La sofferenza, tra le altre cose, ha un potere particolare, quello di far venir fuori quel che c’è nel cuore di chi soffre. C’è qualcosa dentro di noi che si rende chiaro solo quando siamo sotto la pressione di qualche dolore, come se in quei momenti perdessimo tutte quelle difese con cui spesso c’illudiamo di proteggere la cosiddetta stima-di-noi-stessi.
La sofferenza abbatte finzioni e illusioni, e ci dice la verità, in modo diretto e inequivocabile: a volte ci fa scoprire un’inconfessata debolezza, altre volte ci fa sperimentare una capacità di resistenza che non sospettavamo di avere. In ogni caso ci riconduce alla realtà.
Ma c’è una condizione nel dolore che sembra facilitare e render sempre più efficace questo svelamento della verità: è quando il dolore non è individuale, ma è in vario modo vissuto e sofferto insieme, condiviso.
Insieme tra noi
Come forse sta avvenendo in questi tempi. È un’esperienza che è sotto gli occhi di tutti: quando si soffre da soli, per una sfortuna personale o un evento inatteso, ci si arrabbia con se stessi e con la vita, quasi vergognandosi del proprio male, o tenendo nascosta – ad es. – una certa malattia, e s’avverte persino risentimento, con punte d’invidia, verso chi sta meglio di noi, come se quel male che s’è abbattuto su di noi fosse ingiusto (“perché proprio a me?”).
Quando, invece, c’è una sciagura generale, più o meno naturale, che colpisce una collettività, come oggi il coronavirus, allora ci si ritrova tutti sullo stesso piano, non c’è più divisione né competizione, anzi, siamo tutti resi più vulnerabili ma anche più pensosi e attenti, più veri e costretti a chiederci ciò che conta nella vita, tutti più consapevoli del mistero e di quanto sia stolto evitarlo, ognuno più cosciente del bisogno che ha dell’altro, ma pure della responsabilità verso di lui, probabilmente anche più buoni. Infatti quanti gesti ed esempi di bontà, sacrificio, generosità, dedizione agli altri in questo tempo di pandemia!
È molto saggio quanto rammenta De Lubac: «Ogni sofferenza è unica e ogni sofferenza è comune. Bisogna che la seconda verità mi sia ripetuta quando sono io a soffrire (e mi sembra d’esser solo e non capito), e la prima quando vedo gli altri soffrire (e mi verrebbe di lasciarli soli con la loro pena)».
Allora è vero che la sofferenza ci forma, ci rende più umani, fa venir fuori il meglio d’ognuno, specie se la sofferenza è vissuta insieme. Lì c’è già una certa consolazione, quella del sentirci fratelli.
Insieme con Dio
Ma soprattutto nella sofferenza si fa strada un’altra verità, stavolta rivelata, ma sempre per tutti, immensa come il cielo, luminosa quanto il mistero, misteriosa come tutte le verità: nessuno soffre da solo, perché da quando il Figlio di Dio ha sofferto la sua passione e morte, da allora ogni umano dolore è continuazione misteriosa di quella passione, e colui che soffre è più vicino al cuore del mistero di Dio, del Deus patiens, anche se non lo sa. In qualsiasi patire umano s’incontrano l’uomo che soffre e il Padre che soffre con lui, figlio suo come il Figlio.
Se ciò è vero, anche Dio piange in questa pandemia, quel Dio che non lascia cadere a terra le nostre lacrime, ma le raccoglie nel suo otre e le scrive sul suo libro (cf. Sal 56,9), e alla fine le asciugherà da ogni volto (Ap 7,17)! È il mistero della sua paternità!
E se ogni soffrire d’uomo in qualche modo è continuazione e condivisione della passione del Figlio di Dio, allora – altra strepitosa verità – nessuno soffre invano, perché il suo dolore è unito a quella passione che ha redento il mondo, è dolore che produce salvezza, dunque, anche se la persona lo ignora. Ma se lo sa, allora la sofferenza è non solo più sopportabile, ma porta in dono una consolazione grande. Qui, infatti, è Dio che condivide con l’uomo qualcosa d’immenso e divino: il dono d’esser mediatore di salvezza.
È verità di fede, per questo è rivolta a tutti. Che tutti, prima o poi nella vita, siamo chiamati a imparare, e che il mondo d’oggi, in realtà, ha bisogno di sentirsi ripetere. O che noi siamo chiamati a condividere. Con tutti.
“Abana lazifissamauet…”
È una scena raccontata da un missionario da poco rientrato in Italia, durante la messa domenicale, al Padre nostro. Quando l’assemblea ha terminato di pregarlo, al ritmo d’una cavalcata (ahimè, senz’alcuna emozione), lo straniero (nigeriano o siriano) s’avvicina al microfono e prega il “suo” Padre nostro: “Abana lazifissamauet…”, nel silenzio sorpreso e attonito dei presenti. Un altro figlio di Dio!
Che viene da chissà dove, ma certo da un mondo di sofferenza, chissà quanto grande. Dunque, ci è fratello. Dunque, possiamo pregare assieme, ognuno nella sua lingua, il Padre nostro.
Quella domenica molti in quell’assemblea han pregato per la prima volta la preghiera dei figli insegnata dal Figlio! Al ritmo della fratellanza, o della condivisione commossa della stessa paternità: la consolazione più consolante da vivere assieme. Specie nel dolore.