«È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza? Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale». Le edizioni San Paolo hanno pubblicato il saggio di teologia della rivelazione di Francesco Cosentino, teologo e docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana: Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana. Anticipiamo di seguito l’Introduzione del volume.
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che, alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più attuali: Com’è possibile un’autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».
L’eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La questione appare tutt’altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che, attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha «liquidato» la domanda su Dio o, tutt’al più, l’ha relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia.
Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall’angolo, prendendo coscienza del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità» (Elmar Salmann).
Teologia della rivelazione
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi nell’esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell’esistenza umana e luogo che le conferisce senso e interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta meno non è una qualche dimostrazione sull’esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto. Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca» (Henri De Lubac).
La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell’esperienza che denominiamo fede, in un esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al tempo e all’uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e profondamente umano.
In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che lega esperienza di Dio ed esperienza dell’uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole: «In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: «Che cos’è un cristiano e perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un’ora «caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la possibilità stessa del parlare di Dio all’uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata.
La parola «Dio», infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola scolpita nel cuore dell’umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera: evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all’ospitalità di un’alterità sorprendente.
Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea: «Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna, smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un «eccesso trasgressivo», un dono che supera e sorprende.
Questo è ciò che rende Dio «più che necessario» e lo riscatta dall’emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato nell’alto dei cieli e nello splendore della sua divinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l’accadimento che manifesta non soltanto «ciò che Dio fa» ma anche e soprattutto «ciò che Dio è»: Agape, Dio per noi.
Guardare al presente, affacciarsi al futuro
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero stesso del Dio Uno e Trino. E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell’atto di fede: la Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene onnicomprensiva dell’evento della fede e della teologia.
Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l’oggi può sembrare un’operazione quasi museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c’è più. Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l’idea di una sorta di viaggio all’indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza «che fu» quanto, piuttosto, di affacciarsi sull’orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande dell’esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza?
Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale.
Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e, al contempo, post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».
Occorre tuttavia situare l’interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna «la buona notizia», parlare di rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo, quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell’esistenza dei nostri contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d’ora, cioè, che l’orizzonte in cui muoversi non è quello rispondente allo schema dell’apologetica classica, prettamente preoccupata di trasmettere la verità della fede e l’insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d’amore e, perciò, l’incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.
Con la vita degli uomini e delle donne
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l’orizzonte esistenziale. Lo aveva ben intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di Würzburg, parlò di «una teologia con cui poter vivere», cioè si chiese se esista una teologia non stabilita su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e vivibile la vita umana. Rahner non nega l’importanza di una teologia accademica e scientifica, differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di persona umana e di credente:
«Nella sua teologia, perché sia degna d’essere vissuta, egli deve aver riflettuto con tutto l’impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell’uomo della vita quotidiana, un qualcosa come l’esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».
Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l’uomo d’oggi significa interrogarsi dunque sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti:
«E proprio questa cosa inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l’annuncio che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).
Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da un punto di vista prettamente «pastorale», scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.
Il problema a mio avviso non è di Dio ai confini o di Dio messo all’angolo – chissà se davvero è mai stato al centro nelle epoche passate – anche perché Dio ci sta bene ai confini: Gesù Cristo era galileo e la Galilea era una regione di confini (Secondo Testamento), Dio ha amato un popolo che non avuto un vero e proprio luogo dai confini precisi (Primo testamento) Il problema è un altro: all’uomo contemporaneo inizia a mancare le parole, non sai più parlare, non sa più raccontare, narrare, non sa più leggere. L’uomo contemporaneo ascolta ma non sente, guarda ma non vede. L’uomo contemporaneo manca di immaginazione. La questione pertanto è di natura antropologica prima che teologica. Spero che qualche teologo di grido prima o poi se ne renda conto…
Veramente il testo riflette a lungo proprio su questo: Dio si rivela ai confini: nella carne di Gesù e, in Gesù, oltre i confini del puro e del sacro, nella terra di Galilea e perfino oltre i suoi confini, nella fragilità e nella povertà. Proprio questa è l’idea del libro!
Se è così (lo dico con stima), forse l’idea centrale comunque doveva emergere di più nell’introduzione. Grazie per la precisazione!!
Leggendo tutta la storia sacra, dall’Antico al Nuovo Testamento, la cosiddetta “relazione con Dio” è una chiamata. Una Voce, una Voce che chiama l’uomo (Abramo, Abramo!). Una Voce che chiama (Mosè!). Mai in nessun testo sacro la relazione con Dio risulta dagli sforzi umani: io voglio avere una relazione con Dio! Il problema dell’uomo moderno è che pensa che tutto derivi da lui stesso, dai suoi sforzi, dalla sua volontà. Non ascolta. Non sente la Voce. Per sentire la chiamata di Dio, la Voce, bisogna dimenticare il proprio Ego. E l’uomo moderno ha un Ego ipertrofico.
Dio non cerca teologia o religione da noi… cerca una relazione con noi! Il problema è che gli uomini e le donne cercano il peccato e non più Dio!
Carissimo Francesco, quando la ricerca e la riflessione su Dio diventa traboccante e come lettore mi trovo davanti fiumi di argomentazioni mi vengono in mente due persone e un paio di righe nel vangelo. Una prima persona è un mio amico carissimo che ha passato molto tempo a leggere un numero considerevole di opere di grandi pensatori, quando gli faccio una domanda mi sa dire una o due risposte ineccepibili date da studiosi di grossa taglia. La seconda persona che mi viene in mente è mia madre, aveva frequentato la scuola fino alla quarta elementare…quello che sapeva, di leggere e scrivere, l’aveva appreso dalla sua maestra che si chiamava Donna Agnese, ma più ci penso più mi rendo conto che la fonte delle sue incredibili, profonde conoscenze traevano linfa da radici tentacolari immerse in secoli di tradizione orale, penso che la generazione di mia mamma sia stata l’ultima ad esprimersi in questa dimensione. Sostanzialmente tutto gravitava sul fatto che la persona di mia madre era espressione continua di servizio amorevole che testimoniava efficacemente la presenza e l’esistenza di Dio. Un libro vivente di teologia su cui si leggeva chiaro che la definizione di Dio era quella descritta nei vangeli, mostrata concretamente in Gesù Cristo. Le due righe, poi, di citazione del vangelo sono quelle in cui Gesù si rivolge al Padre e lo ringrazia per aver rivelato si piccoli e nascosto ai sapienti i segreti del regno.