Per una spiritualità del fallimento

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dianich1

È notorio che oggi l’evangelizzazione, ma anche la normale cura pastorale, non stanno attraversando un’epoca di grandi successi. Nulla di paragonabile a quella che fu la meravigliosa espansione della fede all’epoca degli apostoli. Né a quella dell’alto Medioevo o dell’evangelizzazione delle Americhe, anche se i metodi di allora sono non solo improponibili oggi, ma anche difficilmente giustificabili. Né a quella grande stagione missionaria che è stato l’Ottocento, nonostante certe sue contaminazioni con le conquiste coloniali.

Bisogna, però, aggiungere che siamo così condizionati dalla millenaria tradizione di un’Europa tutta cristiana, che anche la consapevolezza che siamo dovunque territorio di missione, qui da noi, è scarsa.

Non così in Francia, dove, già negli anni Quaranta del secolo scorso, si lanciava il drammatico interrogativo “France terre de mission?” e, nella Pasqua di quest’anno, si sono celebrati più di settemila battesimi di adulti. Un’inezia, certo, ma un segnale significativo.

Resta il fatto che, da noi, il lavoro pastorale è sempre più faticoso e spesso sottoposto a non poche frustrazioni. Viviamo un processo di cambiamenti che in altri paesi è più avanzato, mentre noi operiamo in un guado, in cui stiamo avanzando lentamente, con il dovere di non abbandonare, fino a che non si estinguano, vecchie pratiche sacramentali e con la difficoltà di inventare vie nuove di approccio alle persone, adeguate ad una situazione nella quale ciò che è in crisi non è, in realtà, la pratica religiosa, ma la fede.

Ne deriva, più che comprensibilmente, un senso pesante di frustrazione e, non di rado, la tentazione di incrociare le braccia e, poi, di farlo effettivamente.

Non è questa – sia detto con chiarezza – un’esperienza di per sé estranea alla vita del credente. Tutt’altro. Gesù non ha esitato a domandarsi: «Il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra» (Lc 18,8).

Ciò che ci si impone in questa nostra epoca, è invece un ritorno coraggioso alla più austera radicalità della fede e ad una rinnovata imitazione di Cristo senza sconti.

La missione di Gesù, di lui per primo, si è conclusa con un clamoroso fallimento: condannato a morte come un delinquente, condanna eseguita con la pena degli schiavi, la crocifissione.

La risurrezione non ci permette di dimenticarne gli antefatti: il Cristo risorto ostenta le sue piaghe, perché i testimoni non abbiano a dimenticarsene. Nella tradizione iconografica del giudizio, il Cristo giudice chiama i salvati e caccia i dannati con le mani vistosamente segnate dalle ferite. Né la fede nella gloria del Risorto ha mai indotto i credenti a non meditare continuamente la passione di Gesù.

L’esperienza del fallimento lo accompagna lungo tutta la sua missione. All’inizio, al suo paesello, a Nazaret, lo vogliono buttare giù dal dirupo perché aveva osato ricordare, preannunciando la dimensione universale della sua missione, che già il profeta Eliseo aveva guarito un ufficiale dell’esercito dell’odiata potenza della Siria.

Andando dalla Galilea a Gerusalemme, in un villaggio di samaritani, gli sbattono la porta in faccia.

Alla fine del bellissimo, sublime discorso sul pane della vita, la gente se ne va, stordita e delusa, ed egli domanda, scorato, ai suoi amici più fedeli: «Volete andarvene anche voi?».

Mentre egli sta preannunciando la sua condanna e la sua morte, i figli di Zebedeo con la loro madre litigano sulla loro futura carriera nel Regno di cui Gesù continuamente parlava.

Guarisce i malati ma, a quanto pare, a leggere la storia dei dieci lebbrosi, spesso non riceve neanche un “grazie”!

Nicodemo lo gratifica di un bellissimo colloqui notturno, ma poi, a quanto pare, non si fa più vivo personalmente con lui, anche se – questo gli va riconosciuto – lo difende in sinedrio e, dopo la morte, si dà da fare per una sua onorata sepoltura.

Avrà la gioia di vedere anche i bambini fargli festa e gridargli il loro Alleluja! sventolando i rami strappati dagli alberi e la gente accompagnarlo in un chiassoso allegro corteo mentre entrava nella città santa. Ma è stato un momento. Poco dopo si ritrova solo, abbandonato anche dai suoi fedelissimi.

Gli hanno riferito che il suo fan più entusiasta, il buon Simone, che egli reputava una roccia, al punto da avergli dato il nome di Pietro, si era vergognosamente camuffato da uno che non sapeva neppure chi lui fosse.

Se non ci fossero state le donne e sua madre, con l’eccezione di Giovanni, sarebbe morto in croce in una vergognosa solitudine.

In croce, la consapevolezza di questo ulteriore aspetto drammatico della sua vita raggiunge l’acme in quel grido, la parola più oscuramente misteriosa di quante ne ha pronunciato in tutta la sua vita: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Risurrezione e gloria, tutto verrà dopo.

Ce n’è abbastanza, quindi, perché, invece di lamentarci, abbiamo a meditare continuamente nel cuore le sue parole: «Non c’è discepolo più grande del suo maestro» e, in una situazione dolorosa, ritrovare la gioia della fede. Ne è insuperabile maestro san Paolo: «Mi compiaccio nelle mie debolezze… infatti, quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).

E, se non bastasse, va ricordato ancora che l’apostolo è capace di rallegrarsi anche nella più paradossale delle situazioni: «Alcuni predicano Cristo… con spirito di rivalità, con intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene. Ma questo che importa? Purché, in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene» (Fil 1,15-18).

  • Questo articolo è apparso su Vita Pastorale n. 7/2024.
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