, vuole vivere nei suoi amici attraverso la missione che egli affida loro, e per garantire la continuità di questa azione offre il perdono e il «Paraclito», Colui che resta accanto a noi per difenderci, darci forza e consolarci. Dove trovarlo? Soprattutto nella Scrittura, luce che sostiene il nostro cammino.
Assunzione della Vergine
I grandi cistercensi, che amavano contemplare la bellezza della vita celeste, hanno consacrato numerosi sermoni a questo mistero che ci mostra il primo frutto concreto della discesa dello Spirito. Se nel Cristo colui che “risale” al cielo è qualcuno che di là proviene, in Maria, sua madre, che è terrestre come noi, è la “terra” che è afferrata da Dio e posta accanto al suo trono. E dunque i misteri della gloria riguardano tutti noi. È bene notare che quella tra Gesù e Maria è una riunione d’amore. Aelredo di Rievaulx ha detto che la ragione dell’Assunzione corporale di Maria è dovuta al fatto che il “corpo” della madre non poteva sopportare di essere separato dal corpo di suo figlio in attesa della risurrezione finale! È un dono della spiritualità cistercense quello di immergere la bellezza delle verità di fede nella tenerezza delle relazioni umane. È confortante indugiare su questa conclusione, perché Maria è la “madre”, oltre che del Capo, pure di tutti noi!
Maria regina e madre di misericordia
Il medioevo usava dipingere l’incoronazione della Vergine in un’atmosfera di fasto regale. È anche l’epoca che ci ha dato quelle celebri antifone mariane in cui Maria è salutata come «Regina dei cieli e signora degli angeli», ma soprattutto come «Regina, Madre di misericordia», come dice la più conosciuta e la più cantata. Il privilegio che porta Maria a regnare accanto a Dio si trasforma in dono che dilata sulla terra la sua potenza di intercessione, di soccorso, di protezione: una regalità materna, una maternità regale, «vita, dolcezza e speranza nostra». Si canta la Salve Regina nei monasteri alla fine della giornata, quando una sola lampada nella chiesa illumina una statua o un’icona della Vergine. È una preghiera che si estende dal “grido” (clamamus) al “sospiro” (suspiramus), voce che dal nostro “esilio” invoca la sua presenza, quando la luce diminuisce e il giorno si accorcia. Con la dolcezza di Maria nel cuore, entriamo tranquilli nella notte.