Essere donne alla Gregoriana – studentesse, docenti o amministrative, laiche o religiose – fortunatamente non è più né un’eccezione né una stranezza esotica. Le donne fanno parte del «panorama» consueto (20,75% del corpo studentesco) e non c’è stupore nell’incontrarsi nei corridoi, in biblioteca, in aula o al bar. Numericamente siamo ancora una minoranza, specie in alcune Facoltà, ma è stata superata la soglia critica, quella che relega sotto la decina e rende quindi praticamente invisibili.
Questo non è semplicemente un dato di fatto: è una realtà, ma anche una realtà che deve interrogarci e insieme stimolarci.
Si tratta infatti di chiedersi, se è normale – come lo è! – che le donne ci siano, e quale «normalità» vogliamo costruire insieme per la nostra comunità universitaria. È davvero sufficiente trasportare una sorta di normalità delle culture da cui proveniamo dentro alla nostra vita comune di studio e formazione? L’Università che ci accoglie tutti, uomini e donne, vuole anche su questo ambito aiutarci a crescere e a formarci, e lo può fare non solo con corsi o tematiche accademiche, ma anche con il clima e lo stile con cui insieme viviamo il nostro tempo qui.
Vorrei dunque condividere alcune attenzioni che mi sembrano importanti, e che ho in parte imparato proprio qui: da studentessa prima e da docente poi.
«Uguaglianza» non significa «in-differenza»
La prima sottolineatura è evitare per quanto possibile di confondere uguale dignità con una certa cultura del «neutro». L’uguale dignità non cancella la ricchezza delle diversità e la comprensione della non assolutezza di ognuno e ognuna, che rappresenta in sé solo una parte – e non il tutto, mai – di quel ricco caleidoscopio che è l’umanità.
Questo vale ad esempio in modo molto evidente per le diverse culture da cui proveniamo: sperimentiamo continuamente, in questa Università delle Nazioni, la parzialità espressa da ciascuno e ciascuna e la ricchezza dell’incontrarci.
Ma il caso di una presenza “normale” di donne e uomini nello stesso luogo di formazione e nei diversi ruoli, ci spinge a fare i conti con il fatto che non esiste una forma neutrale, non incarnata e contestualizzata, di formarsi. Per la dignità siamo tutti e tutte umani, ma ognuno di noi lo è in una forma precisa, incarnata, che esprime una parte dell’umanità che solo insieme possiamo ricostruire. Infatti, l’essere uomini o donne è un’alterità irriducibile che non ammette neutralità.
Accogliere e raccogliere le biografie
La seconda sottolineatura è essere attenti a prendere in carico il rapporto delicato che si stabilisce tra biografie e crescita intellettuale. Se le biografie non sono neutre, e neppure solo individuali, ma ci raccolgono, innanzi tutto in uomini e donne, – e poi in culture, educazioni, abitudini, ecc. – questo «bagaglio» con cui ciascuno di noi arriva non è solo un fatto privato.
Solo per fare un esempio, le motivazioni che spingono una giovane donna laica alla via esigente di uno studio teologico accademicamente qualificato, sono necessariamente molto diverse da chi viene inviato dai propri superiori e da essi garantito economicamente. E questa differenza di motivazioni diventa differenza di esigenze e richieste, aspettative, rispetto all’Università e allo studio, alle relazioni con i docenti e i compagni di studio, e così via.
Accogliere e raccogliere, nella misura di ciò che è voluto, le biografie altrui e sperimentare accolta e raccolta la propria, non presumendo che in questo essere donne o uomini sia la stessa cosa è un passo decisivo, strutturale e non solo individuale e di virtù personali.
L’arte della misura
E qui nasce la terza sottolineatura: nella misura in cui ciò è voluto. Nell’essere e nel vivere da uomini e donne in questa Università e nel contribuire in questo con le proprie ricchezze e insieme nel poterne trovare la miglior forma di formazione e crescita, la questione della misura è decisiva. Una cosa che davvero potremmo utilmente imparare tutti dalla presenza di questa differenza è il difficile esercizio di fermarsi sulla soglia del mistero dell’altro senza per questo restargli estranei.
Si tratta di una disciplina non teorica, che solo spendere tempo e azioni, gesti e parole, vicinanze e distanze in un contesto quotidiano di differenze riconosciute può insegnare. È un’arte che richiede un costante apprendistato, l’arte della misura che non considera la propria intenzione l’unico criterio di giustizia e bontà, ma che sa riconoscere il punto di vista – e di vita – dell’altro/a non solo legittimo, ma che ha il diritto di un rispetto profondo e di una tutela assoluta.
L’arte della misura, dunque, tra vicinanze e distanze e la sofferenza che provoca la sua mancanza: si tratta forse della lezione più grande che ho vissuto nell’incontrare un mondo a prevalenza maschile come questa Università.
Una scuola di sapienza
Si potrebbe continuare con altre sottolineature, ma mi pare che questi pensieri possano essere sufficienti per indicare come questa nostra – temporanea e parziale – casa comune possa davvero essere una scuola nel senso più sapienziale del termine anche grazie alla presenza reale e «normale» di donne nei suoi corridoi.
Ovviamente, a questo si aggiunge, come è ovvio che sia, l’apporto delle differenze cognitive e conoscitive che soggetti diversi come uomini e donne possono apportare alla ricerca e alla conoscenza: non tanto nella differente sensibilità tematica – che pure ancora almeno in parte sussiste –, quanto molto di più nei diversi approcci metodologici e strategici. Ma questo aspetto è tra i più conosciuti e studiati e basta sfogliare un volume di storia di teologia delle donne – e di qualunque altra disciplina apertamente consapevole del genere di appartenenza degli autori – per rendersene conto.
Questa Università ha spazio per noi, per tutte e tutti: se lo abiteremo fecondamente diventerà un luogo abitato di crescita e confronto.
Stella Morra è docente di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e direttrice del Centro Fede e Cultura «Alberto Hurtado» presso la stessa Università. Riprendiamo il suo articolo precedentemente comparso su «La Gregoriana. Periodico d’informazione della Pontificia Università Gregoriana» (Anno XXVII, n. 59, pp. 2-4).
Con tutto rispetto e con stima profonda, nell’articolo si parla del 20,75% del corpo studentesco (immagino che siano perlopiù consacrate), ma del 20% del corpo docente. Per questo non ci vedo nessuna normalità!