L’enigma del male

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Tutte le volte che l’uomo e il mondo sperimentano il dolore, torna il discorso su Dio e il problema del male. La posizione di alcuni teologi.

«Ora che ci siamo resi conto che Dio e la preghiera non servono a niente, sarebbe l’occasione di dare il resoconto delle spese della Chiesa per la sanità». Così si leggeva in uno degli whatsapp che ho ricevuto in questi giorni. A parte che c’è sempre qualcuno che, approfittando del fatto che san Giuseppe era un falegname, voglia parlare della confessione, mi interessa riflettere a voce alta su una vecchia questione che, formulata oltre due millenni fa da Epicuro, riemerge in questi momenti con particolare vigore. «Dio vuole evitare il male, ma non lo può»?, allora è impotente. «Può, ma non vuole»?, allora è malevolo. «Se può e vuole, allora perché esiste il male?».

enigma maleDovendo confrontarci con un tale dramma (e con la contraddizione – esistenziale e razionale che pone), è normale assistere non solo al crollo dell’immaginario di un Dio onnipotente e perfino benevolo, ma anche della difesa di maggior consistenza razionale dell’ateismo e dell’agnosticismo ateo di fronte alle spiegazioni deiste o teiste.

Uno degli esempi, probabilmente quello che mi ha colpito di più, è la testimonianza del pastore americano Bart D. Ehrman sul suo passaggio dalla fede cristiana all’incredulità per non essere riuscito a sopportare questa contraddizione.

Ma devo ricordare, come contrappunto necessario e inevitabile, che nemmeno ai nostri giorni mancano coloro per i quali questo è anzitutto e soprattutto un problema strettamente razionale. E che perciò ci riguarda tutti: deisti e teisti, atei o agnostici-atei e persino antiteisti e indifferenti. Non vale niente – dicono – criticando questi ultimi, credere di aver trovato una spiegazione razionale più consistente di quella teista negando l’esistenza di Dio e rimanendo, a seconda dei casi, sereni e tranquilli o angosciati nel silenzio o nel mutismo. Una simile risposta o un siffatto tentativo di spiegazione alternativa – che non riesce affatto ad eludere la perplessità che attanaglia tutti, teisti o atei – non è, quando esiste, una spiegazione razionalmente più solida di quella credente.

Forse per questo, negli ultimi anni i teologi hanno continuato a riflettere su questo problema. Nel caso specifico, ho trovato tre saggi di spiegazione che meritano di essere presi in considerane quello di J.A. Estrada, di J.-B. Metz e di A. Torres Queiruga.

Juan Antonio Estrada dichiara «impossibile» il tentativo di armonizzare razionalmente il male con un Dio buono e onnipotente. Non si può discolpare Dio. Quando si tenta di farlo, si finisce col favorire l’immaginario di un essere malvagio che sacrifica la persona. È più sensato riconoscere che il cristianesimo, non avendo una risposta razionale a questo problema, consente tuttavia di affrontarlo in maniera coerente e lucida, ben lungi dall’indifferenza o dalla disperazione: chi, come nel suo caso, si autocomprende come cristiano sa e ha delle ragioni più che abbondanti per combattere il male, in particolare quello ingiusto e prematuro, come ha fatto Gesù di Nazaret.

Senza ignorare il silenzio a cui ci induce di solito la richiesta di una risposta coerente da parte di Epicuro, non bisogna trascurare le grida e le richieste di giustizia che, nonostante tutto, le vittime continuano a innalzare a Dio. Questo è il punto di partenza della spiegazione presentata da J.B. Metz. L’attenzione a queste domande lo porta a elevare tali grida e lamenti al principio conoscitivo di tutta la realtà e, insieme, a comprendere la fede cristiana come «memoria della passione», vale a dire, come memoria di un Crocifisso il cui dramma si attualizza nel grido di tutti i crocifissi del nostro tempo. E anche in quello di coloro che, come sta succedendo in queste ultime settimane, muoiono perché sono anziani, malati, deboli o professionisti della medicina o lavoratori nei servizi essenziali ai cittadini; e senza per di più poter dare l’ultimo saluto ai loro cari.

Andrés Torres Queiruga, proseguendo sulla via aperta ai suoi tempi da G. Leibniz, sbarra criticamente la strada alle spiegazioni che sottolineano l’oscurità, il silenzio o il ritiro di Dio – lo tzimtzum  (antica parola ebraica (צמצום) che significa letteralmente «ritrazione» o «contrazione» ed è utilizzata originariamente dai cabalisti in riferimento all’idea di una «autolimitazione» di Dio che si «ritrae» nell’atto della creazione del mondo, ndtr). – e pone la chiave esplicativa del male nella finitudine in quanto tale e quindi non in Dio stesso. La sua è una proposta che intende mostrare l’articolazione esistente e senza stridere in alcun modo tra l’atteggiamento insuperabile dell’amore divino – che lo caratterizza non tanto in quanto Onnipotente, ma in quanto Antimale – e il male che si racchiude nel limite costitutivo del finito e, soprattutto, nella morte prematura e ingiusta. Questo – ricorda – è un problema razionale. Perciò ci riguarda e richiede una spiegazione da parte di tutti, oltre la nostra fede o la sua assenza, anche se noi credenti abbiamo numerosi motivi e ragioni per non disperare.

Questi tre contributi, indubbiamente teisti, non impediscono ai credenti e non credenti di condividere il compito di sradicare qualcosa di tale desolazione in questo tempo di coronavirus; rimasugli anticlericali a parte, ovviamente.

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