Bose: Basilio il Grande, maestro di vita cristiana

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Dopo aver dedicato un convegno a s. Isacco di Ninive o il Siro (nel 2022) e uno ai Detti dei Padri e delle Madri del deserto (nel 2023), quest’anno la Comunità di Bose ha dedicato la 30ª edizione a una delle figure più importanti della storia del cristianesimo, che è anche uno dei principali santi padri della tradizione monastica orientale e occidentale, particolarmente caro anche alla nostra comunità fin dagli inizi: san Basilio il Grande (330-379), vescovo di Cesarea in Cappadocia.

Siamo giunti alla conclusione di questo 30° Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa che abbiamo voluto dedicare a Basilio di Cesarea, un padre della Chiesa che è particolarmente caro a noi sorelle e fratelli della Comunità di Bose perché lo riconosciamo tra gli ispiratori della fondazione della nostra comunità.

Già nel 1999 avevamo organizzato un convegno dedicato a questa grande figura del cristianesimo antico; un gruppo di cristiani appartenenti a Chiese diverse – cattolici, ortodossi, riformati – si erano incontrati insieme ad alcuni fratelli e ad alcune sorelle della comunità a Ürgüp, nel cuore della Cappadocia, terra in cui Basilio visse e operò, per riflettere, con l’aiuto di alcuni studiosi, sul tema “Basilio tra oriente e occidente”.

Basilio e il suo tempo

Nel convegno di quest’anno abbiamo scelto di ritornare a parlare di questo grande padre della Chiesa, certamente una delle figure più importanti della storia del cristianesimo antico.

Nei giorni scorsi, dopo aver presentato l’itinerario biografico all’interno del contesto storico ed ecclesiale in cui questo santo ha vissuto, i lavori del convegno si sono focalizzati in particolare sul suo insegnamento spirituale, sul suo impegno ecclesiale che l’ha visto coinvolto in particolare nella ricerca della comunione fra le Chiese e sulla sua attività in ambito sociale, che lo ha posto a diretto confronto con le autorità politiche.

Quale è l’eredità che lascia a noi oggi? Quali ispirazioni possiamo trarre dai suoi insegnamenti noi cristiani che viviamo tanti secoli dopo di lui, in condizioni sociali ed ecclesiali indubbiamente molto diverse?

Ripercorriamo brevemente il cammino di queste nostre giornate di intenso studio e confronto tra cristiani provenienti da Chiese diverse.

La sua nutritissima corrispondenza, le testimonianze dell’amico Gregorio di Nazianzo, del fratello Gregorio, in particolare, ci permettono di conoscere la figura di Basilio più di quanto non accada per qualsiasi altro padre della Chiesa antica, ci ha ricordato John Behr.

A differenza di Atanasio, che trascorse metà della sua vita in esilio in un tempo in cui la Chiesa era perseguitata, Basilio vive in un momento cruciale della storia: non è più la stagione dei martiri, i credenti in Gesù Cristo non sono più apertamente perseguitati, ora sono tollerati a condizione che si adeguino al volere dei dominanti di turno. Tale mutamento non poteva non interrogare i cristiani, per lo meno quelli che volevano vivere realmente il vangelo senza compromessi.

Sono domande che anche Basilio si pone, fin dalla giovinezza. Ce ne danno testimonianza i suoi familiari e i suoi amici, anche se dobbiamo tener conto della somma di mediazioni che ci distanziano da lui e dalla sua epoca e dei particolari generi letterari utilizzati da chi ce ne parla, come giustamente ci ha fatto notare suor Chiara Curzel.

Il fratello Gregorio parla di Basilio come di un «padre», «grande tra i santi» (Gregorio di Nissa, Vita di Macrina 14); l’amico Gregorio di Nazianzo lo definisce «occhio del mondo», «squillo di tromba» (L. 46), ma non tace sugli aspetti «spigolosi» del suo carattere.

Dopo un tempo idilliaco di profonda amicizia e consonanza, Gregorio si sentirà “tradito” dall’amico Basilio (Or. 43,20,229-230) che lo lascia solo ad Atene per inseguire i suoi progetti. Tradito, ingannato, sfruttato, come nel momento in cui Basilio gli fa credere di essere gravemente ammalato per indurlo a raggiungere Cesarea per appoggiare la sua elezione a vescovo o come quando, a sua insaputa, Gregorio sarà nominato vescovo di un paesino sperduto, in cui avrebbe potuto entrare soltanto con la forza; amareggiato scriverà a Basilio: «Avremo questo solo vantaggio dalla tua amicizia: non credere agli amici» (L. 48,10). Incomprensioni, delusioni reciproche sono soltanto un aspetto di quella profonda relazione di amicizia e di comunione fraterna dietro al Signore.

Ma Basilio, uomo indubbiamente dalle grandi doti, lascia che il suo carattere – forte, autoritario, poco rispettoso di chi è gli è vicino – sia plasmato e lavorato dalla Parola di Dio e dalla correzione di quanti lo amano. Sarà Gregorio a convincerlo a cercare la pace con il vescovo di Cesarea deponendo la sua irritazione e l’orgoglio ferito.

Basilio e il monachesimo

Ma come interpretare la sua eredità spirituale? Questione complessa, che ha suscitato in passato e ancor oggi dibattiti e interpretazioni divergenti.

Chi è l’autore di quella raccolta di Domande-Risposte a cui per semplicità si darà il nome di Regole e che, insieme ad altri scritti, compongono il cosiddetto Asceticon di Basilio?

Già nel V secolo lo storico della Chiesa Sozomeno riporta l’opinione, ripresa da Arnaud Perrot nella sua tesi del 2016, che in realtà l’Asceticon sia opera di Eustazio di Sebaste (HE III,14, PG 67,1077c-1080A). Del resto, l’intera famiglia di Basilio ammirava Eustazio e ne seguiva gli insegnamenti spirituali. E Basilio, anche quando si troverà costretto a sconfessare quello che riteneva il suo maestro, a motivo delle sue deviazioni dottrinali, confesserà di essergli debitore (cf. L. 223).

Pur ammettendo la paternità basiliana dell’Asceticon, sulla scia dei grandi studiosi di Basilio, si può parlare di “monachesimo” a proposito delle comunità della Cappadocia? Come interpretare il progetto di vita che le Domande-Risposte propongono?

Non troviamo mai in questi testi il termine «monaco», o l’aggettivo «monastico» (se non una volta in senso negativo nella Regola lunga 3: «Chi non sa che l’uomo è un animale mite e non solitario, monastikós); come ha detto e scritto padre Jean Gribomont, grande studioso di Basilio: «Vi è qualcosa di abusivo a dissertare sulla teologia basiliana della vita monastica» (Théologie de la vie monastique, p. 99).

La sola regola per l’Asceticon è la Scrittura; è preferibile parlare di «vita secondo l’evangelo».

Forse Basilio rivitalizza semplicemente il termine neotestamentario adelphotés, «fraternità» (cf. 1Pt 2,17; 5,9) che, nel corso del tempo, era stato soggetto a usura fino a subire nel III secolo una forte limitazione semantica in base alla quale “fratello” veniva a indicare non più il semplice cristiano, ma l’ecclesiastico, il presbitero. Basilio rivitalizza il termine, lo rifonda biblicamente, lo applica a ogni cristiano.

Da parte mia, eviterei di parlare di «radicalismo» cristiano in Basilio; il vangelo è di per sé radicale, non c’è una modalità più radicale o un’altra meno radicale di viverlo. È comunque «follia», la follia della croce (cf. 1Cor 1,18.21.23).

È problematico, del resto, ricostruire la genesi dell’Asceticon basiliano – come ha evidenziato Benoît Gain – e bisogna guardarsi dalla pretesa di individuare troppo presto nella vita di Basilio le linee di forza della sua dottrina spirituale.

Il suo cammino è risultato dell’influenza del contesto familiare che, com’è noto, tramite Gregorio il Taumaturgo risentiva dell’influenza di Origene e della sua spiritualità; ma, ancora, Basilio è segnato dai suoi studi, dai viaggi, dal tempo trascorso ad Annisa nel Ponto con Gregorio e a fianco della sorella Macrina – anche se non la nomina mai! – e della madre Emmelia. Non solo: il suo progetto di vita comunitaria nasce in un contesto ecclesiale ben preciso: Basilio “impara” dagli armeni, “impara” da Eustazio, “impara” da altri vescovi che, prima di lui, avevano aperto case di accoglienza per i poveri e i bisognosi.

Come vivere alla presenza di Dio

Una seconda tappa del nostro convegno si è soffermata sui fondamenti della vita cristiana nelle comunità della Cappadocia. L’obbedienza alla parola nasce da un impulso interno all’essere umano, «la vita di umanizzazione è vita di deificazione», ci ha ricordato il vescovo Irenei di Londra. Il seme della Parola insito nel cuore dell’essere umano cresce alla «scuola dei comandamenti». Le nostre Chiese sono ancora “scuole dei comandamenti”?

Il fine della vocazione cristiana – ci ha ricordato Norman Russell, riprendendo l’omelia di Basilio sul salmo 48 – è «il nostro ritorno alla somiglianza con Dio» (Om. sul salmo 48,1). Dopo che il battesimo ci ha liberati dall’uomo vecchio «come il ferro immerso nel fuoco» (Il battesimo 1541B), il cristiano diventa malleabile, si lascia lavorare dallo Spirito, un lavoro che ha inizio in questa vita, su questa terra, e che si compirà nel Regno, ma già ora la luce divina si riflette su uomini e donne di Dio che hanno acconsentito all’opera dello Spirito, hanno collaborato, e lasciano trasparire un raggio di luce per la gioia e la consolazione dei fratelli e delle sorelle.

P. Agapie Corbu ci ha descritto gli elementi fondamentali per vivere alla presenza del Signore: non-distrazione, memoria incessante, rendimento di grazie, elementi che hanno caratterizzato la vita di Basilio negli anni di giovinezza, prima ancora di ricevere il battesimo, negli anni in cui ha vissuto la vita comune ad Annisa, nell’ultima fase della sua vita, quando ha esercitato il ministero episcopale a Cesarea di Cappadocia.

Il primo stadio è caratterizzato dalla vigilanza e dalla conoscenza di sé: «Invece di figurarti ciò che non esiste, cerca di trarre profitto da ciò che esiste», ammonisce nell’Omelia «Veglia su di te» (c. 5); e invita a conoscere sé stessi e a imparare ad aderire alla realtà.

Per caratterizzare la seconda fase – quella ascetica – p. Agapie ha citato le Costituzioni ascetiche, opera di Basilio stesso o forse redatte nel solco della tradizione basiliana; attraverso la meditazione o anche la memorizzazione delle Scritture, il cristiano giunge a fare del proprio corpo «il suo monastero naturale» o, come è detto nella Lettera 2, giunge ad avere Dio stabilmente nella mente. Solo allora diventiamo «tempio dello Spirito, quando la mente è saldamente inchiodata a Lui» (L. 2).

I frutti della vigilanza, la non-distrazione, l’incessante memoria di Dio hanno una ricaduta sulla comunità in cui si vive, su tutta la Chiesa – si tratta del terzo stadio sottolineato da p. Agapie –; sono frutti di comunione, di sinergia con lo Spirito per contrastare le passioni, soprattutto l’amore per il potere, che è causa di divisione.

L’archimandrita Filaret ci ha riproposto la questione del rapporto tra solitudine e comunità.

Sappiamo bene, soprattutto noi che viviamo la vita monastica cenobitica, che non c’è vita comunitaria senza la dimensione della solitudine. Se Basilio nella famosissima Regola lunga 7 denuncia gli inconvenienti della vita solitaria, si erge in realtà contro una forma di eremitismo estremo («non ha di mira eremiti concreti», annota Filaret).

Se è vero che il fine della vita comunitaria è moltiplicare l’amore che è deposto come germe in noi fin dal nostro concepimento, la Regola lunga 6 riporta un elogio della vita «in disparte». Del resto, come già aveva ricordato père Michel van Parys in un convegno qui a Bose dedicato al tema Comunione e solitudine (Bose 8-10 settembre 2010), Gregorio di Nazianzo, nel panegirico del suo amico, menziona degli eremi vicino alle case dei cenobiti costruite da Basilio (Or. 43,52, pp. 1085-1087).

Come presiedere una comunità

Madre Philotei ci ha delineato quelli che dovrebbero essere i caratteri propri di chi svolge il ministero di presiedere a una comunità: mitezza dei modi, umiltà, misericordia, capacità di discernimento, vigilanza, per essere veramente “occhio” del corpo comunitario pronto a richiamare all’obbedienza alla Parola di Dio; ma, soprattutto, il priore/la priora deve diventare un esempio luminoso, testimonianza della presenza di Cristo, che insegna più con la sua vita che con le parole. Non è un maestro o un direttore spirituale, ma un padre, una madre che genera alla vita in Cristo.

La comunità vive nel mondo, in questo mondo, in un preciso contesto storico e sociale. Basilio ricorre alla parola (pensiamo alle omelie indirizzate ai ricchi) e a gesti concreti nei confronti degli ultimi del suo tempo: malati, orfani, poveri.

Di questo ci ha parlato suor Marie Ricard. Basilio segue l’esempio di altri che già avevano organizzato nelle loro Chiese ospizi per i poveri. Lui stesso – ci racconta Gregorio di Nazianzo –, all’epoca della grave carestia che colpì la Cappadocia, si cinse di un grembiule e si mise a distribuire la minestra ai poveri.

Ma il servizio sociale, se così lo possiamo chiamare, non impedisce di vivere nel ricordo di Dio, nell’obbedienza alla Parola, nella condivisione di ogni bene materiale e spirituale con i fratelli e le sorelle. La vita comune non è solo un mezzo per poter “fare di più”, servire di più; la vita comune è in sé stessa segno, segno della comunione che vi è in Dio, dono che certamente deve ancora manifestarsi in pienezza, ma realtà che ci precede.

Di fronte alle autorità di questo mondo – ci ha mostrato padre Nicu Dumitraşcu – Basilio vive la libertà di chi non ha niente da perdere perché già ha lasciato tutto per seguire il Signore. Non si lascia intimorire dal potere umano, perché vive nel timore di Dio e, sotto la guida dello Spirito, trova il coraggio della parresia, di una parola vera, autentica, franca.

Basilio e la comunione nella Chiesa

Padre Amphilochios si è soffermato sul tema dell’unità e della comunione tra le Chiese, chiedendosi «come può l’attività ecumenica di Basilio il Grande illuminare il problema della divisione e il cammino verso l’unità e la piena comunione eucaristica», e a questo proposito ha individuato nell’opera di Basilio alcuni presupposti per ritrovare l’unità tra cristiani.

Al primo posto ha ricordato l’accordo nella fede ortodossa, raggiunto talora anche tramite la pratica della cosiddetta oikonomia, ovvero quell’attitudine conciliante, quella possibilità di venirsi incontro nella formulazione della fede quando ciò non compromette la sostanza del dogma, allo scopo di garantire e assicurare l’unità; mi sembrano significativi a questo proposito alcuni passi delle Lettere, come la Lettera 103: «L’unità potrebbe essere raggiunta se solo noi fossimo disposti ad adattarci alla condizione dei più deboli in tutto ciò per cui non corriamo alcun rischio per le nostre anime», o anche la 92: «Alcuni hanno addirittura escogitato una sedicente difesa dell’ortodossia come arma da guerra contro gli altri, nascondendovi i propri odi e fingendo di lottare per la pietà!».

Un secondo presupposto è costituito dalla sinodalità (o collegialità) come strumento per risolvere le situazioni di divisione e costruire un consenso, sia tra i vescovi delle varie Chiese locali, sia all’interno di ogni Chiesa locale tra i vari membri del corpo ecclesiale, chiamati a recepire e a confermare le decisioni assunte dai vescovi nell’esercizio delle loro funzioni.

Infine, come terzo presupposto per l’unità, raccomandato e praticato da Basilio, è stato ricordato il dialogo della carità, cioè gli incontri personali, le visite alle altre Chiese.

A questo proposito, vorrei ricordare la Lettera 266 a Pietro vescovo di Alessandria, (che non è stata citata ma) che mi sembra estremamente significativa: «Se ti sembra bene, lasciamo stare il passato e diamo un inizio pacifico al futuro. Tutti infatti abbiamo bisogno gli uni degli altri secondo la comunione dei membri» [soprattutto ora che le Chiese d’oriente hanno gli occhi fissi su di voi: prenderanno occasione dalla vostra concordia per fortificarsi e consolidarsi, ma, se si accorgeranno che vi sospettate gli uni gli altri in qualcosa, perderanno vigore e si scoraggeranno]».

Basilio, come essere Chiesa

La relazione finale del vescovo Maxim ha cercato di delineare l’apporto di Basilio per le Chiese e il mondo di oggi.

Certamente, le sfide che noi dobbiamo affrontare sono diverse rispetto a quelle del IV secolo, ma la sapienza e il discernimento di questo grande padre nell’accostare i vari campi del sapere, incluse le scienze naturali e umane, la sua insistenza sulla dimensione comunitaria come antidoto all’individualismo e a una vita centrata sul proprio io hanno ancora molto da insegnarci.

Il vescovo Maxim ha citato la lettera 114 di Basilio: «È necessario ridire a quelli che sono figli della pace quanto sia grande il dono della pace?». Il cristiano non può non essere «un artigiano di pace» nel mondo e nella Chiesa, pace che va costruita attraverso il confronto, il dialogo, la convocazione di concili, la disponibilità a non arroccarsi dietro a espressioni ritenute sacre. Abbiamo soltanto parole umane per parlare di Dio e tutte le nostre parole sono inadeguate.

Certamente questo non significa svendere la verità, scendere a compromessi, ma cercare umilmente di ricorrere a un linguaggio che anche gli altri possano capire e occorre soprattutto che la teologia non diventi «tecnologia», confinata in ambito accademico, ma che sia radicata nell’esperienza umana e ne affronti le questioni fondamentali.

Basilio è maestro ancora come riformatore sociale; ci ricorda la priorità dell’amore sull’aderenza a codici morali, ed è maestro nella creatività che ha saputo mostrare in ambito liturgico.

L’eredità di Basilio

Ma in quasi tutte le relazioni che abbiamo ascoltato c’è sempre stata un’apertura a ciò che viviamo o che potremmo vivere noi cristiani in questo nostro tempo.

L’obbedienza alla Parola, l’imitazione di Cristo e la vita nello Spirito, la custodia del ricordo di Dio e la vigilanza sono tutti elementi della vita spirituale per ogni credente in ogni situazione e in ogni tempo.

Ma anche sul servizio di chi presiede madre Philotei ci ha rinviato ad esempi di padri e madri spirituali più vicini a noi nel tempo o addirittura contemporanei; e suor Marie Ricard, proprio contestualizzando l’attività di servizio dei poveri di Basilio in un’epoca e in un contesto ben preciso, ci ha indirettamente sollecitato a chiederci chi sono i poveri oggi nel contesto in cui viviamo, e soprattutto, ci ha ricordato che il segno primo dell’amore di Dio che possiamo manifestare al mondo è proprio l’amore all’interno della vita comune.

Inutile dire quanto sia attuale parlare dell’impegno per l’unità e la comunione tra le Chiese in Basilio e quanto siano attuali le sue indicazioni. Forse il fatto stesso che cristiani appartenenti a confessioni diverse abbiano vissuto insieme in questi giorni, condividendo la preghiera, l’ascolto, il confronto, è segno dell’interesse per questo tema.

E anche i lavori di gruppi che si sono concentrati su temi diversi hanno permesso un dialogo e un’attualizzazione di quanto abbiamo potuto ascoltare.

Vorrei concludere ricordando il titolo che abbiamo voluto dare a questo nostro convegno. «Basilio il Grande, maestro di vita cristiana». Perché Basilio è stato definito «il Grande»? Per i suoi scritti teologici? Per la saldezza che ha mostrato nell’esercitare il suo ministero episcopale? Per le numerose comunità che ha guidato con sapienza? Per gli innumerevoli rapporti che ha intrattenuto con le Chiese? Forse anche per questo, ma, in realtà, credo che Basilio sia grande perché si è fatto piccolo dinanzi alla Parola, perché si è lasciato lavorare dalla Parola, perché ha vissuto «il proprio del cristiano: la fede operante mediante l’amore (Gal 5,6)» (Regole morali 80,22).

Basilio è stato un uomo di comunione; anche laddove ha rasentato la rottura con gli amici più cari, ha saputo andare oltre i malintesi, le frizioni, le opposizioni di temperamenti profondamente diversi per cercare sempre ciò che unisce, perché l’amore, l’amicizia, la fraternità, la comunione trionfassero sempre su ogni tentazione di lacerazione, di divisione, di opposizione.

«Ti prego, scaccia dal tuo animo la convinzione di non aver bisogno della comunione con alcun altro. Non è infatti degno di chi cammina secondo carità né di chi compie il comando del Signore separarsi dalla comunione con i fratelli» (L. 65, Lettres I, p. 156). Queste parole indirizzate ad Atarbio, vescovo di Neo-Cesarea nel Ponto, esprimono la convinzione profonda che ha caratterizzato la sua vita di Basilio.

Consapevole che la sýmpnoia, il “respiro all’unisono” è richiesto dal vangelo, ha cercato con ogni mezzo di lavorare per la pace: la pace con il vescovo di Cesarea, Dianio, che, per motivi di gelosia, l’aveva costretto a lasciare la città; con Eustazio, l’antico maestro sedotto dall’eresia; con i vescovi suffraganei della Cappadocia; con le Chiese dell’Asia minore; con le Chiese di occidente … Ha cercato la comunione e la pace, senza facili illusioni, aderendo alla realtà e alla verità.

Di risultati non ne vedrà nella vita terrena; se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12,24). Basilio è un chicco di grano che deve marcire sotto terra. Ogni tanto, a tratti nel corso della storia, Dio ha concesso di vedere momenti di comunione vera tra i cristiani, qua e là nella Chiesa, anticipazione di quella pace e di quella comunione piena che ci saranno soltanto nel regno quando si compirà la preghiera di Cristo: La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, affinché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità (Gv 17,22-23).

«Discepolo del Pacifico», così Gregorio definirà l’amico nell’elogio funebre. E credo di esprimere il desiderio di tutti noi al termine di questi giorni: che possiamo in qualche modo appropriarci dell’eredità spirituale di Basilio, farla nostra, imparare anche a noi a lasciarci plasmare dalla Parola, fino a diventare discepoli del Pacifico, del Signore Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11,29).

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