A due anni dalla sua scomparsa (19 febbraio 2022), la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna ha ricordato don Carlo Molari in un evento in cui il suo pensiero è stato presentato sulla scorta di alcuni volumi pubblicati recentemente per i tipi di Gabrielli editori di Verona: Il cammino spirituale del cristiano. La sequela di Cristo nel nuovo orizzonte planetario (2020), Quando Dio viene nasce un uomo. Con lo sguardo fisso su Gesù: i Vangeli del Natale (2023), Amare fino a morirne. Con lo sguardo fisso su Gesù: i Vangeli della Pasqua (2024).
Mentre gli ultimi due volumi sono una raccolta di omelie, il primo presenta in modo sistematico alcune tematiche fondamentali del suo insegnamento. In queste righe presenterò brevemente alcuni dei contenuti più propriamente teologici, in particolare quelli che si trovano nella «Parte seconda»: Nuovi orizzonti interpretativi.[1]
La conversione teologica
Ho scelto di riproporli alla luce di una chiave interpretativa che mi viene suggerita non tanto da un’idea quanto piuttosto da un’immagine impressa nella mia mente: la ricchissima biblioteca personale di don Carlo, donata alla Abbazia Benedettina del Monte di Cesena, e ivi accolta come Fondo all’interno della Biblioteca monastica, con lo scopo di renderla in futuro fruibile per lo studio e la ricerca.
Avendo ricevuto l’incarico di collaborare a questo progetto, mentre iniziavo a pensare come ordinare una tale vastità e varietà di volumi, il mio interesse è caduto sui libri della formazione giovanile di don Carlo presso gli atenei romani, che andavano a riempire un’ampia scaffalatura. Ho pensato che proprio formandosi su quei manuali di neoscolastica don Carlo era divenuto un brillante e promettente studioso, un vero professionista della Teologia Romana del Novecento: la teologia che alimentava il magistero pontificio e che forniva anche i criteri della retta dottrina cattolica, che il Sant’Uffizio aveva il compito di difendere.
Quei libri avevano permesso a don Carlo di essere ritenuto particolarmente adatto a lavorare come «aiutante di studio» del Sant’Uffizio, allo scopo di contrastare i cosiddetti novatores, vale a dire coloro che facevano entrare i principi del pensiero moderno dentro la teologia e, con essi pericolosamente, anche i germi del razionalismo, del naturalismo e in definitiva dell’ateismo dentro la chiesa.
A partire da quei libri ho trovato una chiave interpretativa con cui leggere le pagine teologiche di don Carlo: esse testimoniano uno stile teologico che proviene da un confronto con l’ateismo contemporaneo, originariamente mediato dall’incarico al Sant’Ufficio. Don Carlo fece la scelta di calarsi in quel confronto senza rispondere per via di dimostrazioni o formulazioni teologiche, ma ponendosi la questione radicale di Dio e del suo rapporto col mondo. Egli scelse di compiere una propria conversione teologica: essere teologo non citando i manuali della teologia romana, ma assumendo il compito di purificare l’immagine di Dio.
Da questa conversione fondamentale si sono dipanate nel tempo le sue diverse conversioni teologiche[2], realizzate sempre calandosi dentro gli interrogativi che animano la cultura e il pensiero contemporaneo. Un’importanza del tutto particolare ebbero per lui – ancora una volta grazie alla involontaria mediazione del Sant’Uffizio, che nel 1962 gli affidò un fascicolo su Teilhard de Chardin – le questioni su Dio poste dal sapere delle scienze naturali, specialmente dall’evoluzionismo.
Di fronte ad esse, per don Carlo si trattava di ripensare il discorso su Dio: affermare Dio senza negare l’essere umano, affermare l’azione di Dio senza congelare l’azione delle creature, elevare Dio senza abbassare le creature. L’immagine purificata di Dio doveva essere quella di un Dio che quanto più è Dio, tanto più eleva l’autonomia delle sue creature.
Grazie a questa conversione teologica si poteva togliere il pungiglione alle tante contrapposizioni di cui si nutriva l’ateismo e rendere obsoleta tanta apologia che di quelle contrapposizioni continuava ad alimentarsi. In primis poteva essere proprio la contrapposizione tra fede e scienza a sciogliersi come neve al sole, una volta che l’immagine di Dio veniva purificata.
Immagine del Dio creatore e paradigma evolutivo
I testi raccolti nella «Parte seconda» del volume Il cammino spirituale del cristiano riguardano in particolare la purificazione dell’immagine del Dio creatore. Per raggiungere questo scopo, il punto di partenza è il confronto col cosiddetto paradigma evolutivo, paradigma che caratterizza ampiamente la Weltanschauung contemporanea.
Attraverso un percorso complesso e carico di tensioni la teologia del Novecento ha proceduto in direzione di una accoglienza purificatrice del paradigma evolutivo. Don Carlo ricostruiva questo percorso già in un volume del 1984, Darwinismo e teologia cattolica[3]. Raccogliendone gli esiti, poteva affermare: «Tra non molto tempo perciò la discussione relativa all’evoluzione scomparirà dai manuali teologici come sono scomparse polemiche famose nei secoli scorsi».
A più di 30 anni di distanza, ciò che don Carlo scrive nel nostro volume testimonia però che quella previsione non si è avverata. Egli avverte che il passaggio da un paradigma statico al paradigma evolutivo in realtà non si è ancora compiuto, come attestano nuove contrapposizioni tra evoluzionismo e fede in Dio creatore, richiamate nella pagine del volume.[4] La rinnovata insistenza su questo tema è motivata, inoltre, dalla consapevolezza, che in don Carlo si è andata consolidando attraverso la sua grande attività di guida di esercizi spirituali, che la purificazione dell’immagine del Creatore costituisce la base della stessa spiritualità cristiana, a cui è dedicata tutta la seconda parte del volume.
Cosa significa per la fede nella creazione il passaggio dal paradigma statico al paradigma evolutivo?
All’interno del paradigma statico la creazione è pensata come inizialmente già perfetta. Nel caso in cui essa vada perduta, Dio interviene per risanare quanto si è guastato o per attribuire una perfezione straordinaria a creature da lui scelte. Questi suoi interventi consistono in un’azione che provoca direttamente cambiamenti nella natura delle cose o nelle vicende del mondo.
Col passaggio al paradigma evolutivo o dinamico si apre lo spazio per il divenire della perfezione e per una relazione continua del Creatore con la creazione. Il Creatore non si inserisce di tanto in tanto, quasi come un intruso, in modo straordinario negli eventi del mondo, ma è in una relazione continua fondante con tutta la creazione e con ogni creatura.
L’azione creatrice, in tal senso, può essere espressa al meglio con la nozione di «creazione continua». Don Carlo la riprende da san Tommaso, dal grande maestro la cui teologia era stata ridotta a semplice somma di nozioni e definizioni dai manuali della neoscolatica, perdendone l’ispirazione unificante. Per san Tommaso creare è «dare l’essere», dunque dare in ogni istante tutto, fondare ultimamente ogni agire, ogni volere, ogni opera delle creature. Si tratta di una visione che, mentre esalta la sublimità del Creatore, non schiaccia la creatura. Al contrario, proprio permettendo di cogliere la distinzione qualitativa tra azione divina e azione creaturale, eleva la dignità delle creature.
Secondo il paradigma evolutivo le novità «emergono dal grembo stesso delle cose» (71). La creatura diventa essa stessa principio della perfezione che emerge nel mondo. L’evocativa immagine del grembo è tratta dalla Laudato sì di Papa Francesco (n. 80) e don Carlo le riconosce grande efficacia, tanto da utilizzarla come descrizione della creazione continua e del modo in cui Dio agisce nel mondo (cf. 88).
L’agire di Dio nel mondo
Quale modello dell’agire di Dio può corrispondere all’idea che «le novità emergono dal grembo stesso delle cose»? Don Carlo sviluppa il suo modello dell’azione di Dio in due passi fondamentali (cf. cap. 4: L’azione di Dio, 87-115):
(1) Egli riprende e rielabora il principio di Teilhard de Chardin espresso nella famosissima affermazione: «Dio non fa, egli fa sì che le cose si facciano» (96). Don Carlo la riformula nei seguenti termini: Dio offre alle cose di farsi. L’azione creatrice di Dio nel mondo si attua secondo la modalità dell’offerta: «Questa è la potenza creatrice. Non il fare le cose, ma l’offrire loro di diventare» (93). Se il modello dell’agire divino integra la modalità dell’offerta, dove Dio agisce, là fiorisce la libertà delle creature. Secondo questo modello, ciò che Dio opera nel mondo, al contempo fiorisce dal di dentro della creatura (cf. 88). Quello che la creatura fa sotto l’appello di Dio, essa lo fa «da sé stessa».
(2) Che Dio possa agire secondo questo principio di interiorità («dal di dentro») richiede un ulteriore approfondimento speculativo sulla natura dell’agire di Dio che don Carlo elabora rifacendosi a S. Tommaso e al domenicano Antonin Sertillanges (1863-1948), a cui si deve un importante commento alla Somma teologica dell’Aquinate. Sulla scorta di questo autore don Carlo dà grande importanza all’idea della creazione come dipendenza e non come cambiamento. La creazione non è un cambiamento, ma è la dipendenza stessa dell’essere creato in rapporto al suo principio.
Sul versante di Dio, questa idea significa concepire la creazione come atto eterno di Dio, compatibile con l’ipotesi che la creazione non abbia avuto un inizio temporale e che da sempre Dio abbia creato.
Sul versante della creatura, invece, ciò porta a riconoscere il valore teologico del tempo come dimensione della creatura. Per don Carlo, infatti, la totale dipendenza significa che la creatura deve man mano «allargare gli spazi della propria interiorità» (117) per accogliere tutta la perfezione che le viene dalla continua presenza di Dio che le dona l’essere.
In altre parole, la totale dipendenza diventa la ragione teologica del nostro essere-tempo: «Non possiamo accogliere quel flusso di vita che ci costituisce, quella forza che alimenta la nostra esistenza in modo compiuto, in un istante, ma solo attraverso una molteplicità di situazioni e di esperienze» (117).
La nostra temporalità non è indice di negatività, di perdita, ma della relazione libera e feconda col Creatore. Così don Carlo può affermare in estrema sintesi: «il tempo è il grembo fecondo dell’azione creatrice» (117). La creatura diventa grembo grazie alla sua dimensione temporale e la dimensione temporale diventa un elemento cardine della relazione col Creatore. Ci troviamo così davanti a una valutazione teologica del tempo che assume un significato decisivo nell’accoglienza teologica del paradigma evolutivo e nella elaborazione del modello dell’agire di Dio che l’accompagna.
Due corollari del modello
Il modello dell’agire di Dio proposto da don Carlo ha due corollari principali:
(1) Quando nel mondo emerge novità, su tutti i livelli, da una nuova specie, a un nuovo essere umano (inclusa la sua anima), a un miracolo «la fonte originale è sempre l’azione di Dio, ma Dio non fa nulla in più di quello che facciamo noi, e noi lo facciamo perché ci apriamo alla sua azione, accogliamo quella forza di vita che viene da lui; ma siamo noi che dobbiamo operare» (96-97).
Conseguentemente l’azione di Dio non si coglie mai di per sé, come il creazionismo pretenderebbe di fare, e gli eventi naturali si autoesplicano. In altre parole, l’impossibilità di una spiegazione scientifica di un evento non va considerata presupposto necessario per affermare in quel caso un’azione divina nel mondo.
(2) Il non-determinismo nella storia del cosmo. Dio agisce nel mondo, ma non impone un suo progetto sul mondo: «La forza creatrice è continuamente all’opera e offre possibilità, ma non determina mai le creature» (99).
Tale non-determinismo è ultimamente conseguenza dell’agire divino secondo la modalità dell’offerta. Pur essendo non-deterministico, il modello di don Carlo non esclude la finalità dell’agire divino. Si tratta di un finalismo che non significa però controllo: nell’agire creatore di Dio c’è spazio per il caso, per i fallimenti, per il blocco dei processi e per le regressioni (cf. 101), come si riscontra nel grande processo evolutivo del cosmo e della vita.
Così, facendo riferimento all’evento casuale del meteorite che determinò la scomparsa dei grandi rettili consentendo lo sviluppo dei mammiferi di piccole dimensioni, senza il quale ci sarebbe stata una evoluzione dei dinosauri e non dell’essere umano, don Carlo afferma: «che i figli di Dio vengano dalla specie umana o da quella dei rettili è secondario, e questo ci dice i livelli di casualità, di indeterminatezza e di relatività che l’azione creatrice lascia liberi nella creazione» (101).
Dentro tale indeterminatezza ciò che non viene mai meno è «questa forza che alimenta, questa energia che sostiene, questo amore che avvolge» (92) e che chiama verso la perfezione.
Non il linguaggio del controllo o dell’imposizione, ma quello dell’attrazione e dell’amore sono adeguati ad esprimere la relazione Creatore-creatura: «quando noi parliamo di finalità non parliamo di progetto imposto, ma un’attrattiva che viene esercitata, una chiamata, possiamo anche dire» (102). «Dio non impone la perfezione, ma la sollecita e la induce amando, come chiamando, come offrendo» (103).
Il modello proposto da don Carlo rappresenta una visione stimolante per la teologia della creazione contemporanea. Evidenzio in estrema sintesi due punti:
(1) Se viene applicato questo modello di azione creatrice a tutto il divenire, all’evoluzione in senso lato, ciò significa applicare un modello esplicativo dall’alto al basso, secondo il quale ciò che è più complesso getta luce sulle dimensioni più elementari dell’essere. Potremmo dire che don Carlo invece di applicare alla comprensione del reale un metodo riduzionistico, come fanno usualmente le scienze naturali, applica un metodo elevazionistico.
Con questo neologismo, che non si trova in don Carlo, intendo dire che il modello di interazione tra Creatore ed essere umano – quello che possiamo evincere dal mondo della spiritualità, per esempio, o anche dalla teologia della grazia – viene applicato alla interazione che si attua in tutto il divenire cosmico, anche a quello che si realizza sul livello fisico o chimico, per esempio. Quali possono essere i presupposti teologici di tale modello esplicativo?
(2) Molari spiega l’agire di Dio in termine di offerta. Dio agisce su di noi come forza inesauribile e come offerta totale, che in modo continuo dona tutto l’essere. Questa offerta divina, che fonda il divenire e l’evoluzione cosmica, è da pensare in modo statico? O si può invece pensare che essa stessa si rinnovi, che si attui come «reazione» divina alla storia delle creature?
Ritengo che il pensiero di don Carlo resti aperto al riguardo. Da una parte, per lui ciò che cambia non è l’offerta divina, ma piuttosto la capacità della creatura di accogliere l’offerta della perfezione che viene da Dio. Dall’altra, però, le possibilità divine «sono diverse secondo i diversi tempi, secondo le diverse creature, secondo le diverse culture: l’azione creatrice è un’azione fondante che offre possibilità ma non impone» (99). Il riconoscimento del valore teologico del tempo, accennato sopra, sembra qui aprire un varco al tempo dentro la stessa eternità divina.
[1] C. Molari, Il cammino spirituale del cristiano, specialmente alle pp. 69-129. Tutti i riferimenti che seguono sono alle pagine di questo volume.
[2] Cf. C. Molari, Le conversioni di un teologo, in Essere teologi oggi. Dieci storie, Marietti, Casale Monferrato 1986.
[3] C. Molari, Darwinismo e teologia cattolica, Borla, Roma 1984.
[4] Si veda il dibattito intorno alla posizione di Schönborn sull’Intelligent Design (2007), cf. p. 104.
E’ una sintesi meravigliosa del pensiero di Molari con il quale mi trovo in assoluta sintonia. Maraldi “aggiunge” alla sintesi una interessante domanda: “si può pensare che l’azione divina creatrice si rinnovi, che si attui come «reazione» divina alla storia delle creature?” Ciò significa che non è solo l’azione della creatura che accoglie l’agire di Dio che “muta” nel tempo, ma che l’agire stesso di Dio “muta” come reazione all’agire della creatura. Dio e creatura, quindi, sono in un rapporto “bilaterale” e non semplicemente “unilaterale” come lascia intendere il rapporto tra causa prima (Dio) e causa seconda (creature). Piuttosto che dire Dio “re-agisce” (dipendendo così dalla risposta della creatura), sarebbe meglio dire che Dio si lascia de-terminare nel suo agire dalla creatura. Ma cosa è il termine, il fine dell’agire di Dio se non Dio stesso? Allora anche nell’ipotesi del “lasciarsi determinare dalle creature” Dio “non” muta, cioè non passa da uno stato in cui Dio è una cosa (Dio 1) e poi rispondendo alla creatura diventa un’altra cosa (Dio 2). Dicendo così Dio (1) non è Dio (2). Ciò significa che Dio (2) non è più ma più-che-Dio (1). Deus semper magis. Ma cosa vuol mai dire che Dio è più che Dio se non che Dio è “infinito”? E’ l’infinità dinamica dell’essere di Dio. Dio è infinito in atto dinamico ma non potenziale cioè il suo essere infinito non passa dalla potenza all’atto. L’infinito della creatura è tale infinito potenziale. L’infinito di Dio è già in atto, completamente in atto ma non è statico. Dio agisce ma senza mutare. Dio è immutabile, cioè non viene all’essere, poiché Dio è già essere (pieno) in atto. Essere in atto significa “dinamico”. Della persona di Dio, infatti, predichiamo che “genera”, è generato, spira ed è spirato. Queste predicazioni indicano un movimento, un dinamismo di Dio, senza implicare un prima e un poi, un atto e una potenza. E’ un infinito “dinamico”, in continuo “venire a se stesso” ma non senza la creatura (cf. Eberhad Juengel, Dio mistero del mondo). Se Dio viene a se stesso eternamente con la creatura, vuol dire che la creatura è da un lato in continuo divenire, cioè continuamente passa dalla potenza (potentia) all’atto, mentre Dio è potenza, capacità (potentia) di agire, cioè dynamis, è infinita capacità di agire in tutte le cose (onni-potenza). Dio, infatti, agisce, facendo agire tutte le cose. Dio viene a se stesso come Dio in quanto Dio è Spirito. Dio viene a se stesso “non senza le creature” in quanto Spirito creatore (x), cioè l’essere delle creature (y) non aggiunge nulla all’essere di Dio (x = x + y). L’essere creaturale (y), infatti, è in se stesso “nulla” ma è solo in quanto relazione a Dio. Dunque Dio “re-agisce” alle creature dall’eternità senza divenire altro da sé ma venendo a se stesso come e con l’altro-da-sé poiché Dio (x) è Dio non senza la creatura (x + y).
Ma non si fa prima a dire che Dio è relazione? (Trinitaria innanzitutto)
Sto leggendo un libro di Emmanuel Durand sulle emozioni di Dio (Queriniana) che rientra in questo discorso.
Ho letto il volume, anche se non integralmente. Non so, è bello ma non mi ha convinto del tutto, siamo sempre dalle parti di un Deus patiens che in qualche modo soffre per l’apparente imperfezione della sua stessa creatura. Non so quanto aiuti un’immagine divina di questo tipo.