Il 14 settembre segna 20 anni dalla data di pubblicazione dell’enciclica “filosofica” di Giovanni Paolo II. Luca Micelli scrive un breve testo per sollevare alcune questioni, mentre io aggiungo qualche considerazione sulla portata sacramentale di alcuni numeri del testo.
Un anniversario in sordina?
Alcune domande su Fides et ratio 20 anni dopo
di Luca Micelli
Il 14 settembre 1998, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, Giovanni Paolo II firma ed emana la sua tredicesima enciclica, la Fides et ratio (FR), sul rapporto tra fede e ragione. Venerdì prossimo, quindi, l’enciclica che secondo alcuni fu il culmine del Magistero in materia di filosofia, compirà venti anni.
Per quanto mi riguarda, questa ricorrenza non poteva passare inosservata, fosse solo perché per chiunque abbia alle spalle studi filosofici e teologici, tale documento rappresenta forse una pietra miliare. Così ho deciso di appuntarmi già da tempo questa data sull’agenda, convinto che nel frattempo sia le università che i social media (almeno ciò che l’algoritmo mi propone) avrebbero sommerso il dibattito di riflessioni attorno a questo ventennale. Ma invece, nel mio piccolo, mi sembra che non sia così. A una settimana di distanza dall’appuntamento, mentre mi preparavo a prendere servizio nella nuova scuola in cui lavorerò quest’anno, ho provato a fare un po’ di ricerche online. Niente, a parte qualche convegno all’estero (ad es. in Bulgaria) o una giornata di studi per docenti presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, svoltasi qualche mese fa.
Lo dico subito: non so quanto tutto ciò sia pienamente corrispondente alla realtà, nel senso che oltre alla rete, al momento, non ho altro modo per verificare la presenza o meno di dibattiti attorno a questo ventennale. Per questo la mia prospettiva è davvero molto limitata e parziale, quindi spero che qualcuno mi smentisca e che magari le facoltà teologiche siano piene di eventi al riguardo.
Ma se fosse davvero così, che questo anniversario stia passando in sordina, mi chiedo: cosa è successo? La mia intenzione qui è proprio quella di porre interrogativi, magari per suscitare un confronto.
Possibile che di quell’attenzione che stava così a cuore a Giovanni Paolo II e al suo prima grande amico e collaboratore, e poi successore, Benedetto XVI, ora non sia rimasto nulla? Così? Da un momento all’altro?
A me personalmente della FR ha sempre colpito il “recupero” di quelle correnti di pensiero, che non identificandosi totalmente con il tomismo, sono state in passato ritenute poco ortodosse (cf. FR 59). In particolare penso a Maurice Blondel, a cui sono legato da uno speciale affetto intellettuale, soprattutto quando Giovanni Paolo II lo cita senza nominarlo («chi, ancora, produsse una filosofia che, partendo dall’analisi dell’immanenza, apriva il cammino verso il trascendente», ivi). Blondel aveva fatto dell’azione, che è quanto di più concreto e storico una persona possa compiere, una categoria quasi metafisica, intravvedendo in essa il punto di contatto tra l’immanente e il trascendente, e giungendo a conclusioni che lasciano intravedere una sintesi perfetta dell’unità di fede e ragione.
Mi chiedo ancora: come è possibile che ora non interessi più il rapporto reciproco tra la fede e la ragione? Eppure in classe, nei licei e non solo, questo argomento suscita sempre accesi e interessanti dibattiti. Forse ci siamo addormentati da questo punto di vista? A cosa prestiamo attenzione allora?
Quanto è oggi lontano un atteggiamento razionale da un’adesione di fede? Forse si ha paura che la ragione possa smascherare quei principi a cui ciecamente ci si affida senza pensarci due volte, quasi a voler costituire un alibi?
Nell’ultima parte di FR, Giovanni Paolo II si appella ai filosofi, chiedendo loro, tra le altre cose, di approfondire le dimensioni del vero, del buono e del bello. Cosa rimane di quell’appello? Forse ci si è soffermati troppo sul primo dei trascendentali dell’Essere e si sono trascurati gli altri due, il buono e il bello?
Probabilmente oggi, venti anni dopo FR, abbiamo bisogno di recuperare questi due aspetti, a partire dal concreto del vissuto ecclesiale, perchè il buono e il bello, adeguatamente raccontati, siano strumenti razionali che contribuiscano a dare risposta, a dare ragione di quella speranza che ci anima da credenti, affinché chi non condivide lo stesso orizzonte di fede non sia messo nelle condizioni di affermare semplicisticamente che la fede è rifugio di chi non ha argomenti.
Il vero, il buono e il bello quindi come elementi costanti e ricorrenti di un pensare filosofico, che «è spesso l’unico terreno d’intesa e di dialogo con chi non condivide la nostra fede» (FR 104).
Con un velo di provocazione, mi chiedo: in questo tempo, in cui assistiamo ad un pontificato definito “pastorale”, dopo due papi intellettuali che in qualche modo ci hanno formati, come concretizziamo ora questo annuncio che dovrebbe partire da una ragione illuminata dalla fede?
E per finire, sempre per suscitare un eventuale dibattito, mi chiedo lapidariamente, cosa è successo in questi venti anni al punto da consegnare all’oblio quel documento?
Alcuni spunti sacramentali intorno a Fides et ratio 13
di Andrea Grillo
Il n. 13 dell’enciclica Fides et ratio, nel contesto dei numeri precedenti e successivi, offre una descrizione della posizione della ragione di fronte al Mistero, che recupera il concetto di sacramentalità in un modo estremamente significativo. Rileggiamo, 20 anni dopo, un momento centrale di questo passaggio:
«In aiuto alla ragione, che cerca l’intelligenza del mistero, vengono anche i segni presenti nella Rivelazione. Essi servono a condurre più a fondo la ricerca della verità e a permettere che la mente possa autonomamente indagare anche all’interno del mistero. Questi segni, comunque, se da una parte danno maggior forza alla ragione, perché le consentono di ricercare all’interno del mistero con i suoi propri mezzi di cui è giustamente gelosa, dall’altra la spingono a trascendere la loro realtà di segni per raccoglierne il significato ulteriore di cui sono portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità nascosta a cui la mente è rinviata e da cui non può prescindere senza distruggere il segno stesso che le viene proposto.
Si è rimandati, in qualche modo, all’orizzonte sacramentale della Rivelazione e, in particolare, al segno eucaristico dove l’unità inscindibile tra la realtà e il suo significato permette di cogliere la profondità del mistero» (FR 13).
Il dettato di questa citazione mostra bene l’ottica in cui la sacramentalità è considerata, quasi come il “modo” con cui il significato della Rivelazione si offre alla “conoscenza di fede” e alla “ragione teologica”, nella sua realtà di segno. Il modo con cui la Rivelazione si offre alla conoscenza della fede spinge però a porre una questione diversa, che la Enciclica non affronta direttamente, ma che dipende strettamente da questa valorizzazione della dimensione sacramentale della rivelazione: si tratta del “modo” con cui la fede “passa” dal segno al significato. Questo “passaggio”, questo “rinvio” dal segno al significato, dal “signum” alla “res”, non è semplicemente riducibile all’atto di comprensione intellettuale.
Qui la ratio implicata, proprio a causa della complessità del segno con cui essa si confronta, deve essere articolata su un campo più vasto di quello semplicemente intellettuale.
La ragione è più che la semplice “ragione teoretica”. In essa sta anche una dimensione di “storia”, di “esperienza” di “tradizione” e di “rito”, che solo così può rispettare fino in fondo il mistero, il quale si offre appunto storicamente, esperienzialmente, tradizionalmente e ritualmente. Ancora più precisamente, potremmo dire che il “modo” specifico di offrirsi della Rivelazione impone alla fede (e alla teologia) una adeguata articolazione del proprio “modo” di comprensione.
D’altra parte queste esigenze sono percepite con nettezza dalla stessa enciclica FR, quando sottolinea le dimensioni di temporalità e di storicità in cui deve essere inserita la rivelazione di Dio. Si dice chiaramente che
«nel cristianesimo, il tempo ha una importanza fondamentale» (FR 11).
Oppure, più avanti, si arriva alla seguente considerazione:
«La storia, quindi, diventa il luogo in cui possiamo costatare l’agire di Dio a favore dell’umanità. Egli ci raggiunge in ciò che per noi è più familiare e facile da verificare, perché costituisce il nostro contesto quotidiano, senza il quale non riusciremmo a comprenderci» (FR 12).
Si deve dunque riconoscere che la non separazione tra ragione e fede, che tutta l’enciclica vuole riportare al centro della attenzione della riflessione contemporanea, deve poter contemperare due ordini di considerazioni, entrambi di fondamentale importanza:
a) che la Rivelazione offre all’uomo la propria verità, permette a chiunque di accogliere il mistero della propria vita:
«La Rivelazione, pertanto, immette nella nostra storia una verità universale e ultima che provoca la mente dell’uomo a non fermarsi mai» (FR 14);
b) che, d’altra parte, non è lecito pensare questa verità semplicemente in continuità con la “verità di ragione” dell’uomo:
«la verità che la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione. Essa, invece, si presenta con la caratteristica della gratuità, produce pensiero e chiede di essere accolta come espressione di amore» (FR 15).
Anche alla luce di questo duplice aspetto della intenzione della enciclica, non si può non notare una singolare convergenza tra queste prospettive appena indicate e gli sviluppi recenti delle discipline che più direttamente hanno a che fare con la “sacramentalità” in senso stretto. Anche la liturgia e la sacramentaria avvertono infatti la medesima priorità di integrare la sacramentalità della rivelazione con la sacramentalità della fede, la adeguazione della risposta dell’uomo alla particolare forma con cui la grazia di Dio lo interpella.
Per questo non sembra inutile considerare due tipi di conseguenze che derivano dalla stessa logica della provocazione della enciclica al pensiero teologico contemporaneo.
Da un lato giunge al liturgista e al sacramentalista l’invito a considerare con cura la delicatezza della propria funzione nel porre a tema il “sacramento” come dimensione specifica di questo “orizzonte” più generale costituito dalla particolarità sacramentale dello stesso rivelarsi di Dio.
Dall’altro lato, però, è il liturgista e il sacramentalista a potere/dovere rilanciare alle altre discipline teologiche, ed anche allo stesso pensiero filofico, l’esigenza di un ampliamento della nozione stessa di ragione, di una sua più ampia articolazione, per poter dar conto appieno di quella dimensione simbolica e rituale che appare come decisamente privilegiata nello sperimentare e nel comprendere la sacramentalità stessa del rivelarsi di Dio in Gesù Cristo.
Intorno a questi due movimenti convergono tutte quelle considerazioni che testimoniano il contributo e il compito della scienza liturgica e sacramentale all’approfondimento dell’intellectus fidei, nonché la sollecitazione ad integrare nelle “ragioni” della fede quel lato simbolico, storico, corporeo e rituale che costituisce appunto l’”orizzonte sacramentale” della Rivelazione di cui parla l’enciclica FR.
Pubblicato il 13 settembre 2018 nel blog: Come se non.