Un recente numero della rivista PATH della Pontificia Accademia di Teologia è interamente dedicato al “carattere pubblico della teologia”. Il tradimento della teologia -più appariscente e paradossalmente meno notato- è proprio l’estromissione della teologia dal dibattito pubblico. È del tutto innaturale! Il lavorio teologico è infatti mediazione critica del sapere della fede di fronte alle sfide culturali delle odierne società dell’ipermercato in Occidente e della tecnocrazia imperante in tutto il globo terrestre.
Se la cultura è “ciò per cui l’uomo diventa più uomo” – secondo l’insuperabile definizione di Giovanni Paolo II – e se la fede che non diventa cultura “non è fede interamente pensata, fedelmente accolta, pienamente vissuta” (cito a memoria), allora la questione di una teologia esiliata (Ch. Duquoc) pone il problema di un tradimento subìto dalla teologia, costretta nelle “sagrestie delle chiese”, fossero anche i “palazzi d’avorio” delle istituzioni universitarie: “cose nostre”, insomma, di scarso interesse pubblico.
Perciò, a commento dell’ultimo articolo di Severino Dianich, mi sono permesso di sostenere l’urgenza che oggi si liberi la teologia dalla sua “condizione professorale” (= i teologi come “professori di teologia” che seguono un metodo di ricerca e di insegnamento, detto scientifico, perché la teologia sarebbe scienza!).
Restituire alla teologia ciò che è suo
Si dovrebbe approfittare proprio del Giubileo – nella sua caratteristica di “remissione/restituzione −, per ritornare a far rivivere quella teologia sapienziale, senza la quale nemmeno il professore di teologia è davvero un teologo. Potremmo concepirlo come momento di “giustizia giubilare” e, volendo “dare a ciascuno il suo”, restituire alla teologia ciò che è suo per natura, per essenza, per identità.
Prima di essere costituita come “scienza” da san Tommaso soprattutto (per le esigenze delle nascenti Università e con il concetto di “scienza” assunto dall’Aquinate da Aristotele e non da Galileo, ovviamente), la teologia era la “vera sofia”: non veniva addirittura nemmeno chiamata teologia, ma vera filosofia. I “teologi” erano Platone, Aristotele e tutti i filosofi dell’Arké. Era, dunque, teologia spirituale, mistica, sapienziale, ed era anche “scienza”, ovvero autentico sapere “subalternato” al sapere fondante, cioè la Rivelazione di Dio in Cristo o la sacra pagina, o la dottrina cristiana.
Per tutto il primo millennio ci sono stati brillanti teologi, confusi magari tra i predicatori, perché la predicazione è la forma alta dell’esercizio ordinario della teologia: qui dove scienza e virtù/santità si uniscono e si fondono in circolo solido e l’una è nell’altra e l’una non è senza l’altra. Non è forse a questo che si riferisce Hans urs von Balthasar quanto parla di “teologia in ginocchio”? La “passione per il teologare” che rende veri teologi è passione per la fede da pensare criticamente a servizio della fede testimoniale, unica figura di fede tollerabile nel cristianesimo cattolico: sicché la fides quaerens intellectum è a servizio della fides quae per caritatem operatur, solo se la prima ha nella seconda il suo grembo sorgivo.
Non tutti i professori di teologia sono teologi
La teologia riguarda dunque tutti i credenti impegnati a maturare nella propria fede, a essere nel mondo “cristiani adulti”. Perciò si deve essere grati a Dianich per la riflessione sul “tradimento” dei teologi. Si è quasi accompagnati a fare un “esame di coscienza” sul proprio essere teologi, come ministero ecclesiale, nella Chiesa cattolica, al servizio dell’evangelizzazione. Nel duplice processo interiore all’inculturazione della fede: quello della mediazione culturale della fede (cosa su cui si insiste facilmente da sempre) e quello della traduzione credente della cultura (cosa che è invece con negligenza dimenticata, perché più faticosa, nel dialogo con tutti i saperi dell’agorà pubblica).
Ecco, dunque, sul primo versante, il “professore di teologia”, in cattedra, che presenta agli studenti i propri insegnamenti, lavorando sulle specializzazioni funzionali della dottrina, della sistematica, dell’ermeneutica, della dialettica e della storia, della comunicazione, tanto per citare quelle identificate dal metodo trascendentale di B. Lonergan. Il professore parla ad alunni che ascoltano una “teologia” il cui contenuto va appreso, perché aiuterebbe la conoscenza teorica del Know How del fare futuro (si deve pur superare gli esami, per diventare prete o diacono o insegnante di religione). Perché si studia teologia? Per “fare qualcosa” o per “maturare nella fede”? Una fede adulta appare impossibile senza un pensiero (critico) della fede, se è vero quanto sosteneva Agostino, fides nisi cogitatur nulla est.
Ero membro del Comitato CEI per gli Isr e Issr quando si immaginò la riforma di elevare il titolo degli ISSR eliminando in tutto il territorio italiano gli ISR, il cui diploma non abilitava all’insegnamento della religione cattolica. La partecipazione massiccia e popolare alle Scuole di teologia di base svanì come neve al sole, quando si capì che bisognava funzionalizzare quelle istituzioni a percorsi scientifici accademici, tralasciando quelli pastorali, poiché quest’ultimi non davano sbocchi lavorativi. La riforma era necessaria, ma i “danni collaterali” sono quelli di cui anche oggi paghiamo il fio: rannicchiare l’esercizio del teologare in Istituzioni sempre meno frequentate (perché legate ad avere diplomi che “servono” a un lavoro).
Il professore di teologia è un autentico teologo solo se assume la “posizione dell’evangelizzatore”: posizione non estrinseca al mestiere, ma interiore, perché “teologare è un ministero ecclesiale e corrisponde a una vocazione carismatica”. Ogni teologo potrebbe -nell’onestà critica sua propria, in quanto teologo- anzitutto riconoscere che senza “passione per il teologare” non si è autentici teologi, ma solo “professori di teologia”. Anche come un mestiere, si dovrebbe comunque capirne il “campo” (umano e pubblico) della sua missione. Questa distinzione tra “professore” e “teologo” può declinarsi in diversi modi, ma denuncia un primo tradimento del teologo nella Chiesa: l’aver ridotto la teologia alla sua “condizione professorale”.
Chi tradisce chi?
Se la teologia come scienza e sapienza corrisponde alla fede nella Rivelazione di Dio in Cristo, l’esilio di cui soffre la teologia nell’agorà pubblica in realtà rimanda all’emarginazione della fede in generale, e all’esculturazione del cattolicesimo in particolare, dalla cultura occidentale. Qui, soprattutto, la teologia (e i teologi) ha una responsabilità etica nel tradimento (sì, diciamo pure, ha una “colpa infelice”). Qui si presenta, infatti, il vero nucleo fenomenologico del tradire in questione: l’aver tollerato con la propria afasia, il generarsi in Occidente di una “fede cattolica” che ha smarrito il cristianesimo “strada facendo”.
È potuto accadere perché la teologia ha abitato “acriticamente” il “metaverso illuministico” la cui realtà virtuale ha creato un habitat cognitivo, nel quale tutti si naufraga dolcemente, anche i credenti, per averne assunto la lingua e le parole. In questo metaverso, non solo il sapere (cognitivo, teoretico) è separato dal credere e opposto alla fede (relegata negli ambiti favolistici della mitologia), ma, soprattutto, ha scisso la fede dal sapere della vita e degli affetti, dei sentimenti e della speranza, rendendo così il linguaggio della Rivelazione astratto e aleatorio, “senza carne e senza ossa”, senza “risurrezione corporea”.
Perdendo la fides quae per charitatem operatur si è prodotto un “fantoccio di fede” (con un dio-idolo concettuale, secondo J.L. Marion) che il razionalismo “tollera” con grande generosità politico-democratica e che il mercato invece incentiva, per sfruttarlo, piegandolo alle sue logiche consumistiche. La “nullità” della fede (perché “non pensata”) richiama il vero tradimento dei teologi: quello di aver fatto passare sotto silenzio la nascita e la diffusione del “cattolicesimo convenzionale”, di questa “religiosità cattolica” senza smalto cristiano, una religione irreligiosa che non tocca la carne degli esseri umani e non interessa a nessuno nella società dell’ipermercato: qui, dove tutti i bisogni indotti sono soddisfatti e la sensibilità degli umani per la giustizia del senso umano è ridotta ai minimi termini, sarà impossibile (e perciò diventa doveroso per il teologo) esaltare la dignità infinita dell’amore e della sua giustizia che invoca una “salvezza ricevibile”, perché anzitutto è “salvezza disponibile” per tutti.
In fondo, la riduzione professorale della teologia corrisponde alla riduzione parrocchialista della pastorale: la pastorale la farebbero i parroci in parrocchie sempre meno frequentante e totalmente abbandonate dai giovani, con riti (ma, sono sacramenti!), che non “convincono” più nessuno a “uscire” verso le periferie esistenziali, come pure invoca papa Francesco con le metafore vive della “Chiesa in uscita” e con quella del “prete in odore di pecora”. E allora ha ragione F. Gabbani (che non è un teologo, ma un cantante, e però denuncia ciò che un teologo dovrebbe denunciare e non lo fa): “e allora avanti popolo che spera in un miracolo, elaboriamo il lutto con un Amen… Amen… Amen”. Tante sono le preghiere, senza amore diffuso, di cattolici indicati come “astemi in coma etilico per l’infelicità”. È una critica “canzonata” che non vale certo quanto quella di un K. Marx sull’oppio dei popoli, benché si avvicini al “sospiro della creatura oppressa o all’anima di un mondo senza cuore” (cfr. la quarta enciclica di Francesco sul “Cuore di Gesù”). È comunque un fideismo smerciato per fede.
Forse una teologia più sapienziale diffusa tra la gente potrebbe riattivare la capacità critica del cristiano per recuperare quel “senso comune” che permetterebbe a tutti almeno di indignarsi davanti alla barbarie. Perché aiuterebbe a identificare la barbarie, anche se si presentasse con una “faccia umana” o una “faccia religiosa”. Si punti sui volti autentici delle persone e non tanto sulle facce fasulle e mascherate di tanti personaggi, scaltri influencer di giovani sempre più instupiditi dal consumismo (qui mi riferisco all’analisi critica puntuale e convincente di Pier Paolo Pasolini in Scritti corsari e in Lettere luterane).
Sorga il teologo: uscire dalla caverna del metaverso illuministico
Concordando sulla distinzione tra “teologi” e “professori di teologia”, si dovrà ritenere che molti professori non sono davvero teologi, absit iniuria verbis. Allora potremmo sperare – e di speranza dovremmo diventare tutti esperti in questo Giubileo- che esistano tantissimi credenti che sono (o possono diventarlo) veri teologi, anche se non professori. Ecco la bellezza della speranza cristiana per la teologia sapienziale diffusa tra la gente: quella di trovare teologi là dove non te lo aspetti, anche tra i fedeli laici e non di meno tra il clero. Saranno magari quei credenti non rassegnati a vivere la propria fede solo in ritualità che nemmeno sfiorano la carne di qualcuno, purtroppo nemmeno quella di chi li pratica.
Nel tempo in cui l’androide dell’Intelligenza artificiale riporterà gli umani nella famosa e indimenticabile “caverna platonica” – se si studia bene il mito di Platone si noterà che il metaverso di M. Zuckerberg ne riproduce i tratti essenziali –, sarà il teologo a dover rompere le catene e “alzarsi”, “elevarsi dalla minorità” per servirsi della ragione illuminata dalla fede e liberare gli oppressi e gli (umanamente) immiseriti dal “paradiso della tecnica”. Perché il teologo e non piuttosto il filosofo, come invece è prescritto dal mito platonico? Perché il filosofo è incatenato con tutti gli altri nel metaverso illuministico e – per quanto si impegni a “ripensare il pensiero”, per averne notato la “cecità” (E. Morin) – vive dentro bias cognitivi, emotivi e inconsci che destinano (fatalmente) il proprio pensiero al nichilismo compiuto di Nietzsche e al suo “oltre uomo”, così come la post-human condition sta prospettando, con la possibilità (perseguita scientificamente) di sostituire questo “verme di terra umano” (il cui bios è basato sul carbonio) con la nuova razza “più che umana” basata sul silicio.
Tuttavia, “il paradiso della tecnica darà l’inferno degli umani”, sosteneva E. Severino – pensatore originale antinichilista –, credendo e sperando in una ribellione dell’umano, resiliente alla perdita totale della sua “dignità infinita” (=l’uomo è un re che vive come fosse un servo, ripeteva spesso). Diversamente dal filosofo – che dovrebbe liberarsi dalle catene della caverna/metaverso da sé con la sapienza della ragione, scoprendo la verità incontrovertibile, attraverso il principio di non contraddizione –, il teologo è stato già liberato e viene continuamente liberato dal “verso giusto della realtà”, con un gesto di riscatto e di liberazione che viene da “Altrove”, dal sapere della Rivelazione in Cristo che è la realtà realissima di un Dio-Agape, manifesto nella storia dell’amore dell’uomo Gesù, identico al Figlio di Dio, “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, della stessa sostanza del padre, generato e non creato” (Nicea 325).
Alla luce del Vangelo “vede” la luce della ragione che – affrancandolo dall’oscurità della caverna e le sue similitudini (= simulazioni) proiettate sulla parete – lo porta a uscire (e a fare uscire) dal metaverso illuminista e dalla realtà virtuale, creata dai suoi concetti fondanti: l’individuo quale soggetto autocentrato che vuole autorealizzarsi; la libertà come decisione arbitraria scollegata da ogni legge o ingiunzione; la stessa ragione “pura” separata da affetti e sentimenti.
Il teologo – alla luce del sapere della fede – guarda in faccia la realtà e la vede per quella che è: tra gli umani, vede persone (non individui) – “ogni Io è un Noi” – e dunque “trame di relazioni amative”, guardando alla stoffa fondamentale dell’umano che è amore; scopre che la vera libertà è obbedire al comandamento giusto, facendo la verità in ogni sua manifestazione; riconosce che la ragione pura non esiste, semmai c’è una ragione che si lascia purificare per attingere dalla conversione morale, intellettuale e religiosa, le sue energie sorgive, la sua potenza cognitiva (metafisica).
Qui la teologia non deve tradire la fede e la Rivelazione, disertando dal suo compito critico più prezioso, che è quello epistemologico: mostrando teoreticamente che la “fede nella Rivelazione” è un autentico sapere umano e, perciò, non abbandonando la fede cristiana nel sottosuolo dell’affettivo o anche dell’istinto dei sentimenti, senza intelligenza e razionalità. Osando ancor di più, in un contesto interdisciplinare (anche in senso forte =transdisciplinare): nell’evidenziare che “a rigor di teo-logica”, non esiste nessun sapere davvero umano a cui non si acceda credendo (almeno nella figura dell’affidarsi, dell’aver fiducia o se si vuole della fede filosofica di un Jaspers).
Sàpere aude, dunque. È la fede che urge un esercizio indefesso della ragione critica, purché la ragione (anche scientifica) allarghi i suoi confini in senso sapienziale (cf. Benedetto XVI, ripreso da Francesco in Ad Theologiam promovendam). C’è bisogno di osare. Il teologo è un esploratore: abita spesso sentieri impervi e sale talvolta su tetti insicuri. Vale però la pena correre tutti i rischi e non disertare la propria missione per pavidità, peggio per pigrizia.
Sul coraggio del teologo di parlare
Il coraggio di parlare da parte del teologo comporta anche il rischio che “venga messo a tacere”. Il cardinale Radcliffe, nella sua meditazione al Sinodo dei vescovi ha portato l’esempio di Yves Congar, teologo del Concilio, che a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso venne privato della possibilità di insegnare: “nel pieno di questa crisi, scrisse nel suo diario che l’unica risposta a questa persecuzione era ‘dire la verità’. Con prudenza, senza scandali provocatori e inutili”.
Mentre lo stesso De Lubac, soffrendo certe persecuzioni prima del Concilio, scrisse la Meditazione sulla Chiesa, “un inno d’amore”, esortando con queste parole la persona perseguitata: “Lungi dal perdere la pazienza, cercherà di mantenere la pace, e da parte sua farà un grande sforzo per fare quella cosa difficile: mantenere una mente più grande delle proprie idee”. Coltiverà “quella sorta di libertà attraverso la quale trascendiamo ciò che ci coinvolge più spietatamente [… Eviterà] la terribile autosufficienza che potrebbe portarlo a vedere sé stesso come la norma incarnata dell’ortodossia, perché metterà ‘l’indissolubile legame della pace cattolica’ (citando San Cipriano) al di sopra di ogni cosa”.
Certo, ci vuole coraggio nel pensare e nel parlare. In uno dei suoi tanti discorsi ai teologi, papa Francesco distingueva la catechesi dalla teologia, perché attribuiva al teologo il coraggio dell’esploratore, il quale percorre strade nuove (inedite) per scoprire nuove vie di accesso per l’annuncio del Vangelo. Il lavorio del teologo è rischioso. Bisogna però osare, per amore della Chiesa, per amore di Dio. Un esempio per tutti: quando si tenteranno nuove strade e nuovi linguaggi per dire il Dio di Gesù Cristo nella pienezza della sua manifestazione agapica del Dio “solo e sempre amore”? Una “Teologia in ginocchio” potrebbe assumersi la responsabilità di controllare l’idea di Dio che passa attraverso la preghiera di ogni giorno: preghiere rivolte a un Dio che spesso sembra essere più il Faraone a cui servilmente ci si avvicina, cercando di non mandarlo in collera con qualche peccato, per il quale poi “meriteremmo i suoi castighi, le sue punizioni”.
La teologia che ha il coraggio di parlare, diventa servizio alla Parola e incalza con le proprie osservazioni critiche:
- “i cattolici praticanti” rischiano di “essere praticanti non credenti” e dunque di vivere una religione atea, per lo meno irreligiosa?
- il Dio che adoriamo è davvero il Dio di Gesù Cristo o corrisponde a nostre false immagini di Dio chiunque ce le abbia trasmesse?
- il Dio rifiutato da chi si è allontanato dalla fede è “un Dio che non esiste”, o è il Dio poco testimoniato cristianamente dai cattolici convenzionali?
Seguendo l’indicazione di Mt 5,16 – “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” – urge accogliere in quest’anno giubilare l’invito di Giovanni Paolo II a “pensare la fede”, perché la nostra fede cattolica, se non è pensata rischia di scadere in magia e superstizione. Esistono superstizione e magia nelle nostre pratiche religiose?
Cenacoli teologici per una “teologia sapienziale” diffusa tra la gente comune
Nella Prefazione a Ripensare il pensiero (Marcianum 2023), Papa Francesco parla per altro di una “teologia che sa di carne e di popolo”. Anzitutto c’è necessità di una “teologia incarnata” che corrisponda a una fede come sapienza spirituale: «Abbiamo bisogno di recuperare la via di una teologia incarnata, che non nasce da idee astratte concepite a tavolino, ma sgorga dai travagli della storia concreta, dalla vita dei popoli, dai simboli delle culture, dalle domande nascoste e dal grido che si leva dalla carne sofferente dei poveri. Una teologia generata da Dio, che porta annunci di liberazione al mondo; […] una teologia che da “sapere accademico” diventa “sapore del cuore”, per suscitare divine inquietudini e incoraggiare il desiderio umano ad affacciarsi ai bordi del Mistero di Dio».
A un anno esatto dalla Lettera apostolica – Ad Theologiam promovendam– con la quale Papa Francesco approva nuovi Statuti della Pontificia Accademia di Teologia, ci si sta prodigando per la creazione di “cenacoli teologici”, immaginati come luoghi-tempi-modalità-microstrutture dinamiche di Chiesa in cui praticare una fede pensata, vivendo il pensare la fede, cioè la “carità intellettuale”. Non sono “salotti per intellettuali”, ma piccole comunità di base ecclesiali inclusive nelle quali si pratica l’indicazione conciliare di leggere tutto “sub luce Evangelii”. Tutto? Anche Dio? La sua Rivelazione? La sua Salvezza in Cristo? E anche la giustizia, la solidarietà, la pace, l’economia, il diritto, l’ecologia e la politica, soprattutto il grande tema dell’amore.
Il pensare la fede, nei cenacoli teologici, aiuterà il cammino comune di “ripensare il pensiero”, perché la fede cristiana non tollera il razionalismo e l’intellettualismo, benché si nutra di un esercizio alto della ragione critica (anche filosofica e scientifica) e nemmeno l’empirismo e il pragmatismo, benché sia ancorato al principio dell’incarnazione: sposa invece l’idea della sapienza che gli è più congeniale, cioè un pensiero che stringe insieme “scienza e virtù”, “conoscenza ed etica”, “sapere e agire morale”, “verità e carità”, in un circolo solido.
Il cammino dei cenacoli sarà aiutato dal Magistero di Papa Francesco (da Lumen Fidei a Fratelli tutti, a Dilexit nos) e si impegnerà a dare attuazione alla sua teologia popolare, nutrendo il metodo della comunicazione e del discernimento con l’utilizzo dei linguaggi della immaginazione artistica (musica pop, pittura, cinematografia in particolare, letteratura e poesia), per essere meno astrattati e più incarnati: per una “teologia che sa di carne e di popolo” e ritorni a parlare bene del Dio solo e sempre amore, e così animare, dal di dentro della conversione della fede a questo Dio-agape, l’opera della carità vera che ci porta in Paradiso. Il punto attrattore del cammino nei cenacoli è infatti escatologico: la risurrezione del “corpo che siamo” nella beatitudine eterna dell’amore di Dio in Dio.
Per un Illuminismo cristico della Teologia “in uscita”
Su L’Osservatore romano del 3 ottobre 2024 lanciavo l’idea con un lungo articolo: un “Illuminismo cristico” è atteso per la teologia in avvenire. L’Illuminismo, qui inteso come “gesto critico”, “stile della critica”, combinato con la Rivelazione di Cristo, non è né un paradosso e tanto meno un ossimoro. Alla luce della Sapienza cristiana – l’evento pasquale di Cristo, salvatore universale del mondo − la teologia può sviluppare una “critica della critica” illuminista, contribuendo a “ripensare il pensiero”: lo scopo è, anzitutto, decostruire criticamente una figura di fede che non conviene al Vangelo; e, contestualmente, decostruire una idea di ragione, incurvata in sé stessa e rinchiusa in limiti mortificanti le sue capacità metafisiche.
Il vecchio illuminismo ha trattato la fede religiosa come fosse una favola, relegando il suo racconto nello spazio dell’antica mitologia ed eliminando dalla Rivelazione cristiana il suo carattere di vero sapere della vita, dell’amore, della giustizia, degli affetti e del futuro. Nel frattempo, il “cattolicesimo convenzionale” ha prodotto una fides catholica che sembra stare in sé autonoma rispetto all’opera della carità, snaturandola.
Sono due trappole da cui il cattolicesimo dovrebbe urgentemente essere liberato con l’aiuto di una Teologia sapienziale diffusa tra la gente. In Ad Theologiam Promovendam, Papa Francesco indica nella “Teologia sapienziale” la via giusta per il rinnovamento: «la ragione scientifica deve allargare i suoi confini nella direzione della sapienza, per non disumanizzarsi e impoverirsi. Per questa via, la teologia può contribuire all’attuale dibattito di “ripensare il pensiero”, mostrando di essere un vero sapere critico in quanto sapere sapienziale, non astratto e ideologico, ma spirituale, elaborato in ginocchio, gravido di adorazione e di preghiera» (AThP 7).
Un illuminismo cristico, pertanto, permetterà alla teologia di smascherare il pregiudizio dogmatico del vecchio illuminismo – che oppone fede e ragione, credere e sapere- mostrando come la fede cristiana introduca alla realtà reale dell’esistenza, oltre ogni mascheramento globale della coscienza nelle nuove società liquide (Z. Bauman”) e “schiumose” (P. Sloterdjik).
“Chiesa in uscita” e “Chiesa ospedale da campo” sono “metafore vive” (P. Ricoeur) che potranno dare futuro al cammino della chiesa e all’umanesimo cristiano: la loro comprensione teologica sviluppa l’utopia di una rinnovata evangelizzazione nelle nostre società globalizzate, ma anche una coraggiosa critica a certi idoli falsi (cioè visione distorte) della cultura postmoderna, poggiati su miti irrealistici: quale, solo per esempio, il progetto di un individuo sempre più automizzato, macchinico, postumano o “oltreumano”.
- Antonio Staglianò è Presidente della Pontificia Accademia di Teologia
Antonio Staglianò a chi si rivolge ? Non è stato forse il clericalismo che nel corso dei secoli si è reso responsabile di aver “scisso la fede dal sapere della vita e degli affetti, dei sentimenti e della speranza, rendendo così il linguaggio della Rivelazione astratto e aleatorio, “senza carne e senza ossa”, senza “risurrezione corporea” ? Non è stato forse il clericalismo ad “aver fatto passare sotto silenzio la nascita e la diffusione del “cattolicesimo convenzionale”, di questa “religiosità cattolica” senza smalto cristiano, una religione irreligiosa che non tocca la carne degli esseri umani e non interessa a nessuno nella società dell’ipermercato: qui, dove tutti i bisogni indotti sono soddisfatti e la sensibilità degli umani per la giustizia del senso umano è ridotta ai minimi termini” ?