Qualche giorno fa un teologo di area linguistica tedesca ha lanciato una provocazione ai cultori della disciplina in ambito accademico. A suo avviso, quello di cui abbiamo bisogno oggi è una teologia giornalistica. Intendendo con ciò l’apprendimento di una capacità di linguaggio e di scelte tematiche che permettano di intervenire nel dibattito pubblico su mezzi di comunicazione non ecclesiali o esclusivamente teologici. Insomma, smetterla con una teologia che parla di sé a se stessa, o a una piccola cerchia di persone. Uscire, insomma, dal recinto ecclesiale per seguire la mobilità della Parola cristiana, che tra di noi sembra essersi immiserita alquanto. Per storia personale mi sono sentito subito sintonico con questa prospettiva, anche se non è facile perseguirla. La strumentalità dei grandi mezzi di comunicazione, e il livello culturale del giornalismo odierno in Italia e altrove, non rendono facile un’intenzione di questo genere. Mi è poi venuto da pensare come il mio maestro, H. Verweyen, rabbrividerebbe davanti a questo modo di fare teologia. La serietà della materia, nel rigore intellettuale di un uomo di un altro tempo (e un’altra caratura), richiede un adeguato e corrispondente ambito di circolazione delle sue idee. Sicuramente l’uso dei mezzi di comunicazione di massa per gestire le questioni ecclesiali e teologiche ha avuto effetti boomerang nel post Concilio. Davanti alle pressioni così esercitate, la Chiesa e gli organi di curia sono entrati in trincea restringendo sempre di più gli spazi per un libero e ampio confronto.
Devo dire, però, che il maestro ha sempre guardato con benevolenza al mio doppio registro: accademia e giornalismo. Ma dalla sua lezione ho sempre cercato di tenere fermi alcuni punti nel travaso giornalistico della teologia: si scrive solo se si ha un buon pensiero; lo si fa sempre con serietà; si può essere pungenti, ma non si manca mai di rispetto verso l’antagonista; si discute della cosa senza secondi fini; lo si fa per il bene e la cura della fede, assumendosene la responsabilità; non si attende mai il momento più comodo, ma si è pronti a correre il rischio dell’urgenza del Vangelo. Credo che questo sia quanto dobbiamo raccogliere dalla signorilità dei nostri maestri quando si tratta di scendere nel campo del dibattito pubblico su questioni che riguardano la fede e la Chiesa. L’intervento teologico, anche nell’ambito giornalistico, mantiene sempre il suo contegno anche quando la disputa è dura. Sono cresciuto in un’atmosfera teologica dove il dibattito sulle idee diventava talvolta anche duro; ma era sulle idee che si discuteva e non contro le persone.
Mi sembra che gran parte del dibattito mediatico dei teologi su AL sia distante anni luce da questo stile della disputa teologica. Da una parte, un’alzata di scudi di chi si sente in una cittadella arroccata e scaraventa olio bollente sugli assediatori che minacciano di distruggere la preziosa architettura della tradizione. D’altra parte, quasi la derisione di chi si sente vincitore (finalmente) e vuole umiliare chi adesso si trova dall’altra parte della barricata. Così non si avanza di un millimetro, e sicuramente non si fa il bene della fede e delle storie delle persone. E si travisa, su entrambi i lati, il respiro e il tratto portante di AL. Con un paradosso che dice la debolezza, e anche una certa ipocrisia della teologia: si vuole stare tutti sotto l’ala sicura del magistero, che va bene solo quando protegge e conferma le nostre idee. In questo, siamo tutti un po’ inadeguati rispetto al lavoro che la teologia dovrebbe fare per e nella fede.
Entrambe le versioni del posizionamento teologico sono poi contrassegnate da un ambiguo attaccamento alla figura del potere; anche se lo mascherano in molti modi. Il più forte (momentaneo) si arroga il diritto dell’esclusiva veridicità della propria posizione, sovente senza ascoltare le ragioni e le preoccupazioni dell’altro. E nessuno lavora teologicamente sulle questioni e i problemi aperti da AL. Di un testo corposo e articolato si è estratto un unico argomento, che fagocita tutte le forze in campo come se fosse l’unico che conta. Così non si onora criticamente il testo e la sua complessità. Qui credo che il mio maestro continui ad avere ragione: la reductio comunicativa non fa bene alla teologia, al pensiero, e nemmeno alla fede. Ma eccoci qua, tutti servitori di questa logica imperiosa. Quasi che il testo post-sinodale sia stato ridotto a materia per una resa di conti di antichi rancori (e, talvolta, frustrazioni).
L’atmosfera avvelenata che circonda il dibattito in merito è il segno di una miseria, e non l’indice di una passione per le idee che rendono onore all’umano amato da Dio. Tornando all’unum argumentum che ha catturato tutta la discussione a livello di comunicazione, bisogna innanzitutto affermare la sua parzialità rispetto all’insieme del testo. Fermiamoci comunque per un momento su di esso. Detta in maniera positiva: esso afferma un primato dei vissuti, quindi della pastorale, sull’insegnamento e la norma generale, ossia sulla dottrina pensata come corpo astratto e separato. È la prima volta che questo accade nella millenaria storia della Chiesa? Siamo davvero davanti a una novità che rompe con la grande tradizione? Che trama immagina nel rapporto fra notizia evangelica di Dio, sapere della fede, e parola autorevole della Chiesa? Solo rispondendo a queste domande la teologia fa davvero il suo lavoro. E questo chiede tempo; tempo che la sua versione giornalistica non concede.
Su questo unum argumentum, quella di Francesco è una soluzione di emergenza dovuta all’urgenza di farsi carico dei vissuti della fede così come sono – senza nulla togliere al merito della sua decisione. Una sorta di compromesso per cercare di tenere insieme una Chiesa litigiosa e divisa in se stessa, senza offrire il fianco, agli uni e agli altri, per una rottura definitiva. Inoltre essa anticipa di gran lunga la forma della Chiesa da lui immaginata, quando essa di fatto non esiste ancora in questo modo. Comunque si sa che le soluzioni di emergenza non hanno durata, vivono dell’urgenza del momento, appunto, se non si trasforma anche l’impianto dottrinale e giuridico da cui esse si scostano. Come ha osservato N. Lüdecke, non è onesto continuare ad affermare verbalmente una dottrina e minarla in radice nella pratica. Questo senza mettere in dubbio l’onesta intenzione di Francesco, ma per dire il problema irrisolto che anche AL lascia al lavoro teologico. Stante questo problema, non ci sono né vincitori né vinti, ma c’è da lavorare per tutti – con serietà e onestà intellettuale.