Ti ungo con l’olio del mio amore
perché tu possa gioire
nel profondo del tuo cuore.
Ti ungo col profumo del mio desiderio
perché incontri il tuo
e possiamo insieme
incontrare il Padre.
Ti ungo col nardo purissimo
raccolto sulle vette della mia speranza
donde scruto l’orizzonte
per gioire delle tue promesse
in attesa del tuo ritorno nella gioia.
Ti ungo messia della mia vita
insieme con-sacrati
perché la tua gioia sia in noi
e la nostra gioia sia piena.
Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi.
Mi sarebbe piaciuto che anche al versetto Mt 11,28 la nuova traduzione della CEI avesse applicato un’operazione simile a quella compiuta con il Gloria natalizio.
Là è stata introdotta una virgola nel canto degli angeli: «Pace in terra agli uomini, che egli ama». Virgola che nella versione precedente non c’era.
Sappiamo che la punteggiatura è opera eminentemente redazionale e del traduttore. In questo caso, il cambio di significato è vistoso: pace non solo agli uomini che Dio ama, ma agli uomini tutti, perché Dio li ama.
Analogamente, la meteora giovannea precipitata ai versetti 27 e 28 del capitolo 11 di Matteo, muta sensibilmente significato se la prima virgola del versetto 28 viene posizionata dopo “tutti” anziché dopo “me”.
Il Sacro Cuore
Il versetto suonerebbe così: «Venite a me voi tutti, che siete stanchi e oppressi». L’invito sarebbe rivolto non solo agli stanchi e agli oppressi, ma a tutti, visto che tutti siamo stanchi e oppressi.
Ad ogni buon conto, anche la punteggiatura sic jacet consente addirittura un fiotto di emozione al cospetto dell’invito di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi».
Non dice “voi tutti che siete giusti”.
Non dice “voi tutti che eccellete”.
Non dice “voi tutti che siete virtuosi”.
Se mai qualcuno è escluso sono i “sapienti e i dotti” del versetto 25.
Abbiamo titolo per essere prima invitati e poi accolti dal Figlio, e successivamente ammessi a conoscere il Padre, semplicemente perché “stanchi e oppressi”.
Chi può apprezzare l’accoglienza di un rifugio in alta montagna più di colui che vi arriva esausto al termine di una giornata di cammino, magari sotto il sole battente o attraversato un temporale imprevisto e martellante?
Chi può apprezzare le braccia aperte di un porto più di colui che vi approda con la sua fragile imbarcazione, contro la quale si è scatenata una tempesta più forte dei suoi alberi?
Ci può apprezzare l’ombra di un’oasi più del caminante che ha moltiplicato inutili passi lungo tracce incerte e tortuose di una traversata nel deserto?
Chi la semplicità dell’acqua più dell’assetato? Chi la modestia del pane più dell’affamato? Chi la gratuità di una mano tesa più dell’oppresso che ha conosciuto solo piedi sul proprio capo?
Stanchi e oppressi: quanto basta per vedersi recapitare in busta evangelica l’invito di Gesù: «Venite a me».
È l’accoglienza che Gesù dispiega a braccia aperte verso chi ha il solo titolo di essere vivo e segnato dalla “fatica di essere uomini”.
Non è l’accoglienza di un Pronto soccorso, benché sia soccorso.
Non è l’accoglienza di un campo profughi, benché siamo tutti nelle condizioni di profughi.
Non è l’accoglienza di una reception d’albergo, benché siamo tutti viandanti che abitano ostelli provvisori.
A noi, che siamo stanchi e oppressi, Gesù offre accoglienza … sotto il medesimo giogo.
Leggendo l’invito di Gesù in questa sola direzione, potremmo sospettare di trovarci davanti a un agguato, per di più orchestrato ai danni dell’affaticato e dell’oppresso: venite a me … per ricevere un giogo sulle spalle.
Invertendo la direzione di lettura, possiamo cogliere che Gesù invita prendere sulle nostre spalle quel giogo che è già sulle sue.
Lui ha già conosciuto le stanchezze e le oppressioni del vivere, che prostrano e disseccano la voglia di vivere.
Non chiede a me di portare il giogo al suo posto, ma di aiutare lui a portare il suo, accettando di farlo anche mio.
È l’invito a non voler portare il giogo da soli, rischiando di schiattare, né di chiedere ad altri di caricarselo al posto nostro (collocandoci nella scomoda posizione di debitori), ma accettare di aggiungersi sotto quello stesso che lui già porta.
È il giogo dell’obbedienza filiale, che impariamo da Gesù mite e umile «di cuore». È lui il primo a portare questo giogo. È lui a renderlo dolce e dal peso leggero perché lo porta con noi.
Gv 14,21: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Il giogo, non sempre dolce, dell’obbedienza ci manifesta il Figlio e, attraverso di lui, ci è dato di conoscere il Padre.
Mitezza e umiltà di cuore sono compendiati nell’amore: «Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
È l’amore che ci permette di conoscere il Figlio per quello che è: figlio di un padre.
È l’amore che ci consente di conoscere e accogliere noi stessi per quello che siamo: figli.
È l’amore che rende sacro il Cuore di Gesù. È l’amore che rende sacro il nostro cuore. Partecipi, come diveniamo, dell’amore che è in Dio, fonte della sua santità.
Credere nel cuore sacro che ci è dato di condividere col Sacro Cuore ci permette di rivalutare l’interiorità, nostra e di tutti.
Interiorità intesa non soltanto come contrapposta a esteriorità, ma proprio come fede-fiducia nella radicale bontà di ciascuno. Mia e degli altri uomini e donne che faticano la vita.
Se l’amore è il nostro tesoro, lì sarà anche il nostro cuore.
Per “acquistare” – se così si può dire – questo tesoro sarò disposto a “vendere” tutto il resto. E seguire Gesù, anzi, prendere con lui il suo stesso giogo – l’obbedienza all’amore – per camminare questa vita verso il Regno.
A che mi gioverebbe possedere il mondo intero se perdessi il mio cuore? A che mi gioverebbe possedere i regni di questo mondo se non trovassi il Regno di Dio, il Regno dell’amore?
L’umiltà del cuore, nella mitezza, è all’origine di ogni fraternità. Da quella delle nostre comunità fino alla fratellanza universale. Non si tratta di una virtù strumentale (per “andare d’accordo”), ma di un atteggiamento fontale.
Nella fraternità condividiamo nel profondo la nostra ricchezza, quella del cuore.
Cuore a cuore, come il discepolo amato da Gesù, ascoltiamo e obbediamo la sua parola.
Portando il giogo dell’obbedienza reciproca, portando gli uni i pesi degli altri, uniti nel Sacro Cuore di Gesù coltiviamo la vigna del Signore, facciamo fruttificare la sua parola, il suo comandamento perché e finché venga il Regno di Dio.
Il Cuore sacro
Un accesso privilegiato ai tesori di grazia del Cuore di Gesù ci si apre se liberiamo il nostro sguardo sul “sacro” dalle strettoie di una prospettiva “sacrale”.
La storia della teologia, della spiritualità e perfino della devozione hanno alimentato e cementato un’idea del “sacro” come prerogativa del totalmente altro, intangibile anzi incomunicabile.
Ogni tentativo di raggiungerlo è stato considerato profanazione. Ogni tentativo addirittura di possederlo è stato sospettato di magia. Troppe mortificazioni in nome del Santo, quando il Santo vuole per noi la vita.
«Quid est illud, quod interlucet mihi, et percutit cor meum sine laesione, et inhorresco, et inardesco? Inhorresco, in quantum dissimilis ei sum; inardesco, in quantum similis ei» [Cos’è che brilla attraverso di me e mi colpisce il cuore senza ferire, e io rabbrividisco e mi accendo? Tremo in quanto sono diverso da lui; sono in fiamme, per quanto gli sono simile] (s. Agostino).
Gesù, il Figlio di Dio fattosi Figlio dell’uomo abbatte il muro di separazione fra noi e il Santo e converte il Santo stesso.
Con la sua stessa incarnazione, ancora prima di ogni sua parola, Gesù trasforma la distanza in prossimità, la separazione in comunione, la diffida dal vedere o addirittura toccare Dio nel “Prendete e mangiate”.
La vita di Gesù è impastata di incontri. Gli stessi Vangeli sono sostanzialmente racconti di incontri, a partire dal primo approccio nell’annuncio a Maria, dove l’Altissimo copre il profondo dell’umano con la sua ombra. Maria, la nuova arca, accoglie in sé non le parole scritte su pietra, ma la Parola fatta carne della sua carne.
Colui che dimorava nel Santo dei Santi, inaccessibile se non a condizione di un rigoroso rituale spersonalizzante, ora dimora nel ventre di una donna, spazio accogliente offerto a colui che i cieli non possono contenere.
Gli incontri storici di Gesù adulto rivoluzionano la categoria del sacro e dell’inaccessibile.
In Gesù, non solo il Santo si fa raggiungibile, ma quando incontra gli uomini e le donne – non solo l’umano – li avvolge con la sua grazia.
Gesù manifesta la sua santità – e dunque la santità di Dio – non come spazio separato, invalicabile e inaccessibile, ma come spazio accogliente che attira a sé e conduce fin nell’intimo della Trinità.
La santità di Gesù si manifesta in questo spazio accogliente, entrando nel quale si diviene partecipi della sua santità, che altro non è se non l’amore.
E in questo spazio la santità che è già nella persona incontrata, per l’immagine di Dio che la segna nel profondo, incancellabile dalle colpe, emerge, fiorisce.
E quanto sboccia non è dato dall’esterno, dall’azione di Gesù, ma dal cuore della persona stessa. Gesù non aggiunge: e-duca.
«Va’, la tua fede ti ha salvato» è l’esito frequente degli incontri.
A questo mi piace pensare quando si parla del Cuore Sacro di Gesù: allo spazio intimo, centrale, profondo della persona di Gesù che ospita in sé colui o colei che incontra e fa fiorire in lui/lei quanto di più sacro ci sia nel suo cuore: la fiducia, la vita, l’amore.
La “cordialità” degli incontri con Gesù non è perciò soltanto affettiva, ma effettiva. Non è soltanto un buon sentimento – per quanto questo possa essere già tanto – ma una “buona azione” di Dio. Una cre-azione.
In questo senso, il miracolo che fiorisce in molti degli incontri con Gesù non è extra-ordinario, piuttosto intra-ordinario, come fosse nella natura delle cose o meglio delle persone, come è nella natura delle cose che dal ramo sbocci la gemma, poi il fiore, poi il frutto.
Di questo si sostanzia la nostra accoglienza. Non è regalare il seme, non è regalare il frutto, ma offrire uno spazio ospitale, un terreno buono, nel quale chi viene da noi accolto possa coltivare e far fiorire quel seme che già porta in sé.
La nostra accoglienza dà sostanza oggi al Cuore Sacro di Gesù e in questo senso è cordiale. È il cuore di noi stessi, il centro della nostra persona e della nostra esistenza che si offre come spazio accogliente che permette all’altro di fiorire.
Cordialità non è soltanto un tratto del bon-ton o della creanza. È piuttosto una dimensione fondamentale della creatura che, accolta nel Cuore Sacro di Dio stesso, si fa accogliente e benedicente verso Dio e verso i fratelli e sorelle.
L’accoglienza di Betania
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché essa lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me».
L’episodio narrato da Giovanni ci colloca in una prospettiva apparentemente capovolta. È Gesù ad essere ospitato.
Nel mosaico laterale della cappella di Casa incontri cristiani a Capiago – autore Rupnik – l’unzione di Betania è raffigurata come una consacrazione messianica operata da Maria.
Una con-sacrazione che si svolge non nel contesto rituale del tempio, ma nel contesto amicale e “profano” di una casa.
Maria cosparge i piedi di Gesù attingendo a 300 grammi di profumo di puro nardo, “assai prezioso”.
(Il nardo cresce nell’Himalaya e il profumo ricavato dalla sua essenza era considerato simbolo dell’amore divino).
Maria poi asciuga i piedi di Gesù con i suoi capelli e – dice il testo – «tutta la casa si riempì di quel profumo» (ἡ δὲ οἰκία ἐπληρώθη ἐκ τῆς ὀσμῆς τοῦ μύρου).
L’intreccio dei capelli di Maria con i piedi di Gesù libera il profumo del nardo. I gesti dell’accoglienza cordiale di Maria scatenano il profumo che, è lecito interpretare, è Gesù stesso. Mi piace cioè pensare che non è tanto il nardo a rilasciare profumo, ma il gesto del nardo donato per accogliere a liberare il profumo che è in Gesù.
L’accoglienza del Figlio di Dio nella casa degli uomini dispiega tutto il profumo del Figlio dell’Uomo. E tutti nella casa ne sono avvolti e impregnati.
Eccetto Giuda. Anche tralasciando il giudizio drastico di Giovanni – il discepolo che Gesù amava (?) – Giuda non è avvolto dalle vampe del profumo perché squalifica il gesto di Maria, non ne coglie il cuore.
Giuda si pone, nella migliore delle intenzioni, sul piano della carità delle mani, del fare (“si potevano dare i denari ai poveri”), non su quello dell’amore, del cuore.
Maria con il suo gesto libera in Gesù il bisogno di amore da ricevere. Gesù concede a Maria di esprimere il suo sentimento, le sue emozioni. Maria consente a Gesù di dar voce al suo bisogno di amore. «I poveri li avete sempre. Non sempre avete me». Con i prudenti Dio è prudente. È con i pazzi che si scatena.
Nella santità ospitale capovolta di Betania, dove è Gesù ad essere accolto, è Maria ad avviare Gesù verso il dono della sua vita, a far fiorire in lui la sua vocazione (“il giorno della sua sepoltura”).
Un incontro inatteso (come tanti incontri decisivi del Vangelo e della vita) genera un insegnamento. Per entrambi.
L’accoglienza è fatta così: non sempre si può programmare, sempre si può farne occasione di vita che cresce. Purché sia sostenuta da una disponibilità radicale ad apprendere più che insegnare, a liberare ciò che l’altro è più che dettargli ciò che deve essere.
Gesù impara da Maria il gesto della lavanda dei piedi, che farà suo in quel contesto eucaristico nel quale renderà sacro (consacrerà) il pane per farne il suo corpo donato.
E come il pane alimenta e sostiene chi lo consuma, qualunque sia la sua vita, così la vita divina in noi non produce un unico frutto, ma frutti diversi a seconda di chi lo mangia.
Il Cuore Sacro di Gesù è lo spazio eucaristico nel quale egli si fa pane per la vita, per ogni vita, perché ogni vita sia consacrata.
Il Cuore Sacro di Gesù, ora per sempre nella Trinità, fa della Trinità pura accoglienza. Concava come un grembo, e come un grembo non passiva ma feconda.
Avvolti dall’amore di Dio, accolti nel sint unum che è nella Trinità diveniamo noi cuore sacro, spazio sacro, spazio eucaristico perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza.
Carissimo Marcello,
Un breve commento, almeno per dirti grazie: grazie per aver presentato il Sacro Cuore di Gesù in modo tanto affabile che il profumo di nardo della Sua persona può essere gustato nella casa d’ogni cuore.
Grazie per le importanti precisazioni ortografiche e semantiche. Grazie per l’atmosfera che spira nel tuo articolo.