Armonizzare i “servizi della Parola”
La teologia non ha bisogno di retorica, ma di verità; essa neppure ha bisogno di vanità perché, parlando della teologia cristiana, non dobbiamo dimenticare che essa è sempre theologia crucis.
Essa non ha bisogno, però, neppure di essere eclissata o obliata o marginalizzata perché è un ineliminabile “servizio della Parola”, in nulla e mai sostituibile.
Questo significa che l’omelia non basta, che il kérigma non basta, che la catechesi non basta, che il magistero non basta, che l’esegesi biblica non basta, che la teologia biblica non basta, che la lectio divina non basta. Allora, basta la teologia? Oh no… E chi lo potrebbe dire?
Gli è che nessun servizio della Parola, da solo, basta alla complessa e… dinamica vita della Chiesa. I servizi della Parola debbono essere, perciò, coniugati armonicamente, senza salti pericolosi, senza dimenticanze (sempre colpevoli), senza semplificazioni che sono fra le cause delle arroganze pastorali dentro la vita ecclesiale.
La teologia serve la missione
Qualche volta, in modo non avveduto, si reclama una pastoralità senza teologia, quasi che esse fossero in antitesi o davvero capaci di stare e di operare da sole, ognuno nel suo ortus conclusus, tipo di spazio che, fra l’altro, non è mai previsto nella Chiesa.
La pastorale, quando perde la matrice teologica, diventa all’inizio debole, poi anche rischiosa. L’assenza della teologia nella pastorale si paga con l’apparire di rovi fastidiosi e soffocanti: spontaneismo nel dire e nel fare, sproporzione nel dosaggio dei tempi e delle accentuazioni nei temi e soprattutto le ubbie personali che diventano la predominante matrice nell’opera di missione…
In questo senso serve l’elogio della teologia che ne reclama il giusto ruolo e la propone come “sapienza credente”. In particolare, la teologia si mette a servizio del “popolo di Dio” a due livelli opposti: da un lato, essa cerca di motivare, indicare e promuovere la bellezza spirituale al suo interno; dall’altro, essa non disconosce le “croci dell’ora” e aiuta ad entrare nei “rovesci della storia”, a fronteggiarli e, per quanto può, anche ad uscirne.
– La teologia, “via pulchritudinis”. La teologia è un sapere credente che porta nelle sue carni e nel suo spirito lo stigma della bellezza che la rende ardita e umile: ardita, perché s’avventura a scavare gli abissi della Parola (cf. 2Tm 3,16-17), perché arranca sulla stele del mistero, perché tenta l’impresa di porsi come arte e scienza di Dio in modo organizzato, comprensibile e dicibile in pubblico; umile, perché sa che il silenzio di Dio sovrasta la sua voce e mai comprenderà completamente Dio e le sue vie: infatti egli è infinitamente ed eternamente più alto dell’uomo e qualunque tentativo di descriverlo sarà sempre carente (cf. Rm 11,33-36), perché s’arrischia a dire di Colui che ha dato nomi ad altri esseri, che rispose a Mosé di essere «l’Io sono» (Es 3,14), che non è una forza eterea o cosmica, ma il Padre dei padri, del quale dobbiamo dire: «Nemo tam Pater = Nessuno è tanto Padre quanto lui» (Tertulliano).
– «Il più bel mestiere al mondo…». È rimasta incisa per lunghi anni nella mia anima un’espressione del cardinale Jerome Hamer, il teologo che ha segnato la storia del Novecento teologico con un piccolo libro, amatissimo da Paolo VI, L’église est une communion (Paris 1962). Capitato per caso accanto a lui, a L’Aquila, durante un’edizione della Perdonanza in rappresentazione dell’arcivescovo Antonio Valentini, all’improvviso mi chiese: «Che incarico pastorale hai?». Gli risposi: «Insegno teologia dogmatica in un Istituto teologico». Mi rispose: «è il più bel mestiere al mondo».
Lo posso testimoniare: lo è senza alcun dubbio. Mi sono chiesto più volte perché la teologia fosse per me una passione invincibile, totale. La risposta me la sono data nel tempo, soprattutto penetrando negli ultimi dieci anni nel mistero della bellezza: la teologia è intrisa della bellezza di Dio, del mistero intrigante dell’uomo, della luce vivida della parola di Dio, della mezza luce del pensiero, delle linee d’ombra della nostra povera vita di uomini e di Chiesa.
– Ormai la bellezza è dicibile con serietà. Siamo ormai nella buona condizione di parlare della bellezza in termini seri e rigorosi, fino a capire che «questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione» (Concilio Vaticano II, Messaggio agli artisti [8.12.1965]).
La bellezza è necessaria anche alla teologia: questa ne ha bisogno perché la bellezza in modo necessario «s’addice alla fede», oggetto e anima della “scienza sacra”: infatti, «nessuno aderisce profondamente ad una qualche figura del senso ultimo se non per una sorta di fascinazione della sua anticipabile bellezza» (P. Sequeri, L’estro di Dio, Glossa, Milano 2000, p. 23).
– La teologia parla del «lato bello di Dio». La teologia medita sull’intera storia della salvezza come tempo della permanente presenza del Dio trinitario, che è «Bellezza infinita» (san Francesco d’Assisi). La bellezza è la forma della teologia. Questa si sforza di cercare nei segni che essa manifesta nella creazione e nella storia: si tratta di una tessitura di segni decifrabile alla luce della Parola e della fede, ma su cui è possibile meditare credendo e contemplando.
La bellezza è un vero “luogo teologico”: «Le opere umane della bellezza aprono il varco irrimarginabile di un appagamento per il quale esse non bastano: e invitano a proiettarsi più audacemente verso la bellezza del ministero di Dio che indica all’uomo spirituale la vera destinazione della sua attrattiva. Ne viene infine, per tutti i credenti, un forte impulso a riscoprire e a far riscoprire il lato bello di Dio» (P. Sequeri, L’estro di Dio, p. 460).
L’infinita bellezza di Dio si mostra in forma trinitaria: come bellezza del Padre espressa nel segno dell’umanità di Cristo, umanità che il Figlio ha assunto per virtù dello Spirito. In modo più particolare, si manifesta e appare.
La teologia e la “tragicità” della storia
La teologia, però, non trascura l’altro verso della storia e del mondo: conosce il disincontro col brutto, che non è l’assenza dell’incontro, ma lo sfracello che le accade di fronte al brutto. È la dimensione tragica della bellezza.
La tragicità, tormento del pensare, secondo il vescovo Bruno Forte dev’essere coniugata con la ferialità della vita, con la serietà della riflessione, con il vivere e il gioire, con l’esperienza agonica del credente: il pensare non può disertare la vita e la storia, specialmente nei suoi lati più bui ed enigmatici.
Questo chiede di elaborare una «teoria critica della prassi cristiana ed ecclesiale»,[1] che sia capace di porsi anzitutto in stato di umiltà di fronte al mistero, che si dia il giusto coraggio per entrare in dialogo con gli uomini del proprio tempo e abbia grinta e ispirazione per motivare la credibilità del cristianesimo nel tornante storico del post-moderno e del pensiero debole.
La bellezza non può disertare l’incontro con il lato scadente e degradato dell’umano anche per non far torto alla fede, la quale è un «assenso che si fa ricerca»,[2] una speranza inquieta che persevera, inesausta, nella fatica dell’interrogazione dei dolori dell’uomo e del misterioso rapportarsi di Dio all’uomo sia con le forme deboli della kénosi, sia col denunciare l’avvilimento della ragione a scrutare prevalentemente la terra breve del presente.
Il sapere credente coltiva i “doppi pensieri”
La teologia svolge il suo esercizio di “pensare la fede” fra due sponde, fra lo «scandalo della croce» e la sorpresa delle glorificazione: se esse venissero a separarsi, la teologia si sbanderebbe o sbattendo verso il polo di un pessimismo funerario o verso l’ubriacatura di un ottimismo vitaiolo senza alcuna plausibile giustificazione.
La teologia, nel tempo dell’effimero e del pensiero debole e disimpegnato, oggi è sfidata, perché l’asse del Vangelo è il legno del Crocifisso conficcato nella terra degli uomini fino a ferirne nel carni dell’anima mundi.
A incoraggiare la teologia a impegnarsi in questo sforzo martiriale stimola l’eredità, ben viva, di don Italo Mancini, una delle intelligenze teologiche e filosofiche più belle del secondo Novecento italiano: egli, ponendosi come esempio di una teologia rigorosa (non arcigna perché serve il Vangelo di Gesù), evoca con serietà il fatto che il cristianesimo è, sempre per intero, un ossimoro, cosa che impone di parlarne con un prolungato intreccio di «doppi pensieri»,[3] un’espressione che egli ha preso da Pascal e Dostoevskij, i quali parlavano di «Dio nei doppi pensieri»: Dio, infatti, pone la teologia (e la filosofia) dinanzi ad «abissali pensieri».[4]
Per quanti si dedicano alla scientia Dei ne deriva la necessità di parlare del “totalmente Altro” come di un Oggetto-non Oggetto che non può essere mai catturato, meno ancora dominato, anche considerato il fatto che la verità, in generale, è – come avvertiva Simone Weil – una fuggiasca che non può essere mai presa e imprigionata per sempre.
Ebbene, l’ossimoro – Mancini parla proprio di «ossimoro teologico»[5] – garantisce la credibilità della teologia, accreditandolo come sapere non frivolo, quando questa lo ricerca, lo affronta con coraggiosa grinta, non lasciandosi da esso intimorire in alcun modo. Tale difficile intrapresa teologica la si compie per nessun altro motivo che per rendere ossequio al mistero o all’«ultimo Dio» – com’egli s’esprime[6] – che, si direbbe, necessariamente si manifesta solo nelle strettoie dell’ossimoro, ossia nell’incandescenza del ferro che si trova nel martirio della forgia: una simile teologia sa bene che bruciature, scottature e perfino incendi sono il destino di un “pensare la fede” con serietà alta.
L’oggetto “sintetico” della teologia è l’amore-misericordia
I due elementi – croce e gloria – sono incastrati l’uno nell’altro o, meglio, innestati l’uno nell’altro. Don Mancini lo dice avendo un orecchio vicino alla voce di Giovanni (cf. 13,31) e l’altro a quella di Paolo (cf. 1Cor 1,18-23) e così s’esprime: «L’ora della glorificazione è quella della croce, quella indicata dal grano di frumento che muore. […] Non esiste certo – cesella don Mancini – un rapporto analitico fra questa contemplazione della croce e la gloria che si fa presente come assicurazione di divinità. Anzi è scandaloso, e nel caso della soluzione positiva è paradossale che io debba vedere realizzato Dio in quel corpo illividito e profanato come quello di un malfattore. Paolo parla anche lui di “scandalo della croce”» (p. 340).
E allora? Dove trovare la treccia d’acciaio che leghi croce e gloria per la teologia, dal momento che questa non può optare o per l’una o per l’altra? La teologia cristiana, se trova quel legame, individua in esso il suo oggetto più vero. Quel legame c’è ed è l’amore (o la misericordia) che, perciò, è l’oggetto globale della teologia.
Alla domanda se fosse possibile dipingere il Crocifisso, Kierkegaard risponde: «Non lo comprendo: a me i pennelli, appena avessi voluto cominciare a dipingere, mi sarebbero cascati di mano».[7] C’è solo un modo di rappresentare il Crocifisso che non sia – come diceva Kierkegaard – «sacrilego»:[8] quello di non lasciare che la bellezza prevalga sull’orrore e la tragicità della croce,[9] cosa che sarà possibile alla condizione che si sappia scorgere con lo sguardo acuto della fede la misteriosa equazione luce-tenebra che Dio va a comporre nell’evento di croce del Figlio: «La bellezza è il Crocifisso-amore, è il tutto dell’agape divina che si è consegnato nella notte di quel frammento».[10]
[1] B. Forte, I laici nella chiesa e nella società civile. Comunione, carismi, ministeri, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2000, p. 64.
[2] Ibidem, p. 65.
[3] Frammento di Dio, a cura di Andrea Aguti, Morcelliana, Brescia 2000, pp. 279-348.
[4] Cf. M. Cacciari, B. Forte, Dio nei doppi pensieri. Attualità di Italo Mancini, a cura di Piergiorgio Grassi, Morcelliana, Brescia 2017.
[5] cf. Frammento di Dio, pp. 279-302
[6] cf. Ibidem, pp. 191-276
[7] S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, Roma 1971, p. 312.
[8] Ibidem, p. 312
[9] E. Canetti, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Milano 1982, p. 235.
[10] B. Forte, Bellezza splendore del vero. La rivelazione della bellezza che salva, in Aa.Vv., Cristianesimo e bellezza. Tra Oriente e Occidente, a cura di Natalino Valentini, Paoline, Milano 2002, p. 64.