Un Dio che rimette in piedi

di:

dio diverso

Raphael Buyse, presbitero iperattivo della diocesi francese di Lille, fondatore e animatore della Fraternité diocésaine des parvis – un movimento ecclesiale che si inserisce nel percorso pastorale tracciato dal concilio Vaticano II e nelle intuizioni spirituali di Madeleine Delbrêl –, è autore di un fortunato Autrement, Dieu, tradotto in italiano e pubblicato recentemente dalle Edizioni Qiqajon con il titolo Un Dio diverso.

Ad un certo momento della sua vita Raphael Buyse avverte l’impellente esigenza di interrompere il cammino che, come credente, sta facendo da sessant’anni e di prendere altresì le distanze da quel servizio che, da quindici anni e al di là del ragionevole, sta rendendo alla Chiesa locale nella veste di vicario episcopale, responsabile di strutture ecclesiali, mediatore, ministro, accompagnatore e consigliere di comunità, predicatore, conferenziere…

Il bisogno di staccare la spina è motivato dal fatto che la fede del nostro presbitero tuttofare è entrata in crisi.

Dal Dio vincolato ai suoi desideri e sogni di prete non si aspetta più nulla. Il Dio confuso con i fantasmi provenienti dal profondo della sua fragilità di uomo di Chiesa non fa più parte del suo primo pensiero mattutino. Con il Dio inseguito portando avanti mille progetti pastorali nelle vesti di uomo di Dio e di guida spirituale non riesce più a relazionarsi in modo vitale. Del Dio costruito come risposta che colma la sua solitudine di uomo non sa che farsene. Nei confronti del Dio cercato al di là dell’umano affidandosi alla categoria della religiosità, non nutre più alcun interesse.

Per apportare una svolta radicale al suo stile di vita, padre Buyse decide di trascorrere un intero anno nel piccolo monastero benedettino di Clerlande, a pochi chilometri da Bruxelles. È animato dal desiderio imperioso di permettere alla Parola di Dio di parlare e di lasciarla agire in profondità. Aspira a trovare, nell’ambito ristretto di poche fedeltà elementari, l’unificazione profonda della sua persona. In particolare, avverte che per lui è arrivato il tempo di permettere al Dio di Gesù di Nazaret di prendere finalmente il posto che gli spetta nella sua vita di uomo, di credente e di presbitero.

Dal silenzio di Dio…

dio diverso

L’anno sabbatico trascorso con i monaci di Clerlande cambia il corso della sua esistenza e gli fa spazzare via, con un senso di vertigine mista a gioia e a lacrime, le certezze che aveva sulla sua vita, sulla Chiesa e su Dio. Lo induce a relegare in secondo piano e senza rimpianti cose ritenute di primaria importanza come le dispute di scuola, le strategie apostoliche, i progetti pastorali e, soprattutto, la frenesia di edificare pietra su pietra un Tempio-Chiesa che Dio forse non si attende da noi…

Aveva lasciato la città brulicante di gente, immergendosi nel silenzio di un monastero per incontrare Dio. Ma ciò che entra in lui è il silenzio di Dio, uno spaventoso silenzio che fa venir meno le sue certezze come neve al sole.

La via che Clerlande gli fa prendere si rivela esaltante e pericolosa, stimolante e sconvolgente, benefica e scomoda. Lo rende, ad un tempo, libero e anche povero; talmente povero da non sapere più non solo cosa dire di Dio, ma anche se Dio esista davvero. Le parole su Dio utilizzate per molto tempo si dissolvono come bolle di sapone o gli sembrano gusci vuoti. E di Dio non sa più che cosa dire.

Non crede più al Dio altissimo e temibile dei salmi cantati per tanto tempo. Non crede più che Dio – come da Sal 144,2 – sia «mia fortezza, mio rifugio e mio liberatore». Non crede più in un Dio da ammansire, interpellare, sedurre, invocare o anche risvegliare. Non crede più al Dio onnipotente, Signore del tempo e della storia. Non crede più al Dio che interviene in tutto. A Dio non parla più perché non sa più cosa chiedergli.

«Se sei ancora intento a tendere a Dio e aspirare a lui
è perché non sei ancora stato catturato da lui in tutto il tuo essere».
(Angelo Silesio, Il pellegrino cherubico 1,126)

Rivive un episodio che risale ai tempi dello studio della teologia per diventare prete. Un giorno il professore chiede agli studenti di mettere per iscritto una formula di Credo. Raphael Buyse, all’ultimo momento, prima di consegnare il “compito in classe”, straccia tutto quello che ha scritto mettendo a frutto i libri letti e gli appunti presi nei corsi seguiti, e consegna un foglio bianco sul quale sono scritte solo due righe: «Credo nell’uomo. In quell’uomo nel quale Dio spera». Il professore, invece di esprimere un giudizio gravemente insufficiente, si dimostra interessato alle due righe e di fatto gli spalanca le porte dalle quali accedere ad una fede libera.

A Clerlande, Raphael Buyse, aiutato dal silenzio di Dio, torna a pensare che credere in Dio significa credere nell’uomo e nella donna, creature di Dio e da Dio amate. Nella sua assenza, Dio è percepito come desideroso che l’uomo e la donna vivano e che, a loro volta, facciano vivere altri uomini e altre donne. È un Dio creatore, che ha stabilito l’essere umano come artefice della propria vita. Contemplandolo, si ritira come il mare e dice «ma che bello !» (Gen 1,31).

La brama di penetrare nel pressante e insondabile mistero di Dio è, a poco a poco, sostituita da una sola domanda, quella che fa vivere: «Chi è l’uomo e in che modo essere umani?». La risposta non è rinvenibile né nelle forme di ricerca di Dio che si trasformano in una sorta di rimozione dell’umano, né nel sospirare verso l’aldilà, perché non si riesce ad aderire con responsabilità all’aldiquà, e neppure nelle devozioni delle religioni che anestetizzano.

…al Dio di Gesù che ci vede solo in una prospettiva di vita

Ricercare Dio nella profondità dell’umano alla maniera di Gesù di Nazaret gli sembra la strada maestra da percorrere per rivitalizzare la sua vita di fede.

È in Gesù di Nazaret che si può vedere il volto umano di Dio. È lui il vero riferimento per localizzare Dio e svelarne il volto.

Gesù ha una capacità straordinaria di stabilire relazioni e di unificare, con delicatezza e arte, la vita di chi segue i suoi passi. «Ieri come oggi – ci assicura Raphael Buyse – sa risvegliare il gusto della vita in coloro che si lasciano incontrare. Ama uomini e donne in armonia nel corpo, della mente e nell’affettività. Sogna un essere umano inscritto in una rete di relazioni positive. Ascolta la vita, e coglie solo ciò che fa vivere. Reintegra. Si rallegra di vedere persone che si riconciliano con se stesse, con gli altri. Accoglie senza diffidenza il bisogno di tenerezza. Ama la festa. Desidera che si tenga conto dei piccoli. In un mondo arido e duro, porta una ventata di freschezza nella vita di persone ininfluenti, senza voce, senza potere, senza amore».

 «Fermati, dove corri ? il cielo è dentro di te! Se cerchi Dio altrove, lo perdi sempre più»
(Angelo Silesio, Il pellegrino cherubico 1,82)

Contemplando e mettendoci alla sequela di Gesù, che ci ha narrato Dio, «si comprende – scrive Raphael Buyse – che sono veramente umani solo quelli che, come lui, sanno di essere poveri di cuore, coloro che accettano i limiti del mondo in cui vivono, l’ordinarietà dei giorni; coloro che, come lui, osano lasciar scorrere le lacrime, preferiscono la mitezza alla violenza, rischiano la vita per la giustizia; coloro che, come lui, sanno perdonare, conservano puro il cuore, cercano la pace; coloro che, come lui, sono pronti a sopportare l’insulto e il disprezzo per restare fedeli. Da lui impariamo che non vi è vita più umana di una vita donata e disponibile a ciò che accade. Egli la trasforma dell’interno. Da lui impariamo a essere servi e non padroni, responsabili del divenire degli altri senza caricarli dei nostri fardelli; a rendere gli altri liberi, invece di alienarli; a vivere più semplicemente e a donare gioia».

Gesù ha umanizzato Dio. Guardando a lui si può imparare che Dio:

  • non è uno che vorrebbe farci pagare il diritto di vivere imponendoci sacrifici e pedaggi, ma è un padre che, ogni mattina, alle porte del suo podere, attende il ritorno dei figli scellerati e, quando li vede, corre loro incontro, anche se è anziano;
  • non è al di sopra di noi, ma abita, discreto e silenzioso, nell’intimo del nostro essere;
  • è un folle che dona senza fare calcoli, semina senza preparare il terreno, ama i banchetti di nozze e ignora con disinvoltura le convenzioni;
  • si ritiene glorificato quando e se gli uomini e le donne vivono, e vivono in pienezza, a partire da quel centro che è il loro cuore, così come è uscito dalla mano creatrice di Dio;
  • ci insegna che il peccato è incapacità di sentire e vivere l’intensità dell’esistenza;
  • ci esorta a gustare la strada, ad amare il cammino tracciato dai nostri passi, a non cedere alla voglia di fermarsi ritenendo di aver raggiunto la meta;
  • ci chiede non di mendicare ma di accogliere la sua misericordia e la sua benevolenza;
  • ci esorta a far risuonare continuamente in noi le parole del profeta Michea: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).

«A che ti serve che Cristo si rialzi dalla morte se tu resti coricato?»
(Angelo Silesio, Il pellegrino cherubico 1,63)

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