Nella sesta Massima di perfezione cristiana – Disporre tutte le occupazioni della propria vita con spirito di intelligenza – il beato Rosmini chiede di meditare sulla fede cristiana come un “camminare nella luce”. Licht mehr Licht (= luce più luce) furono le parole del grande Goethe prima di morire: è probabile desiderasse far entrare dalle finestre “più luce” nella stanza buia; il suo ultimo grido, tuttavia, venne interpretato dai suoi amici quale vero motto dell’illuminismo.
Qui è la luce della ragione a essere invocata. È la libertà di uscire da ogni tutela (soprattutto da quella della religione cattolica) per essere maturi, autonomi. Sapere aude, “osa esser saggio”, abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza, scrisse I. Kant per proporre agli esseri umani di riscattarsi dalla condizione di minorità in cui vivevano.
Qui, dunque, c’è luce e luce! La luce del Rosmini ha a che fare certamente con l’intelligenza ma, di più, con “lo spirito di intelligenza”.
È tipico dell’intelligenza stabilire “nessi significativi” tra le cose, tra gli avvenimenti, “leggere dentro” (intus-legere), approfondire, scendere nel profondo.
L’animo dell’intelligenza
Tuttavia l’intelligenza ha pure le sue profondità, il suo spirito. Così, l’intelligenza scopre che il suo esercizio non può restare nella griglia accecante dei concetti astratti, delle idee della mente, dei discorsi razionali, perché vive di relazioni intense (“quantistiche”, diremmo oggi, per indicare i livelli subatomici dell’anima), con i sentimenti, le emozioni, le ansie e le paure, le speranze e i fallimenti dell’esistenza umana. Insomma, non è soltanto cosa di testa, o di cervello.
Non è nemmeno semplicemente cosa di “istruzione intellettuale”. C’è molto di più nell’intelligenza: c’è il suo spirito senza il quale l’intelligenza è arida, asettica, fredda, persino omicida. Si ricordi con “quanta intelligenza” (scientifica) venne organizzata la selezione etnica del popolo ebraico nell’era nazista.
Perciò in questa sesta Massima, il Rosmini – mentre propone di invocare dallo Spirito Santo il dono dell’intelletto per “penetrare e capire” le verità della fede; il dono della sapienza e della scienza per “giudicare” sulle cose divine e umane; il dono del consiglio per agire quotidianamente in conformità con le verità conosciute –, stabilisce per il cristiano: «Lo spirito di intelligenza lo ritrarrà mai sempre a pensare assai prima all’emendazione di sé che a quella del prossimo». Insomma, un’intelligenza senza spirito resta al buio, perché la luce dell’intelligenza non gli appartiene, avendo un’altra fonte luminosa, l’amore.
Lo Spirito Santo è l’amore in persona, la persona dell’amore. L’intelligenza spirituale è la vera intelligenza perché sa vedere la realtà così com’è, oltre ogni distorsione dettata dal proprio egoismo, da interessi di parte, da meschinità fatte passare per opere sante che occorre smascherare.
Lo spirito di intelligenza, infatti, comincia a esercitarsi come autocritica: scorgendo la trave che sta nel proprio occhio, invece di concentrarsi sulla pagliuzza dell’occhio dell’altro, come ha suggerito Gesù.
Dispone poi tutte le occupazioni della propria vita secondo la legge della carità, «con tutto insomma quel fervido amore, che non cerca e non pensa alle cose proprie, ma pensa sempre alle cose altrui».
Consente, pertanto, di avviare il santo viaggio della conversione (= metànoia): è un giro di boa a trecentosessanta gradi, per trasformare il cuore, i sentimenti, rendendoli empatici, cioè capaci di immedesimazione, così facilitando gli occhi dell’intelligenza a penetrare e capire davvero la realtà, la vita, aprendo alla visione luminosa di un’esistenza santa, perché fondata nell’amore per tutti.
Lo spirito di intelligenza è spirito inclusivo, è l’intelligenza della persona, colta come “relazione amativa” e, pertanto, non più soggetto autocentrato, individuo autonomo, ma trama di relazioni tra tanti “io” vissuti come “noi”, che diventano di necessità “fratelli tutti”.
Se la perfezione è un anelito del cuore a partire dalla nostra finitezza, essa ci apre a un cammino verso la pienezza che ci porta fuori di noi: anzitutto per ricevere, prima che per dare.
I maestri di cui abbiamo bisogno
E qui si sciolgono inutili dilemmi e banali slogan e soprattutto si supera l’ottusa autoreferenzialità. Abbiamo bisogno di maestri, certo che siano anche testimoni, e però maestro vuol dire per tutti, compreso il maestro, lavorare su mete più alte, mettere le ali! E poi abbiamo bisogno che ognuno tutto componga nel proprio cuore.
Cerca il maestro, infatti, chi non vive in modo autoreferenziale e “accartocciato” (espressione usata da alcuni bambini quando è stato chiesto loro chi sono gli uomini cattivi).
Cerca il maestro e coglie gli orizzonti più alti che ogni vero maestro indica senza arroganza e poi li riporta a sé, alla propria vita concreta e al proprio cuore, chi guarda al maestro come il dito che indica il sole.
E per non perdere tracce, accanto al maestro, ci vuole una penna: «Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo» (Malala). Forse meglio una matita (santa Madre Teresa di Calcutta).
E poi certo il maestro trasmette un “di più” che parla al cuore, se è anzitutto testimone. Anche in questo caso, alla fine, sei tu che devi deciderti! Il testimone passa la consegna e poi ognuno “ricomincia”! Non è possibile non proporre il massimo, non è giusto privare della meta più alta le nuove generazioni. Ogni generazione dovrà ritrovare sempre il proprio punto di partenza.
Nella sesta Massima, Rosmini offre un ventaglio di indicazioni sapienti per “lavorare a noi stessi”, direbbe Etty Hillesum: «Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno, riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò “Dio”, e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, “lavorando” a noi stessi, allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze».
Ecco, infine, lo spirito di intelligenza rende capaci di tutto raccogliere in un disegno di insieme, di avere una meta che sempre spinge in avanti l’arco della vita e di ritrovare quel punto di partenza che rende liberi, intenzionali, “personali” i nostri atti: «Per chi non ha indirizzato in linea di massima la sua vita a un fine determinato, è impossibile regolare le singole azioni. È impossibile mettere in ordine i pezzi per chi non ha in testa un’idea del tutto. A che serve far provvista di colori a chi non sa che cosa dipingere? Nessuno fa un disegno preciso della sua vita, noi decidiamo pezzo per pezzo. L’arciere deve prima sapere dove mira, e poi adattarvi la mano, l’arco, la corda, la freccia e i movimenti. I nostri propositi si fuorviano, perché non hanno né indirizzo né scopo. Nessun vento è buono per chi non ha un porto stabilito» (Michel de Montaigne).
- Antonio Staglianò è vescovo di Noto.