In questi giorni siamo tutti chiamati a confrontarci e, in certo modo, a riconciliarci profondamente con la nostra umanità. Perlopiù, almeno nella nostra sensibilità e cultura occidentale, quando facciamo ricorso a questa parola “umanità”, siamo soliti farlo in modo assai solenne e talvolta presuntuoso. Evochiamo questa preziosa parola, in cui ci riconosciamo, per distinguerci dalle altre creature viventi, nel senso di una eccellenza che diamo per scontata e per acquisita. In realtà, questa parola rimanda radicalmente a quell’humus da cui siamo stati tratti e verso cui siamo chiamati a ritornare con serenità, dopo aver percorso il nostro cammino di umanità.
La caratteristica più propria della nostra dignità umana è la consapevolezza della nostra realtà che dovrebbe generare sempre l’humilitas. L’umiltà è propria delle persone umane degne di questo nome. Nella nostra cultura occidentale siamo più inclini a pensare alla nostra umanità a partire dal mito di Prometeo che non dal mistero di Cristo Signore.
Accettare le proprie pause
L’esperienza così difficile di dover far fronte ad una pandemia come quella del Coronavirus si sta rivelando uno choc quasi assordante: non pensavamo di essere anche noi vulnerabili e così tremendamente fragili. Ci eravamo convinti di essere una porzione dell’umanità che, a costo di sacrifici e di intraprendenza mirabili, si era guadagnata il privilegio di una sostanziale e durevole immunità dalla paura e dal senso così umano di insicurezza. Eravamo così fieri e pieni di noi stessi da arrivare a pensare persino che gli altri – i popoli più poveri e svantaggiati – in realtà raccoglievano il frutto della loro pusillanimità tanto da sentirci in dovere di negare loro il diritto a sedere al banchetto della nostra felicità.
La pandemia ha cambiato tutto in un attimo. In realtà abbiamo cercato di rimandare questo click il più possibile, ma oramai, pur con una inziale resistenza, ci stiamo adeguando più o meno serenamente o con malcelato panico.
Chi segue la vita e l’attività di papa Francesco è abituato a un ritmo sostenuto di impegni, di discorsi e di gesti. In questi ultimi giorni anche papa Francesco ha rallentato il suo ritmo a motivo del suo personale raffreddore, prima, e, in seguito, per conformarsi alle misure preventive adottate per arginare la pandemia del Coronavirus. In realtà anche il non-detto, il non-fatto, il non-confermato è un messaggio.
Una parola mi torna in mente annotata da Etty Hillesum nel suo Diario: “BISOGNA ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE”. Proprio come le cose più importanti della creazione quale può essere una gestazione, una scoperta o un’invenzione, hanno bisogno di tempo… così gli umani cammini hanno bisogno di tutto il loro tempo, ma anche di pause, di sospensioni e di rimandi.
Il rallentamento del nostro ritmo consueto può essere un’occasione per guadagnare in profondità e per amplificare la nostra modalità di vivere le realtà cosi ampie e variegate della nostra vita.
La sfida di passare dal galoppo delle emozioni e delle sensazioni alla pacata degustazione di ogni frammento di vita, anche quando è limitato dalla costrizione della situazione, diventa un compito per crescere in umanità. Il senso chiaro di fragilità può diventare l’occasione per cogliere l’essenziale e tenersi pronti a tutto, anche a ciò che ci sconvolge.
La “lentezza” e il “torpore”, che sembrano quasi indispettire e allarmare questa donna appassionata e vivace fino ad essere frizzante, diventarono gradualmente per Etty degli alleati irrinunciabili.
Etty Hillesum, la cui preghiera è stata citato il cardinal De Donatis al Santuario del Divino Amore, imparò a riconoscere, in un contesto di tremenda “vulnerabilizzazione” come fu la Shoah, la loro imperdibile utilità per il lavoro interiore. Proprio questo lavoro, cui era in gran parte impreparata, la rese capace di tenere la sua posizione nella storia e di fronte al mondo fino alla fine e ben oltre la conclusione della sua vita.
Il compimento vissuto da Etty Hillesum e quella pace trovata, senza perdere nulla delle sue inquietudini e della sua ribellione davanti alla sofferenza e al male, diventano una sorta di esempio e di incoraggiamento per quello che stiamo vivendo. Dobbiamo infatti riconoscere che siamo diventati una generazione non certo “malvagia” (Lc 11,29), ma sicuramente troppo frettolosa. Talmente pressati e continuamente stimolati, non abbiamo talora tempo e modo per guardarci dentro e lasciarci veramente guardare dalla vita.
Questa distrazione radicale non ci dà più la voglia di curiosare nel grande mistero di cui siamo parte senza esserne il centro.
Ciò che sta ora accadendo non può certo lasciare insensibili. Dobbiamo scegliere di guadagnare in profondità. È questo l’unico modo per raggiungere le periferie talora così poco frequentate della nostra personalità, perché tutto sia più luminoso e sereno. Abbiamo l’occasione di ritrovare quell’armonia di cui portiamo nel cuore non solo l’insopprimibile nostalgia, ma pure l’alfabeto necessario per narrarla e trasmetterla soprattutto nei momenti più difficili e gravi.
Un segno dei tempi
Ciò che stiamo vivendo, e che siamo in certo modo obbligati a vivere, si sta rivelando un duplice segno. Siamo stati introdotti dall’incremento di intelligenza del Vangelo, vissuto con il concilio Vaticano II, a lasciarci interrogare dai “segni dei tempi”. Tutto quello che accade, in particolare quando tocca in modo così forte le nostre relazioni tra persone, è un “segno” da cogliere e da interpretare.
Nella mia personale sensibilità ho colto e accolto con gratitudine mista a stupore la reazione della Conferenza episcopale del nostro Paese alle norme imposte dal Governo. Il fatto di adeguarsi in modo sereno e semplice per contenere il contagio è un vero salto di qualità nella relazione tra la Chiesa e la società moderna, sempre più post-moderna e, sicuramente, post-cristiana.
Alcuni hanno letto e persino criticato, fino a disapprovare le indicazioni date dai vescovi del nostro Paese come una resa allo Stato da parte della Chiesa e addirittura come una resa della fede davanti alla scienza. Qualcuno ha persino gridato allo scandalo per avere ceduto al materialismo piuttosto che ribadire e rafforzare le esigenze e i rimedi spirituali. Per alcuni sospendere le celebrazioni dei sacramenti è un atto di resa incondizionata alla mentalità del mondo, invece di resistere con eroismo fino al martirio per testimoniare i valori della fede e la fiducia nella Divina Provvidenza.
Personalmente ritengo che dai tempi del Manzoni il mondo è veramente cambiato! Dagli appelli del Borromeo a intensificare i pii esercizi nelle chiese e per le strade, per fare penitenza e impetrare la fine del flagello (divino, secondo qualcuno!) ne è passata di acqua sotto i ponti! Siamo passati all’invito insistente, ma delicato, a vivere nella fiducia serena di poter pregare ed esser esauditi – lo speriamo! – comodamente seduti sul divano di casa.
La pandemia ha permesso di rivelare quel lungo cammino compiuto in questi ultimi decenni: una vera riconciliazione della Chiesa con la società post-cristiana e un’alleanza tra fede e scienza che avrebbero fatto esultare personaggi come Galilei, Copernico, Giordano Bruno…!
L’uscita dal “regime di cristianità”, decretato, per così dire, da papa Francesco nel suo ultimo discorso alla Curia romana (21 dicembre 2019), è una realtà che ci permette come cristiani di adeguarci alle leggi dello Stato in cui viviamo, cercando i modi adeguati e non conflittuali per essere dei compagni di cammino per tutti. Questo sereno allineamento non significa certo far mancare alla nostra umanità il suo colore e calore evangelico. Anzi, forse il contrario.
In una situazione difficile la Chiesa, attraverso i suoi pastori, invece di “dettare” le regole del gioco, ha accettato di seguire le regole imposte per poter giocare, fino in fondo e con tutti, la scommessa di superare insieme la pandemia. Così la quaresima, vissuta sempre più da una minoranza quasi invisibile, si è trasformata in una quarantena condivisa. L’austero simbolo delle ceneri, con cui il cammino penitenziale della quaresima è cominciato per alcuni, mentre altri ne sono stati privati, è diventata una esperienza esistenziale condivisa. Senza programmarlo stiamo vivendo, non solo come cristiani, una quaresima diversa – soprattutto per l’impoverimento liturgico e sacramentale – che, in realtà, può e dovrebbe diventare un tempo di condivisione in umanità.
In una parola, la quaresima si è trasformata in quarantena e speriamo che la quarantena ci aiuta a vivere meglio la quaresima nella compassione evangelica. Proprio la compassione deve risplendere con una luce tutta particolare come quella delle stelle in una notte di luna piena. Il fatto di invitare i fedeli a pregare in casa e ad unirsi, attraverso i mezzi di comunicazione, alle celebrazioni trasmesse via etere è un riconoscimento della possibilità di vivere anche in modo diverso la propria vita di preghiera in un quadro più personale e intimo… più interiore e “segreto” (Mt 6,6,).
La costrizione della necessità se, da una parte, impone una privazione, dall’altra, permette un ampliamento e un approfondimento della coscienza battesimale che conferisce ad ogni rinato in Cristo il carattere “sacerdotale” oltre che “regale” e “profetico”.
La situazione particolare permette ai credenti di sperimentare una libertà profetica nel vivere il proprio sacerdozio battesimale. Rispondendo anche alla propria sensibilità, si può custodire il proprio legame con il Signore e con la comunità unendosi spiritualmente alle celebrazioni assicurate a porte chiuse dai ministri ordinati, oppure dedicandosi alla preghiera personale e alla meditazione della Parola di Dio in solitudine o nel proprio nucleo di vita, come è abitualmente la famiglia o una comunità.
La dimensione domestica della prima generazione cristiana, che si affianca a quella cultuale della frequentazione del Tempio o della sinagoga (At 2,46), ritorna a vivere ampliando e non necessariamente impoverendo il rapporto con Dio. Con la mia comunità ci siamo interrogati su come vivere questo tempo di “distanza” dal resto della comunità ecclesiale circa la celebrazione dell’eucaristia.
Tenendo conto della riflessione di un monaco e teologo – ormai nonagenario – si deve ricordare che: «Il sacramento dell’eucaristia non sembra al primo posto nell’economia della fede. Ciò di cui si tratta per l’umanità è rendere a Dio un sacrificio spirituale che consiste interamente nella pratica della carità: verso Dio, verso se stesso, verso il prossimo. Sacrificio nella misura in cui questo si realizza nel movimento di donare, di chiedere, di ricevere, che è il ritmo stesso dell’amore e implica una felice rinuncia».
Eucaristia
In un momento in cui la comunità che celebra l’eucaristia non può essere presieduta per motivi serenamente accolti, ci sono due possibilità.
La prima è quella di “celebrare per”, seguendo uno schema in cui, nel ministero presbiterale, si accentua la dimensione sacerdotale, in una prospettiva a partire dalla quale «la Chiesa è uno strumento e uno spazio di salvezza piuttosto che una comunità».
La seconda potrebbe essere la “felice rinuncia” al prezioso dono di celebrare l’eucaristia, digiunando in attesa di poter di nuovo banchettare insieme e quindi poter nuovamente, a suo tempo, “celebrare con”.
Anche temendo che le restrizioni potranno estendersi alla Settimana Santa, avrei preferito con la mia comunità monastica continuare a celebrare insieme – almeno finché il Coronavirus non ci separi – la Liturgia delle ore senza celebrare l’eucaristia. Tenuto conto che non si può condividere l’Eucaristia con gli altri battezzati a noi vicini, ma la si può celebrare solo “tra noi” a porte chiuse.
Il dilemma non è facile da risolvere. Se, da una parte, la fedeltà alla comunione di Chiesa farebbe protendere per un digiuno condiviso con tutti gli altri battezzati, dall’altra, lo stesso senso di comunione ecclesiale obbliga a seguire le indicazioni date dai pastori che hanno ricordato come: «I vescovi e i sacerdoti ricevono con l’ordinazione la grazia e la missione dell’intercessione per il proprio popolo. Sono quindi invitati a celebrare personalmente, a mettere a disposizione strumenti e momenti con i nuovi mezzi della comunicazione per pregare e meditare».
In ogni modo, quello che viviamo in questo momento di grave pericolo è qualcosa che tocca, segna e interpella la nostra percezione di come essere discepoli del Vangelo nel mondo in cui viviamo e nelle situazioni, anche impreviste, in cui ci troviamo a vivere e a soffrire.
Penso che, soprattutto se l’emergenza prenderà il tempo di cui ha bisogno per essere superata, questa esperienza segnerà la vita dei credenti e non necessariamente, come alcuni temono, in peggio.
Lo stesso rapporto con l’eucaristia potrebbe ridefinirsi ed essere ricompreso nella linea di una sacramentalità più esistenziale e non semplicemente rituale. Non ci resta che vivere e soffrire sia la privazione dei molti, che il ministero dei pochi i quali devono ancora più vigilare sul rischio di trasformarlo in un privilegio.
Non va dimenticato che «In un certo senso, la comunità precede il sacerdote: essa esisteva prima di lui e continuerà ad esistere in seguito grazie alla condizione battesimale dei suoi membri e alla diversità dei carismi che hanno ricevuto». La situazione che stiamo vivendo può essere vissuta come un rafforzamento della postura clericale in base alla quale il presbitero «sa di essere di un’altra essenza rispetto ai fedeli», oppure l’occasione per un sussulto di coscienza in tutti i fedeli della loro dignità battesimale. Questa mi sembra essere la sfida all’interno della comunità credente, chiamata a vivere un passaggio non indifferente in questa quaresima-quarantena. Ma quello che viviamo tra noi non è certo la sola cosa rilevante, perché, come discepoli, siamo costituiti tutti come testimoni.
Un messaggio da trasmettere
La comunità dei discepoli, se si adegua serenamente a quanto viene prescritto e imposto dalla società in spirito di libertà collaborativa, allo stesso tempo non rinuncia a vivere meglio il messaggio del Vangelo e a testimoniarlo al mondo.
La pandemia mette in crisi quel modo di supponenza che si traduce in dimenticanza della nostra fragilità fino a nascondere la morte. Come discepoli del Signore Gesù crediamo nella risurrezione e, in forza di questa nostra fede, attendiamo la vita eterna senza confonderla mai con la pretesa e l’illusione di essere immortali. Come creature siamo mortali e la morte, unitamente alle tante morti che dobbiamo attraversare nella vita, è parte integrante della nostra umana avventura.
In questo momento in cui tanti, per così dire, si rendono conto quasi improvvisamente di essere mortali, come discepoli abbiamo un messaggio da testimoniare e da trasmettere con la discrezione propria del nostro “munus” profetico, in forza del nostro battesimo. In una situazione che ci rende consapevoli di essere tutti potenzialmente malati, l’annuncio della speranza cristiana si fa ancora più urgente e forse persino più udibile dai nostri fratelli e sorelle in umanità.
Una distinzione è fondamentale: «L’ottimismo forzato è una delle malattie del nostro secolo: l’obbligo di mostrarsi sempre positivi, chiudendo gli occhi di fronte a tutto ciò che minaccia i fragili fili su cui si trova appesa la nostra felicità a buon mercato. Quanta psicologia da quattro soldi spinge in questa direzione! Mentre la vita cristiana è orientata verso quello che Emmanuel Mounier chiamava “l’ottimismo tragico”: un ottimismo radicale nell’esito ultimo del nostro pellegrinaggio, accompagnato però da una seria presa di coscienza delle nubi e degli ostacoli sul cammino. La fede cristiana prende sul serio la sofferenza e la morte».
In questo momento di fragilizzazione e talora di panico, come credenti siamo chiamati a rendere testimonianza discreta e appassionata della “speranza” (1Pt 3,15) che ci abita e ci anima. Con questa consapevolezza diventeremo capaci di quell’ottimismo tragico che è l’unico a poter essere autenticamente alla portata della nostra umanità.
Annunciare il Vangelo della vita comporta la capacità di evangelizzare la sofferenza e persino la morte. La morte è chiamata liturgicamente “dormizione”, come appunto viene rammentato dai “cimiteri” che sono il luogo dove i morti dormono in attesa della risurrezione.
Il termine “eternità” in ebraico viene dal verbo alam che significa nascondere. Dio ha come avvolto nell’oscurità il destino d’oltre tomba e non bisogna in nulla violare il segreto divino. In ogni modo il pensiero dei Padri afferma chiaramente che il tempo «intermedio” non è vuoto e – come spiega sant’Ireneo – le anime “maturano». Per questo, e grazie a Dio e al suo mirabile disegno:
«Lo voglia o no, l’uomo che invecchia si prepara alla morte. Penso perciò che la natura stessa provveda ad una preparazione in vista della fine. […] Giacché il non prendere posizione di fronte alla morte come scopo è nevrotico quanto il reprimere, durante la giovinezza, le fantasie rivolte all’avvenire».
Possiamo ben dire che Cristo è maestro della morte e nostra guida attraverso tutte le morti fino al passaggio finale. Questa è la sfida più grande in quanto «morire la propria morte è altrettanto raro quanto vivere la propria vita». Ma si deve anche considerare che la serenità della nostra morte è il frutto della “dura” morte del Signore Gesù il quale, se preparò la sua morte durante un convivio come Socrate, la consumò, invece, nello spasmo della croce.
Il modo di preparare e vivere la morte da parte del Signore Gesù non è stato stoicamente distaccato e cinicamente indifferente. Al contrario, è stato radicalmente patito «con forti grida e lacrime» (Eb 5,7). Il Signore Gesù non ha vissuto la sua morte come una liberazione dalla vita, ma come un dono della vita per affermare che l’amore è più forte della morte.
Socrate chiese al discepolo Critone di offrire – a cose fatte – il sacrificio prescritto ad Eusculapio per la guarigione ricevuta «o con la medicina da un male, oppure con la morte dalla malattia della vita». Del Budda la tradizione ci tramanda due racconti contrastanti della sua morte: una ideale e una drammatica. Al contrario, i Vangeli ci testimoniano che, nel mistero della Pasqua, il Signore Gesù si è fatto solidale con la nostra angoscia attraverso la sua compassione.
In questo momento così difficile, com’è la pandemia del Coronavirus, la nostra testimonianza discepolare non può che essere conforme a quella di Cristo e non può che seguire lo schema e la logica della Pasqua che forse quest’anno non potremo celebrare come d’abitudine.
Condividiamo la fatica e l’angoscia davanti ad una pandemia, che ha messo in crisi non solo le nostre illusioni di privilegi acquisiti per sempre, ma anche il nostro modo di vivere la fede e i sacramenti. In questo doloroso frangente non possiamo e non dobbiamo che aggrapparci alla nostra fede pasquale in Cristo Signore, morto e risorto per noi. Il Vangelo ci mostra che il cuore del cuore della rivelazione in Gesù del volto misericordioso del Padre di tutti e creatore di ogni cosa è la compassione.
Con grazia
Quello che stiamo vivendo in questi giorni è un’occasione per fare il punto sulla nostra maturazione in umanità. Essere umani, senza accontentarsi di far parte della categoria degli esseri umani che abitano questo lembo di cosmo con e tra le altre creature. Ciò che siamo costretti a vivere in questi giorni ci ricorda il dovere di accettare il nostro limite fino ad onorare quelli che sono i nostri limiti e portarli insieme. Ancora una volta possiamo fare nostro l’invito che rivolgeva a se stessa Etty Hillesum: «Ma sopportiamolo con grazia».
La pandemia che stiamo attraversando non è un flagello divino, è un segno da leggere con umiltà e da portare con pazienza e compassione. Noi occidentali forse eravamo troppo sicuri di essere indenni dalla nostra dimensione di creature come tutti gli altri. Invece dobbiamo misurarci col fatto che non siamo esenti dalla mortalità, anche se ci sentiamo così onnipotenti.
L’ottimismo forzato, in cui ci siamo blindati con l’idea che, seppur non siamo la razza superiore, siamo coloro che sono stati capaci di prendere in mano il loro destino, deve trasformarsi in un ottimismo tragico e in speranza evangelica. Siamo creature come tutti e l’attesa di una vita lunga e bella non può essere un privilegio gelosamente custodito, ma un tesoro da condividere come si fa nei giorni di festa nei quali, oltre che gioiosi, ci sentiamo tutti più buoni.
La sofferenza non lascia mai uguali a se stessi: o ci rende migliori o ci rende peggiori. La morte di alcuni, la sofferenza di tanti e la paura di tutti sono un segno che ci richiama ad un sussulto di dignità: siamo tutti malati di umanità! E qui la preghiera – nel senso più ampio e variegato – è un’àncora sicura: rivolgendoci all’Altissimo, come creature tra creature, ritroviamo la nostra giusta dimensione. Così potremo maturare la capacità di assumere persino la morte senza smettere di amare la vita e di lottare, appassionatamente, perché tutti l’abbiano in abbondanza.
Una domanda rimane in sospeso: «Come uomini e donne sapremo riannodare e rafforzare quella “social catena” per far fronte all’“empia natura” di cui parlava, con il suo pessimismo illuminato, Giacomo Leopardi nella sua Ginestra?». E ancora: «Come credenti sapremo distinguere l’illusione dell’immortalità dal desiderio della vita eterna verso cui ci volgiamo serenamente mettendo in conto la morte nostra e delle persone che amiamo?».
Tutto ciò non è certo facile, ma è all’altezza del nostro essere creati «ad immagine e somiglianza» (Gen 1,26) di Dio. La coscienza del nostro limite di creature va onorato, accolto e amato.
Teniamoci tutti per mano… pur a distanza di almeno un metro… per il momento!
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