Lo scorso 8 giugno il quotidiano Avvenire ha pubblicato la lettera di un professore, Pino Enzo Beccaria (qui), nella quale si racconta con coraggio di una vita segnata dal dolore nella quale è sembrato impossibile poter «credere in Dio». Don Francesco Cosentino gli risponde.
Caro Professore,
se quella di un ateo che scrive ad Avvenire è una scelta quantomeno originale, penso che sia alquanto curioso che un prete scriva a un ateo. Quando ci si avventura nel fascino e nel rischio di un dialogo – anche solo epistolare – occorre sospendere almeno per un attimo i pregiudizi che, anche inconsapevolmente, ci condizionano. Se c’è una cosa che il Vangelo ci indica nella prassi di Gesù e che papa Francesco ribadisce come criterio e stile dell’agire ecclesiale, è che le situazioni e la coscienza delle persone non si giudicano. Si ascoltano e si accompagnano.
Sono sacerdote da 13 anni e, per la maggior parte del tempo, ho dedicato la mia vita allo studio della Teologia, specializzandomi sul tema dell’ateismo e sul dialogo con i non credenti; anche se oggi il mio tempo si è notevolmente ridotto, lo scorso anno sono riuscito a pubblicare il mio ultimo testo, dal titolo Incredulità.
Vede, professore, leggendo le sue parole trovo inesatte le mie: “specializzato sul tema dell’ateismo”. L’ateismo, in realtà, non è un argomento da cattedra che richieda una specializzazione ma, al contrario, una ferita sempre aperta che sanguina nella carne del vivere. Più che una teoria, è un luogo nel quale la persona sceglie di abbracciare la vita, magari dopo aver sperimentato che il Dio della fede cristiana, presentatogli più volte come Padre amorevole e cuore compassionevole, è rimasto muto dinanzi al dramma della sofferenza.
In tal senso, il breve racconto della sua vita viene a scalfire la sicurezza troppo presuntuosa di una fede che non lascia spazio al dubbio, che non si lascia intaccare dalla vita e che, proprio pretendendo di avere risposte e ragione su tutto, fa torto a quel Dio verso il quale è rivolta. Solo Dio, infatti, è Dio. E la verità – con buona pace di chi pensa di averla in tasca e di dover perciò aggredire chi la pensa diversamente – non è affare del cuore dell’uomo; siamo solo in cammino verso di essa, pellegrini e mendicanti, nella debolezza di un esodo infinito benché sospinti dallo Spirito che – per l’appunto – ci guiderà alla verità tutta intera.
Mi ritornano in mente le splendide pagine di Introduzione al Cristianesimo, di Joseph Ratzinger: il “dubbio” e il “forse” sono l’ineluttabile destino a cui sono consegnati tanto il credente quanto il non credente. E anche il credente – scriveva l’allora teologo tedesco – si libra su una misera tavola di legno in mezzo all’oceano del nulla.
Non vorrei mancarle di rispetto. Ma, vede, leggendo e rileggendo le sue parole non riesco a trovare un ateo. A rigor di logica e di termine, ateo è chi vive «senza Dio»: chi se n’è sbarazzato non solo in ordine alla credenza, ma anche come problema. Io leggo nelle sue sofferte parole, invece, che Dio la inquieta ancora. Che non è riuscito ad abbracciare una fede esplicita e, tuttavia, il dolore inspiegato e inspiegabile le hanno offerto la possibilità di iniziare una battaglia e una lotta con Dio, pari a quella di Giobbe, ma anche al pianto di Maria, la sorella di Lazzaro: «Se tu fossi stato qui, Signore, mio fratello non sarebbe morto!» (Gv 11,21).
Dove sei, Dio? Perché non ti svegli? Perché non ascolti il grido del mio dolore? Non sono le domande di un ateo, mi creda. Sono le implorazioni di molti Salmi e di molte pagine bibliche. Di chi fatica a credere e – come lei – se ne vergogna pure, manifestando dentro questa agonia il desiderio di un volo rimasto ancora rasoterra.
Caro professore, mi perdoni, ma non so dare risposte rassicuranti a una storia come la sua. Posso dirle che Dio non è un’assicurazione sulla vita e che il male ci tocca e ci ferisce sempre. Ma posso anche dirle, che Dio non ha voluto spiegarlo: lo ha vissuto sulla croce con noi e per noi. Lo porta insieme a noi e, lentamente, lo trasforma. In questa condivisione solidale, egli trasforma il nostro lutto e ci apre fin d’ora alla gioia della vita eterna, dove non c’è né lacrima e né dolore.
Se ciò non è ancora avvenuto completamente nella sua vita, continui a gridare e a lottare. Questo è il suo filo diretto con Dio e Dio lo accoglie più di tante preghiere esteriori e formali. A volte – come ha scritto brillantemente Tomas Halik – la differenza la fa la pazienza: tanto il credente fanatico e fondamentalista quanto l’ateo, arrivano troppo in fretta alla conclusione nell’interpretare i fatti della vita e, così, classificano velocemente anche Dio e il suo agire. Chi ha pazienza, invece, aspetta il giorno in cui Dio verrà. Lo aspetta anche soffrendo e lottando, perfino rifiutandolo.
Ma, sono sicuro, Dio verrà. O, forse, è già venuto.
Don Francesco Cosentino