Michael Amaladoss è sacerdote della Compagnia di Gesù, nato in India, a Tamil Nadu. Ha scritto 34 libri e circa 475 articoli; tra i volumi in italiano, ricordiamo La missione oggi. Roma, 1989; Rinnovare tutte le cose, Arkeios. Roma 1993; Oltre l’inculturazione. Unità e pluralità delle Chiese, EMI, Bologna 2000; Teologia in Asia, Queriniana, Brescia 2006 (ed. con Rosino Gibellini) (Making Harmony: Living in a Pluralist World; The Dancing Cosmos: A Way to Harmony; Peace on Earth e We Believe). Le EDB hanno pubblicato nel 2007 il suo testo Il Volto asiatico di Gesù e, nel 2008, Costruire pace in un mondo pluralista È stato consigliere generale della Compagnia e, al presente, è direttore dell’Istituto di dialogo con le culture e le religioni a Chennai (India). Lo abbiamo incontrato durante uno dei suoi ormai rari viaggio in Italia.
Inculturazione a doppia velocità
– Gesù è nato, vissuto, morto e risorto in Asia, ma viene normalmente percepito come espressione della cultura occidentale. La prima inculturazione ha avuto successo, tanto da rendere difficile l’inculturazione di ritorno in Asia. Ci sono segni di un processo di inculturazione in India?
L’espressione più vistosa dell’inculturazione, cioè la liturgia, è un processo incompiuto. La Chiesa concede una semplice traduzione letterale dei testi. La vita di fede, invece, si può dire inculturata. La celebrazione dei riti, del matrimonio per esempio, non segue tanto le tradizioni religiose, quanto piuttosto le tradizioni fissate dalle caste. L’inculturazione della vita cristiana avviene nella vita quotidiana, ma non riesce a darsi le forme “canoniche”.
Viviamo in un paese interreligioso, ma i gruppi di fedeli sono abbastanza liberi, così cerchiamo soprattutto di incoraggiare la conoscenza reciproca e la collaborazione sul campo. Noi gesuiti animiamo una serie di iniziative allo scopo. Ad esempio, dallo scorso anno, circa 120 studenti, che hanno seguito un programma avviato circa 5 anni fa, vanno nelle scuole dei più giovani per cercare di comunicare l’esperienza fatta e questo per i bambini è più efficace. Il programma scolastico riserva alcuni giorni a queste iniziative speciali per le quali vengono concesse due ore.
Anche il culto della Vergine e dei santi è sempre più accettato e paradossalmente occasione di incontro interreligioso. Nel nostro santuario di Sant’Antonino in Chennai (Tamil Nadu) c’è folla dalle 6 del mattino fino alle 8 di sera. Ho visto anche musulmani e hindu. Alcuni cristiani non vengono alla messa domenicale, ma il martedì vanno al santuario. La religione popolare costituisce una base di dialogo.
La Chiesa non si serve di questi momenti per fare evangelizzazione. Semplicemente accoglie benevolmente. Per il pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora della Salute a Velanganni (Chennai) – paragonabile al Cammino di Santiago – lungo il tragitto vengono predisposti dei punti di ristoro, alcuni dei quali sono gestiti da hindu e musulmani. Si crea una fraternità che è comunque positiva. Io credo che tutto questo sia inculturazione.
Minoranze religiose
– Sembra esserci una sorta di contraddizione tra il senso religioso molto radicato e le forme anche forti di intolleranza a livello politico dei singoli Stati.
Noi diciamo che non è tanto una difficoltà vissuta a livello di fede, ma è una questione politica. La religione assume una dimensione politica. Chi è veramente religioso è aperto. L’intolleranza è di piccoli gruppi, soprattutto nel Nord. Nel nostro collegio di Chennai, il 50% degli studenti sono non cristiani.
– Ci sono voci insistenti di un peggioramento della situazione delle minoranze religiose in India.
Il peggioramento non è molto forte, ma c’è e giustifica questa impressione. Non è un indirizzo politico ufficiale. Il governo tollera che qua e là alcuni gruppi (soprattutto al Nord) mettano in atto azioni dai connotati fondamentalisti.
– Quando si parla di “disposizioni” negative nei confronti del cristianesimo, quando nelle scuole si chiede l’insegnamento del culto hindu o quando nell’Orissa si negano gli indennizzi per le violenze del 2008… Sono fenomeni locali?
Sì, si tratta di fenomeni locali. Molti studenti non accettano l’insegnamento del culto nelle scuole. Anche i teologi non lo vedono con favore. Né è vista con favore la creazione di sale multireligiose. L’hindu prega nel tempio. Il musulmano può pregare dappertutto, però sempre in gruppo. Non c’è domanda di luoghi di culto interreligiosi.
Rapporti ecumenici
– I malabaresi e loro Sinodo.
Quello dei malabaresi è un problema. Sono diventati più insistenti sulla difesa delle loro prerogative. Sono diventati una Chiesa nazionale, i cui membri sono presenti un po’ dovunque. È il frutto di una decisione vaticana. Ha avuto inizio con vescovi propri a Mumbai e Delhi. La scelta è stata inizialmente contestata, ma ora è accettata. A Chennai, ad esempio, c’è un vescovo e ci sono le loro chiese. A Mumbai la Chiesa malabarese insiste che tutti i cristiani dello stesso rito devono andare nelle loro chiese. Invece, ci vanno soltanto in circostanze particolari come i matrimoni. In quel momento, i pastori possono chiedere il perché della loro mancata presenza. C’è un controllo più insistente. Per i latini non c’è problema.
Il problema ha più un profilo internazionale. Ci sono due vescovi malabaresi: uno negli Stati Uniti e uno a Parigi per tutta l’Europa. Non è una scelta saggia. Nel 1969, subito dopo il Concilio, si è tenuto a Bangalore un incontro durante il quale abbiamo parlato della Chiesa e dell’inculturazione. Io ero rappresentante degli studenti a quel tempo. Ne è uscita una risoluzione che invita ogni Chiesa a inculturarsi. Possiamo vedere un futuro dove, inculturandosi, loro si fanno più prossimi. I riti malabaresi, latino e malankarese, sono tutti stranieri. Potremmo fare un unico rito indiano nel quale convergere. Allora c’era molto entusiasmo per questo orientamento. I latini avevano preparato una messa indiana e il rito siro-malabarico aveva predisposto qualcosa di simile.
– Queste divisioni interne ai cattolici, che effetto hanno sulle altre religioni?
Non ci sono effetti rilevanti. Per loro sono tutti semplicemente cristiani. A Chennai, ad esempio c’è il nostro collegio latino e un collegio universitario della Chiesa malabarese, ma per la gente ci sono due collegi cristiani. È un problema interno alla Chiesa. Può avere maggiore rilevanza in Kerala, dove questi riti convivono.
In Kerala – ma non soltanto – la divisione fra Chiesa latina e malabarese riproduce la divisione fra le caste. Il rito malabarese raccoglie in maggioranza la persone benestanti, i proprietari terrieri; è una Chiesa più antica che raccoglie i convertiti da san Tommaso. I latini sono soprattutto pescatori, convertiti da san Francesco Saverio. Così si dice che qualcuno del rito malabarese non può sposarsi con un partner di rito latino; in questo modo si veste di rito una divisione che è di casta. La divisione è anche geografica: i latini sono soprattutto lungo la costa, i malabaresi all’interno. Nelle grandi città convivono. Ma se io mostro loro queste divisioni, le negano; negano il legame con le caste.
Una teologia indiana
– La teologia in India è differente? Quali sono i suoi tratti specifici?
La teologia in India ha una sua particolarità a livello della riflessione, dell’impostazione. Noi collochiamo la teologia nel contesto. E il contesto è diverso da quello di san Tommaso. Il metodo è differente. La nostra teologia prende le mosse da riferimenti alla sociologia. Si va nei villaggi, tra cristiani e non cristiani, per ascoltare la loro esperienza di Dio e prendendo parte alle discussioni. A partire da questo ascolto delle esperienze, il pastore e il teologo sono chiamati a riflettere sulla Scrittura e sulla Tradizione. È una teologia contestuale che si lascia condizionare dall’esperienza. Sono soprattutto le congregazioni religiose ad agire così, perché godono di una libertà maggiore. È più difficile per la teologia nei seminari, perché il controllo è maggiore.
Già nel 1974 la Compagnia di Gesù aveva attivato un gruppo per lo studio dell’inculturazione. Da questo sono nati i centri regionali di teologia. I nostri giovani fanno due anni di teologia a Chennai, dove apprendono il metodo contestuale; il terzo anno vanno a Delhi, dove studiano in inglese. Il quarto anno tornano a Chennai per una formazione pastorale e per il diaconato. All’inizio vi erano 7 o 8 centri regionali nel Paese; ora ne sono rimasti solo 3, non perché non funzioni la teologia contestuale, ma perché non ci sono sufficienti candidati per costituire un centro. I gesuiti hanno cominciato questo e altre congregazioni stanno cercando di replicare il metodo, con qualche adattamento. Ho sentito qualche mese fa che ora il Vaticano sta opponendo difficoltà. Le resistenze vengono dunque da Roma, dalla Congregazione per il clero e dalla Congregazione per l’educazione cattolica.
– Come è stata recepita Amoris lætitia in India?
Non si parla molto di AL. Vi sono alcuni scritti di alcuni teologi, ma sono interventi sporadici, isolati. Non conosco scritti in proposito. I problemi trattati non sono sentiti emergenti in India. Divorzi ce ne sono, ma non se ne parla molto e non è un problema per i cristiani.
La vicenda personale
– Le è stato attribuito il consenso a «rivedere alcune posizioni alla luce del dialogo» con la Congregazione per la dottrina delle fede (fr. Edward Mudavassery). I problemi iniziati per lei prima di papa Francesco si possono considerare superati?
Direi di sì. L’ultima volta sono andato a Roma per incontrare il card. Müller tre anni fa. Prima c’era stato un processo condotto dal card. Ratzinger che era durato tre anni. In alcuni passaggi sono stato invitato a Roma, ma ho rifiutato perché p. Kolvenbach, in una lettera inviata tramite il suo assistente, diceva che la loro decisione era presa e l’incontro sarebbe stato soltanto formale.
La Congregazione ha invitato il padre generale a due incontri dei consultori. In quelle occasioni non sarebbe stato concesso dire niente, soltanto ascoltare. Mi è stato poi detto che era stato bene non fossi andato.
Tre mesi dopo hanno invitato un teologo indiano che, dopo due riunioni dei consultori, ha ottenuto di poter intervenire per dieci minuti. Ha presentato due punti: primo, nel vostro gruppo ci sono 20 consultori che discutono di un teologo indiano, ma tra di voi non c’è nemmeno un teologo asiatico né africano; siete tutti europei o americani, non potete conoscere la nostra situazione. Secondo, perché non potete sostenere questo dialogo attraverso vescovi indiani? Era l’ultimo anno di cardinalato e Ratzinger ha accettato la proposta. Ha inviato un dossier in India nel marzo 2005 e, ad aprile, è stato eletto papa.
A questo punto ho incontrato un gruppo di due vescovi e due teologi in India, ho scritto un articolo approvato da questo gruppo e l’ho inviato in Vaticano.
Un’altra volta ho incontrato il card. Müller a proposito del mio libro Beyond dialogue (Asian Trading Corporation, 2008) sul dialogo interreligioso. Qualcuno avrebbe dovuto mandare questo libro in Vaticano dove avrebbero voluto incontrarmi. Questa volta il padre generale, Adolfo Nicolás, non mi ha chiesto se volessi venire o no. C’era in programma di vistare Roma e altri Paesi. Mi hanno chiesto cosa volessi fare a Roma, così mi hanno proposto un incontro con il cardinale e, a questo punto, non potevo sottrarmi.
Sono andato dal card. Müller. Con me c’era il padre generale. Dall’altra parte c’erano i cardinali Müller e Ladaria e un giovane spagnolo che parlava inglese, ma che io non conoscevo. Ha parlato mezz’ora; io ho risposto per venti minuti e il padre generale per cinque. Non volevo entrare in conflitto con loro, ma dialogare e venirci incontro allo scopo di preservare la mia libertà. Lottare mi avrebbe esposto al rischio che potessero bloccare tutto. Ho accettato di prendere in considerazione tutti i punti sollevati da Roma. Tornato in India, ho fatto un articolo che ho inviato a Roma e che è stato accettato.
Interessante quello che è successo nell’occasione. Il p. Nicolás aveva informato il papa che si sarebbe tenuto questo incontro. La sera dopo l’incontro il padre generale ha inviato una nota al papa, attraverso il segretario personale. Avevo fatto richiesta di essere presente il giorno dopo alla messa del papa. Io mi sono presentato vestito dei paramenti. Il papa è entrato per indossare i paramenti. Io ero sulla porta. Mi avvicina e mi chiede: «Come è andata ieri sera?». Io ho risposto: «È andata bene». Mi dice poi in inglese : «You have met the lion in his den» («Hai incontrato il leone nella sua tana»).[1]
Tre o quattro mesi dopo, quindici teologi della Gregoriana hanno fatto un libro sull’Evangelii gaudium. Il papa li ha invitati per un incontro. Ciascuno di loro aveva due o tre minuti per presentare il proprio contributo per poi salutare personalmente il papa. Tra questi c’era un indiano. A questi il papa ha detto «Tu sei dell’India? Conosci Amaladoss? Lui è un buon teologo!». Così adesso mi sento il sostegno del papa. Tre mesi fa il mio collaboratore è venuto a Roma e anche lui è andato alla messa in Santa Marta. Incontrando il papa per una brevissima conversazione di due minuti, gli ha portato i miei saluti. E il papa gli ha risposto «Porta i miei saluti al p. Amaladoss».
– Se dovesse fare un parallelo fra la sua vicenda e quella di p. Dupuis, cosa vi avvicina e cosa vi allontana?
Sono d’accordo al 100% con p. Dupuis. Il Vaticano non l’ha condannato. Ha emesso solo una notifica. Io scrivo le stesse cose, la differenza sta nel fatto che è più importante tenere sotto controllo uno che è alla Gregoriana piuttosto di uno che sta in India. Credo che p. Dupuis non sia stato trattato bene. P. Dupuis ha sofferto molto. Si sentiva un buon teologo, e lo era. Questa critica l’ha preso d’improvviso e l’ha shoccato.
Io ero lontano, in India, e avevo motivo per dire “no” a un incontro. Inoltre, siccome sono stato consigliere generale, mi imbattevo ogni anno o due in qualcuno che finiva sotto inchiesta. Così ho potuto conoscere le dinamiche di un confronto con la Congregazione. Ho sempre tenuto una posizione dialogica. Sapevo che non vale la pena lottare con loro. In termini semplicistici, non sono mai stato di centrodestra, né di centro, ma piuttosto di centrosinistra. Non sono un estremista, non si tratta di accusare e condannare; si tratta di dialogare.
– Ha trovato un clima diverso alla Congregazione dalla elezione di papa Francesco?
C’è una differenza. Da due o tre anni in qua si sente parlare molto meno di processi.
La Compagnia di Gesù
– La Compagnia di Gesù in India ha un profilo comune e orientamenti condivisi a livello nazionale?
C’è una commissione nazionale per i diversi apostolati – migrazione, apostolato sociale, pastorale. I segretari per tutta l’India si incontrano ogni anno per stilare i piani di intervento. C’è una diversità più evidente tra Sud e Nord, soprattutto Centro-Nord e Nord-Est, dove sono presenti migranti dei Paesi vicini. Qui c’è anche un’evangelizzazione di tipo missionario che non è possibile altrove. Chi vuole fare il “missionario” può andare nel Nord-Est, dove sono possibili anche certe forme di missione.
– Quali sono le scelte prioritarie della Compagnia di Gesù in India?
Più che scelte prioritarie, ci sono delle attenzioni privilegiate. Ci sono gruppi ai quali riserviamo più attenzione. I dalit nel Sud e i tribali nel Nord. La mia Provincia, ad esempio, è molto impegnata con i dalit. Anche tra i gesuiti ci sono molti dalit. Dieci anni fa abbiamo fondato due collegi universitari e due scuole nelle regioni ove ci sono molti dalit. Abbiamo collegi di tradizione centenaria. Il collegio di Chennai ha 80 anni. I nuovi collegi sorgono prevalentemente nelle regioni ove ci sono i dalit.
Due anni fa due gesuiti a Chennai hanno dato vita a un centro per i migranti interni, perché Chennai è una grande città che raccoglie molti migranti dal Nord-Est in cerca di lavoro. Nei ristoranti il personale di servizio è quasi tutto del Nord Est. I gesuiti si occupano di dare loro aiuto concreto e cura pastorale.
Un altro gesuita da due annui si occupa dei migranti indiani nel Medio Oriente, fenomeno molto forte. È facile che un giovane emigri, ma i rapporti con la famiglia sono a rischio.
È un servizio pastorale anche quello di coltivare questi legami. Questi indirizzi, la scelta per la giustizia sociale, sono condivisi in tutta l’India e anche con la congregazione.
– Lavorate con i rifugiati?
In alcune regioni. Nella mia Provincia lavoriamo con i rifugiati dello Sri Lanka, non perché siano molti ma perché parlano la stessa lingua. Nel Nord ci sono i nepali che sono usciti dal Bhutan. Non ci sono più tanti rifugiati dal Pakistan. Ci sono gesuiti che lavorano con loro. A livello nazionale partecipiamo alla rete del Jesuit Refugee Service. C’è un centro a Delhi per il Sud-Est asiatico. C’è meno pressione ora dallo Sri Lanka. Sono di più i migranti interni. C’è molta migrazione dall’India verso altri Paesi, ma si tratta di una migrazione soprattutto di scienziati. Diversa la situazione in Medio Oriente, dove molti migrano per lavoro. È ancora forte il fenomeno delle “vedove di Dubai”.[2] Molti di questi migranti sono musulmani.
Questioni politiche
– Il primo ministro Narendra Modi è una figura discussa. Qualcuno lo definisce un hindu quasi estremista, che manipola la religione in ordine al consenso e che non è affidabile in ordine alla libertà religiosa.
È così. Ma è un politico, perciò i suoi interventi non saranno mai troppo evidenti. Troverà altri che adottano le posizioni estreme, senza che lui ne risulti il mandante o l’ispiratore. Lui potrà sempre prendere le distanze. I suoi ministri intervengono più spesso e apertamente, ma altrettanto spesso devono smentire o ritirare. Lui mantiene il riserbo.
– Che rapporto c’è a livello popolare fra India e Cina?
A livello popolare non è questione sentita. Soltanto vediamo che quando andiamo al mercato, gli articoli vengono in gran parte dalla Cina e sono più economici. A livello popolare si percepisce di non essere molto amici, ma si vuole vivere insieme, senza fomentare le tensioni. Nel Nord c’è più paura della Cina, perché le tensioni ai confini fanno notizia sui giornali.
Il progetto della nuova Via della Seta ha irritato il governo indiano, che vorrebbe proporre un’alternativa. Anche perché il tracciato propone il passaggio nel Kashmir, territorio conteso fra India e Pakistan. La Cina e gli altri sanno bene che l’India non approva, ma non calcano sul tema nei rapporti diplomatici.
– Qual è la situazione attuale nel Tamil Nadu?
Il Tamil Nadu soffre la mancanza di un governo forte. Il partito al potere è diviso e cerca di sopravvivere. Il partito hindu non ha base popolare. In una regione del Tamil Nadu, dai 400.000 elettori hanno ricevuto solo 2.000 voti. Cerca di rafforzarsi in Tamil Nadu con l’aiuto di altri partiti. Il partito centrale (il BJP, Bharatiya Janata Party) cerca di mostrare interesse per il Tamil Nadu per acquisire più forza nella regione. Ma la gente del Tamil Nadu è di indole tollerante e non si presta a progetti fondamentalisti.
[1] Detto inglese per indicare chi affronta un grande rischio.
[2] Donne che vivono come se fossero vedove, perché il marito è migrato per lavoro negli Emirati Arabi.