I giorni del Triduo sono segnati da assenze, alcune dolorose altre che aprono alla libertà della fede. Tutte annunciano una mancanza che non può essere colmata – neanche da Dio, perché è quella che tiene in vita il nostro desiderio che nessuna realtà potrà mai riempire o saziare.
Pasqua è l’annuncio cristiano del fatto che il reale, così come esso si dà nella nostra esperienza quotidiana, non ha l’ultima parola sulle nostre vite e sul nostro desiderio di una esistenza riuscita – definitivamente riuscita. Un annuncio, però, che non passa oltre la realtà del nostro vivere, ma se ne fa carico, lo custodisce e lo trasforma.
Tutti i frammenti della nostra quotidianità vengono raccolti, amati, riconciliati fra loro. Un lavoro, questo, che la realtà del vivere e la vita non sono in grado di fare. Lavoro che, però, la dedizione del Dio di Gesù desidera fare fin dal principio dei giorni. Ed è da questo tempo immemorabile che Dio opera affinché le nostre esistenze possano giungere alla loro desiderata riuscita – che niente e nessuno può corrodore o corrompere.
Nel giorno di Pasqua un’esistenza umana, vissuta nel segno di una dedizione che non conosce confini, viene ad abitare per sempre l’intimità del mistero di Dio – e la trasforma in maniera indicibile. Proprio perché Pasqua è l’evento di questa trasformazione intima di Dio, essa può essere anche la speranza che vince la pretesa del reale di essere tutto e che nulla è possibile al di fuori di esso. E lo fa, appunto, ospitandolo in sé e coinvolgendolo nella inenarrabile trasformazione che Dio vive nella risurrezione di Gesù – il Figlio amato da sempre, primo tra molti fratelli e sorelle nel corpo di carne.
Ora c’erano delle donne che guardavano da lontano, tra le quali Maria di Magdala e Maria,
madre di Giacomo il minore e Giosuè, e Salome (Mc 15,40).
Ora vedendo il centurione, che stava lì davanti a lui, che così era morto disse:
veramente quest’uomo era figlio di Dio (Mc 15,39).
È il giorno del nostro più misero fallimento: lo abbandonammo tutti, solo le donne di Galiela che lo avevano seguito insieme a noi furono capaci di restare con lui.
Non lo dimenticheremo mai, la nostra pavidità e infedeltà rimarranno come un pungiglione nella nostra carne. A questo momento della sua vita noi non c’eravamo, e non sapremmo cosa dire se le donne non ce lo avessero raccontato.
Lo abbiamo lasciato morire da solo, quando lui non ci aveva abbandonato neanche per un attimo. Lo abbiamo lasciato da solo proprio nel momento in cui aveva uno struggente bisogno di noi: dopo la cena portò alcuni di noi in un campo a pregare, ma i nostri occhi si fecero vincere dal sonno – e fu la sua parola, risoluta, a ridestarci a quello che stava accadendo.
Perché non fummo all’altezza del suo desiderio di averci con lui? Credo che non riusciremo mai a trovare una risposta a questa domanda che ci accompagna, come un abisso oscuro, ogni giorno della nostra vita.
Ci abbiamo provato, e ci proveremo ancora, ma proprio non riusciamo a dimenticare la nostra viltà piena di paura per noi. È come se la nostra vita fosse accompagnata da un enorme buco nero, che appare davanti ai nostri occhi ovunque andiamo e qualunque cosa facciamo.
Quando un centurione disse quello che lui avrebbe desiderato sentire da noi, proprio in quel momento, noi non c’eravamo. E non potremmo mai esserci: davanti alla croce, noi siamo i mancanti – noi, i suoi, i discepoli.
E ci sarà sempre un centurione, uno che non è dei nostri, che sarà lì a dire e dirci quello che dovremmo dire noi; che saprà riconoscere i segni di Dio dove noi non fummo e non siamo capaci di coglierli.
Da quel giorno, noi siamo in cerca di un centurione che ci dica le nostre parole più care: quelle del riconoscimento di lui. Siamo appesi alle sue labbra per dire di lui come del figlio di Dio; alle sue, perché le nostre non c’erano davanti al suo morire così – anche per noi.
E così ogni volta che parliamo di lui non sentiamo l’eco delle nostre parole, ma come un sottofondo appena accennato “centurione, centurione, dove sei…? non abbiamo nulla da dire se tu non parli al posto nostro, per noi…”.
La sera di quel giorno si chiuse con la nostra impossibilità di dire anche solo una parola – fummo costretti a un silenzio che sapeva di eternità, dovemmo passare attraverso l’assenza di ogni parola per imparare a dire di lui.
Sempre memori che è grazie a un centurione che imparammo a parlare di lui come avremmo dovuto fare, ma non fummo capaci.