Anche se difficile, qualcuno riesce a passare dallo stato di vittima a quello di testimone di valori profondi. La testimonianza del gesuita spagnolo Seve Lázaro.
Mi chiedono di scrivere alcune lettere su come sto vivendo questo momento di isolamento. Essere stato toccato dal Coronavirus e aver visto i suoi artigli prima a casa e poi in ospedale, senza farmi sentire diverso da nessuno, mi rende un po’ vittima e un po’ testimone, come molti altri. Penso che si tratti di imparare il passaggio dal primo al secondo.
Vittima, come tante persone che intorno a me lo subiscono e soffrono. Con quell’incertezza nel vedere apparire i sintomi e rendersi conto che nulla mi calma, che non hanno alcun effetto quei paracetamolo, ibuprofene, nolotil e tanti altri antidolorifici. Che disperazione con quella dannata febbre che non sarebbe andata via!
Vittima, perché mi sentivo schizofrenicamente disinformato su ciò che mi stava realmente accadendo. Perché i numeri di telefono ufficiali che chiamavo non mi hanno mai risposto, o i dottori che mi hanno negato tutto nei passaggi prima del ricovero: «rimani a casa – mi hanno detto – sarà un’influenza, sarà una malattia virale, beh, ti facciamo alcuni test e vai a casa…». Quando, d’altra parte, i media mi inondavano di informazioni sui sintomi, e giorno dopo giorno, a casa, ho controllato che fossero quelli che avevo. Ero arrivato a non capirci niente!
Vittima anche nel vedermi improvvisamente segnato ed etichettato, come qualcuno da isolare immediatamente e da tenere lontano; qualcuno da avvisare immediatamente «che ce l’ho», in modo che tutti coloro con cui ero entrato in contatto venissero rapidamente posti in quarantena.
È questo che mi ha fatto vedere la faccia più amara della pandemia: sono infetto e condannato a essere solo, messo da parte. Risuona ancora nella mia testa l’urlo di un’infermiera che grida ad un altro in procinto di entrare nella mia stanza: «Nella 325 non entrare per niente al mondo!».
Quante stanze e case hanno quel marchio e si parla con loro a distanza e si mette il cibo dalla porta, o vengono chiamati al telefono una sola miserabile volta al giorno dai centri medici, per lasciarli morire gradualmente, come Pepi, la sacrestana della nostra parrocchia.
Ma questa esperienza della vittima, che forse è la prima, deve lasciare il posto a un’altra, quella della testimonianza, e questa, almeno nel mio caso, è l’esperienza più profonda e feconda, per quanto posso giungere a vedere.
Testimone per aver visto come la debolezza mi sfiora, si installa nella mia vita o mi invade: è molto difficile viversi così, per minuti, ore, giorni che durano per sempre… Ma, allo stesso tempo, è molto fecondo, perché tocco l’humus e la terra di quello che sono veramente: un essere terreno, finito, frammentato… Lontano da quel sentirmi al di sopra di tutti o al centro della loro attenzione nel quale mi piace vivere, e per il quale mi do da fare ogni giorno nella mia esperienza personale o professionale. Com’è bello che questo beato virus ci faccia sentire tutti deboli: specialisti, politici, professionisti della salute, familiari e, naturalmente, malati. Che opportunità è imparare ad adorare e ringraziare per il mistero di fragilità e vulnerabilità che circonda questa avventura della mia vita.
Testimone per aver visto quante e quante persone provenienti da esperienze diverse fanno tutto il possibile. Si racconta come Van Eyck e alcuni altri pittori fiamminghi firmassero i loro quadri con la stessa frase che diceva: «come meglio posso».
E questa è la firma che stiamo tutti ponendo in questa quarantena. Vorrei essere migliore di quello che spesso mi ritrovo ad essere, a vivere meglio questo momento difficile, a sentirmi più utile in quello che sto facendo o vorrei fare… Siamo tutti molto lontani o molto al di sotto per quel che siamo valutati in azienda o sul lavoro: le nostre prestazioni professionali. Ma chi ce l’ha messo in testa? Ciò che la vita mi chiede in questa e in qualsiasi altra circostanza è che faccia «come meglio posso».
Ed è stato ed è così bello vederlo nella sollecitudine delle persone della comunità in cui vivo e che si prendono cura di me così amorevolmente nel mio isolamento; come a Raúl, il dottore che durante quei cinque giorni in cui ero a casa mi chiamava la mattina, il pomeriggio e la sera; come in tutto il team dell’ospedale Asisa di Moncloa, dove sono stato ricoverato per cinque giorni; come in tutto quel flusso di messaggi di incoraggiamento e di preghiera che ho ricevuto e ricevo al telefono; come in tutta la società, dove l’unica cosa che puoi fare è rimanere a casa e applaudire con gratitudine ogni giorno alle 20,00. Che bello imparare questo sentirci tutti più maldestri, meno efficaci, facendo solo «come meglio possiamo».
Testimone, infine, dell’incondizionato. Non ho dubbi che questa pandemia mi stia costringendo tutti questi giorni a guardare in faccia esattamente quell’evento che cerco sempre di evitare: la morte. Lo vedo nei numeri che si moltiplicano ogni giorno e che non sono più grafici, ma volti e storie di persone che amo, vicine alla famiglia, al quartiere in cui vivo, al lavoro, alla parrocchia di cui faccio parte, in tutte le aree della società…
Nei miei giorni di ricovero, tutte le quattro notti sono stato svegliato dalle urla del paziente nella stanza accanto, il quale, nonostante l’ossigeno e tutto il resto, era preso da violenti attacchi di tosse che volevano affogarlo… e io dalla stanza accanto pregavo.
Mia madre, che mi chiamava due volte al giorno, martedì 17 mi ha detto che domenica 15, quando ho annunciato in famiglia su Whatsapp che mi hanno portato in ospedale, ha detto a mio fratello con cui vive di accompagnarla in chiesa per pregare. Senza lasciarla finire, le ho chiesto: «Non hai chiesto a Dio di guarirmi sì o sì?». E lei, con la sua fede lunga 84 anni, mi ha detto: «No, figliolo; come puoi pensare che lo chieda a Dio, se non siamo niente? Gli ho detto solo di guarirti se è il caso». «E poi l’ho supplicato più volte che dovunque tu andassi, mi portasse lì, con te. Che solo con te vorrei essere, ovunque tu vada».
In quell’ora ho saputo solo piangere. Ma in questi giorni ritornando a lei, sento che il mio miglioramento è iniziato lì. Lì dentro di me, dove fino ad allora c’erano solo il virus e la solitudine che lo accompagnavano, all’improvviso sentii che, ancora più in profondità, e saltando tutti i protocolli, si era piantato l’amore incondizionato di mia madre.
È positivo che questa pandemia ci avvicini alla natura incondizionata della vita, che è la morte, ma che è anche l’amore. E che quando riusciamo ad esprimerlo, come mia madre con me, sono sicuro che si rivelerà più forte e andrà più in profondità del virus stesso, fino ad esserne liberati. Quindi non smettiamo di sprecarci al telefono per gridare a tutti coloro che si sentono soli e malati che non lo sono, che c’è qualcosa di più forte: è l’amore che abbiamo per loro.
¿Víctima o testigo del coronavirus?
Me piden que escriba unas letras sobre cómo estoy viviendo este tiempo de aislamiento. El haber sido tocado por esto del coronavirus y haber visto sus garras primero en casa y luego en el hospital, sin hacerme sentir diferente a nadie, me convierte un poco en víctima y otro poco en testigo, como muchos otros. Creo que el aprendizaje está en ir del primero al segundo.
Víctima, como tanta y tanta gente que a mi alrededor lo padece y lo sufre. Con esa incertidumbre de ver los síntomas aparecer y darme cuenta de que nada me calma, de que nada alivian esos remedios de paracetamol, ibuprofeno, nolotil, y tantos otros calmantes. ¡Qué desesperación llegué a sentir con esa maldita fiebre que no se me iba!
Víctima, porque me sentí esquizofrénicamente desinformado de lo que realmente me pasaba. Pues los números oficiales de teléfono a los que llamaba, nunca me cogían, o los médicos me lo negaban todo en los pasos previos al ingreso, quédate en casa, me decían, será una gripe, será un cuadro viral, bueno, te vamos a hacer unas pruebas y te vuelves a casa… Cuando por otro lado, los medios me inundaban de información con los síntomas, y día a día en mi domicilio comprobaba que eran los que yo tenía. ¡Llegué a no entender nada!
Víctima también de verme de repente marcado y señalado, como alguien al que hay que aislar inmediatamente y del que hay que prevenirse, del que hay que avisar urgentemente que lo tengo, para que todos aquellos con los que estuve en contacto se pusieran rápidamente en cuarentena. Lo que me hizo ver el rostro más amargo de esta pandemia: estoy contagiado y condenado a estar solo, apartado. Todavía resuena en mi cabeza el grito de una enfermera diciéndole a otra que se disponía a entrar en mi habitación: ¡En la 325 no entres por nada del mundo! Cuántas habitaciones y domicilios tienen esa marca y se les habla y mete la comida desde la puerta, o se les llama por teléfono una miserable vez al día desde los centros médicos, para poco a poco dejarles morir, como a Pepi, la sacristana de nuestra parroquia.
Pero esta vivencia de víctima, que tal vez es la primera, tiene que ir dejando paso a otra, la de testigo, y esta, al menos en mi caso, está siendo la vivencia más profunda y más fecunda, en lo que puedo alcanzar a ver.
Testigo de ver cómo la debilidad me roza, se instala en mi vida o me llega a invadir: es muy duro vivirse ahí, durante minutos, horas, días que se hacen eternos… Pero a la vez es muy fecundo, porque toco el humus y la tierra de eso que soy realmente, un ser terrenal, finito, fragmentado… Muy lejos de ese endiosamiento y centro en el que me gusta vivir, y por el que me afano cada día desde mi pericia personal o profesional. Qué bueno que este dichoso virus nos esté haciéndonos sentir débiles a todos: a los especialistas, a los políticos, a los profesionales de la salud, a los familiares y, cómo no, a los enfermos. Qué oportunidad está siendo para aprender a adorar y dar gracias por el misterio de fragilidad y vulnerabilidad que envuelve esta aventura de mi vida.
Testigo de ver cómo tantas y tantas personas desde diferentes puestos hacen todo lo que pueden. Se cuenta que Van Eyck y algunos otros pintores flamencos firmaban sus cuadros con una misma frase que decía: «como mejor puedo». Y esa es la firma que todos estamos poniendo en esta cuarentena. Me gustaría estar mejor de lo que muchas veces me descubro, vivir mejor este difícil momento, sentirme más útil desde lo que voy haciendo o querría hacer… Todos estamos lejos o muy por debajo de eso por lo que tanto se nos mide en las empresas y trabajos: nuestro rendimiento profesional. Pero quién nos ha metido eso en la cabeza. Lo que la vida me pide en esta y en cualquier otra circunstancia es que haga «como mejor pueda». Y me ha sido y es tan hermoso verlo en los cuidados de la gente de la comunidad en la que vivo, y que tan cariñosamente me atienden en el aislamiento; como en Raúl, el médico que durante esos cinco días que estuve en casa me llamaba por la mañana, por la tarde y por la noche; como en todo el equipo del hospital de Asisa en Moncloa donde estuve ingresado cinco días; como en toda esa corriente de mensajes de ánimo y oración que he recibido y recibo por el teléfono; como en la sociedad entera que lo único que puede hacer es quedarse en casa y aplaudir agradecidamente todos los días a las 20:00 h. Qué gran aprendizaje este de sentirnos todos más torpes, menos eficaces, haciendo solo «como mejor podemos».
Testigo, finalmente, de lo incondicional. No tengo dudas de que esta pandemia me está obligando en todos estos días a mirar de frente a ese acontecimiento al que siempre intento esquivar: la muerte. Lo veo en las cifras que cada día se van multiplicando y que ya no son cifras, sino rostros e historias de personas que quiero, cercanas a la familia, al barrio en el que vivo, al trabajo, a la parroquia de la que formo parte, a todos los ámbitos de la sociedad… En mis días de hospitalización, las cuatro noches me despertaban los gritos del paciente de la habitación de al lado, al cual con oxígeno y todo le venían ataques de tos que intentaban ahogarle… y yo al lado rezaba. Mi madre, que también me llamaba cada día dos veces, el martes 17 me contaba cómo el domingo 15, cuando los puse por el WhatsApp familiar que me llevaban al hospital, dice que le dijo a mi hermano con el que vive que la acompañara a la iglesia a rezar. Yo, sin dejarla terminar, le pregunté: «¿no le habrás pedido a Dios que me cure sí o sí?» Y ella, con su fe de 84 largos años me dijo: «no, hijo ¿cómo se te ocurre que voy a pedirle eso a Dios, si no somos nada? Solo le dije que te curaras si conviene. Y lo que luego le supliqué todo el tiempo es que donde tú fueras, que me llevara allí, contigo. Que solo junto a ti querría estar, fuera donde fuera». En esa hora, solo acerté a llorar. Pero estos días volviendo a ella, siento que ahí empezó mi mejoría. Allí dentro de mí, donde hasta entonces solo existían el virus y la soledad que le acompañaba, de repente sentí que más adentro incluso, y saltándose todos los protocolos, se había metido el amor incondicional de mi madre.
Qué bueno, que esta pandemia nos esté poniendo cerca de lo incondicional de la vida que es la muerte, pero que es también el amor. Y que cuando acertamos a expresarlo, como mi madre conmigo, estoy seguro de que se revelará más fuerte y entrará más adentro que el mismo virus, hasta arrancarnos de él. Así que no dejemos de gastar en teléfono para gritar a todos los que se sienten solos y enfermos que no lo están, que hay algo más fuerte que es el amor que les tenemos.
Originale pubblicato su Infosj il 24 marzo 2020.
Testimonianze
- Mariachiara Peron, La vita in quarantena.
- Piero Rattin, Dall’altra parte della barricata.