Nel cuore del testo di Amoris lætitia non vi è semplicemente una svolta nella pastorale matrimoniale e familiare, ma una profonda e accurata rilettura della tradizione morale della Chiesa cattolica. Vorrei cercare di illustrare in modo semplice uno dei punti più evidenti di recupero della tradizione che AL realizza con grande forza e con vera profezia. Prima voglio però chiarire un punto decisivo. Diversamente da quanto viene ripetuto dai settori più restii ad accettare tale svolta, non si tratta di una discontinuità che AL introduce nella tradizione morale della Chiesa. Bisogna piuttosto riconoscere apertamente il contrario. La discontinuità era stata introdotta da alcuni documenti del XX secolo – che vanno da Casti connubii, a Humanae vitae a Veritatis splendor – i quali avevano introdotto un “massimalismo morale” del tutto inedito fino ad allora, con una grande forzatura nella lettura delle fonti tradizionali, e rispetto a cui AL opera un vero e proprio atto di “riconciliazione con la tradizione”. Come era stato il Concilio Vaticano II, AL, seguendone le orme, va letta anzitutto come “servizio alla tradizione”.
La delicata correlazione di oggetto e soggetto in Amoris lætitia
Per comprendere questo punto viscerale in vista di una adeguata recezione del testo di AL, dobbiamo partire da uno dei punti-chiave del suo magistero, ossia dalla luminosa distinzione tra “legge oggettiva” e “circostanze soggettive”. Tutta l’esortazione apostolica riposa, fin dai suoi primi numeri, sulla chiara coscienza della superiorità del tempo sullo spazio, con la conseguenza che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (AL 3). Sulla base di questa onesta considerazione, AL elabora, nel cap. VIII, una comprensione delle “ferite della famiglia” in cui si propone una relazione tra “norme” e “discernimento” che recupera una antica sapienza ecclesiale, rispetto a cui una «morale fredda da scrivania» (AL 312) aveva preteso di prendere le distanze in modo drastico e massimalistico.
Il punto centrale di questa ri-acquisizione può essere detto in positivo o in negativo. Consideriamo entrambe queste esposizioni:
a) in positivo: «La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (AL 301);
b) in negativo: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (AL 304).
Questa comprensione discende da un “luogo comune” classico della teologia morale, che AL presenta con grande autorevolezza mediante le parole di s. Tommaso (S. Th., I-II, 94, 4). Tale principio può essere chiamato della “indeterminazione del particolare” e suona nel testo di Tommaso – dedicato alla domanda «sembra che la legge naturale non sia la stessa per tutti» – con queste parole: «Sed ratio practica negotiatur circa contingentia, in quibus sunt operationes humanae, et ideo, etsi in communibus sit aliqua necessitas, quanto magis ad propria descenditur, tanto magis invenitur defectus» e che AL spiega in questo modo illuminante:«È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari» (AL 304). Qui AL riprende un principio classico del diritto – che Triboniano aveva elaborato alla corte di Giustiniano – sulla “poikilia” della realtà storica, mai del tutto catturabile da una norma generale. Ed è significativo che questo sia un forte contrappeso alla tendenza razionalistica, imposta dalla codificazione napoleonica, di cui ha risentito nell’ultimo secolo anche la tradizione ecclesiale.
Da questa comprensione del tutto tradizionale del rapporto tra legge e discernimento scaturiscono nel campo della teologia matrimoniale una serie di conseguenze molto chiare, che aprono spazi nuovi alla prassi e alla teoria:
– «…è possibile che entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (AL 305).
– «…bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno, lasciando spazio alla misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile… Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente in suo insegnamento obiettivo, non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada» (AL 308).
Il massimalismo morale di Veritatis splendor e l’irrilevanza delle circostanze soggettive
Una generazione prima, nel 1993, il testo di una enciclica di Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, dedicata ad «alcune questioni fondamentali nell’insegnamento morale della Chiesa», dedicava allo stesso tema un approccio che non sarebbe esagerato definire “diametralmente opposto”. Se leggiamo infatti i numeri 79-83, dedicati al tema dell’“intrinsece malum”, vediamo all’opera una lettura di Tommaso e della tradizione irrigidita in un razionalismo massimalista estremamente pericoloso. Seguiamo in sintesi il ragionamento di VS in questo delicato passaggio:
– è sufficiente la considerazione dell’oggetto di un atto umano per definire moralmente tale atto come cattivo, visto che «l’elemento primario e decisivo per il giudizio morale è l’oggetto dell’atto umano, il quale decide sulla sua ordinabilità al bene e al fine ultimo, che è Dio» (VS 79).
– «Si danno degli oggetti dell’atto umano che si configurano come “non ordinabili a Dio”, perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine» (VS 80).
– Nella tradizione morale della Chiesa gli atti umani che si orientano a tali oggetti «sono denominati intrinsecamente cattivi (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce o dalle circostanze» (VS 80).
– Si pretende – con spregiudicata ermeneutica – di far coincidere questa definizione massimalista degli atti illeciti con Gaudium et spes 27, che elenca le diverse forme di attentato alla dignità della persona umana (cf. VS 80).
– Si aggiunge, in modo certamente più coerente, un riferimento a HV e alle «pratiche contraccettive mediante le quali l’atto coniugale è reso intenzionalmente infecondo» (VS 80).
– Se ne deduce che «le circostanze e le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto “soggettivamente” onesto o difendibile come scelta» (VS 81).
Il riassunto, evidentemente scarno, ma fedele, di questa posizione illustra bene le sue conseguenze “massimalistiche”: ossia la applicazione della “legge oggettiva” – o della norma sull’oggetto dell’intenzione – può prescindere totalmente dalla considerazione delle “intenzioni ulteriori” e delle “circostanze” riguardanti il soggetto. Le conseguenze di questa impostazione sono due:
a) da un lato, se l’obiettivo è il bene della persona, «gli atti, il cui oggetto non è ordinabile a Dio e indegno della persona umana si oppongono sempre e in ogni caso a questo bene… In tal senso il rispetto delle norme che proibiscono tali atti e che obbligano semper et pro semper, ossia senza alcuna eccezione, non solo limita la buona intenzione, ma costituisce addirittura la sua espressione fondamentale» (VS 82).
b) Dall’altro, tale lettura massimalista, non riesce a comprendere le buone ragioni della tradizione, che ha saputo contemperare sapientemente le ragioni dell’oggetto con le circostanze del soggetto. Infatti ne trae la conseguenza che «è da respingere come erronea l’opinione che ritiene impossibile qualificare moralmente come cattiva secondo la sua specie la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati, prescindendo dall’intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell’atto per tutte le persone interessate» (VS 82).
Nell’enciclica del 1993 si legge una preoccupazione fondamentale per una determinazione razionale della moralità dell’agire umano che smentisce secoli di accurata distinzione tra logiche oggettive e logiche soggettive: la demonizzazione del soggetto moderno, della sua coscienza e della sua storia non permette di leggere serenamente le fonti. Agostino e Tommaso sono stravolti e resi irriconoscibili, in questa preoccupazione apologetica e antimodernistica, che cade nello stesso errore che vuole combattere. Ossia in una lettura razionalistica e intellettualistica della tradizione, che idealizzando la realtà si immunizza dal rapporto con essa. Questa “morale fredda di scuola” viene superata apertamente e serenamente da AL, che la giudica come un prospettiva «meschina» (AL 304).
AL, recuperando proprio ciò che da Veritatis splendor era stato escluso e giudicato erroneo, ritorna finalmente sul sentiero della tradizione. E lo fa non solo ascoltando i testi antichi con orecchio sensibile, ma mettendosi in ascolto della esperienza degli uomini e delle donne. E ci suggerisce, con finezza e benevolenza, che non si resta nella tradizione sostando al balcone o alla scrivania, ma uscendo per strada. Anche a costo di sporcarsi le scarpe col fango della vita.
Pubblicato il 3 maggio 2017 nel blog: Come se non