Isabella Guanzini, ordinaria di teologia fondamentale all’Università cattolica di Linz (Austria), è autrice del volume “Filosofia della gioia. Una cura per le malinconie del presente”, Ponte alle Grazie, 2021.
- Gentile Isabella, vuol dire qualche parola di presentazione della sua formazione e del suo percorso accademico?
Vengo dal mondo della scuola, dove ho insegnato filosofia e scienze sociali per una decina d’anni. Dopo gli studi di teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano, ove ho conseguito la licenza in teologia fondamentale, ho ottenuto il dottorato in Studi umanistici all’Università Cattolica di Milano.
A Vienna ho poi acquisito il dottorato in teologia fondamentale. Il percorso accademico si è poi consolidato con la cattedra di teologia fondamentale, prima a Graz, quindi a Linz. Vivo a Vienna e – pandemia permettendo – faccio la pendolare tra Vienna e Linz.
- Di cosa si è occupata nelle sue pubblicazioni, sino a “Filosofia della gioia”?
Sin dall’inizio della mia attività di ricerca mi sono occupata in fondo di un’unica cosa, ossia della traduzione di categorie biblico-cristiane nei linguaggi secolari, quali quello filosofico ed estetico, e da ultimo, quello della psicoanalisi. La questione della traduzione è da sempre il motore teorico della mia ricerca teologica e filosofica. Mi sembra che il ruolo della teologia fondamentale sia proprio questo: declinare ciò che costituisce il cuore della tradizione in modo almeno comprensibile o plausibile non solo all’altro secolare, ma anche all’altro religioso (non cristiano), ossia entro un contesto insuperabilmente plurale.
Peraltro, la teologia fondamentale è la disciplina per così dire più aperta del sapere teologico cristiano, chiamata a un dialogo costitutivo tra il religioso e il secolare e l’altro religioso. Il mio lavoro si muove dunque sempre sulla soglia tra i diversi linguaggi e contesti culturali.
Anche il lavoro che ho sviluppato in “Filosofia della gioia” – così come in “Tenerezza” – nasce con questa intenzione, in uno stile di confronto teorico con molti autori – donne e uomini -, anche molto laici.
- Vogliamo mettere a capo della nostra intervista l’immagine della bicicletta che, con una certa piacevole sorpresa, ho incontrato nel suo libro? Cosa c’entra la bicicletta con la gioia?
L’immagine della bicicletta è presa da due opere a cui ho fatto riferimento.
La prima bicicletta a cui ho pensato è quella del piccolo bambino Champion, il protagonista del bellissimo film di animazione “Appuntamento a Belleville”. Champion è un bambino orfano che vive con la nonna. Vive ma è senza vita, ossia senza sogni, senza passioni, senza desideri. La nonna cerca di rimetterlo nella vita. Prova senza successo, sinché gli regala la bicicletta: prima un triciclo e poi una bici da corsa.
Nella vicenda narrata dal film la bicicletta diviene il segno evidente del ritorno alla vita di questo bambino. L’opera non ci dice chiaramente perché proprio la bicicletta lo abbia risvegliato. Nella stanza di Champion viene solo fatta notare una foto dei genitori – insieme – su una bicicletta. Sta di fatto che la passione per la bicicletta si trasforma in una passione per la vita, innesca il desiderio, la gioia di vivere. Da novello Fausto Coppi – Champion – arriva così a vincere il suo Tour de France.
La seconda bicicletta a cui ho pensato è quella che Madeleine Delbrêl usa per rappresentare l’esperienza spirituale, che è vissuta da lei come una esperienza molto dinamica, un’esperienza dell’aperto. Ecco, la bicicletta-paradosso della Delbrêl: se non viene usata, rimane ferma e, da ferma, crolla a terra. È come la vita che, per essere veramente vissuta, deve essere messa continuamente in moto pigiando sui pedali, raggiungendo quell’equilibrio instabile, pericoloso e tuttavia così gratificante da apportare la gioia.
E la gioia vive di questo stesso movimento, perché è reazione rispetto a ciò che è fermo, statico, chiuso. Madeleine Delbrêl parla di una “insicurezza vertiginosa” che non è altro che l’immagine della nostra vita. Se la nostra bicicletta resta appoggiata ad un muro appare come un oggetto triste che suscita malinconia. Così la nostra vita non può giacere solitaria, nel chiuso, se vuole uscire dalla tristezza.
Attraverso l’immagine della bicicletta è possibile dire che cosa sia la gioia: da una parte, ha a che fare con la passione e il desiderio, dall’altra, col movimento, in un equilibrio sempre instabile.
Gli umori dell’animo
- Lei ha già dato una prima descrizione della gioia. E la tristezza cos’è?
Il concetto è speculare e contrario alla gioia. Si può dire che la tristezza è la sensazione che proviamo quando siamo separati dalla nostra potenza, da ciò che corrisponde a ciò che possiamo. È qui che si può fare esperienza di un’esistenza che si intensifica, ossia della gioia di un incontro riuscito. Mentre la tristezza nasce da ogni cattivo incontro e dalla progressiva distanza da noi stessi: anche se facciamo molte cose, restiamo in un certo modo separati da noi stessi, e questo fare non produce alcuna risonanza.
Gilles Deleuze – che è molto presente nel libro non soltanto per la sua lettura straordinaria di Baruch Spinoza – usa l’icona del pittore che conquista il colore, che entra nel colore: ecco un’immagine della gioia, che è la gioia di una conquista. Qui si rivela e si attualizza una corrispondenza che allarga la vita, nel momento in cui avviene una unione fra ciò che si è e ciò che si desidera essere, nel miracolo di un accordo capace di abolire ogni separazione. Qui la gioia diviene il nome di una vita realizzata, di una vita beata. Pensiamo a Van Gogh e alla sua conquista del giallo.
Ma si può anche pensare alla gioia di un musicista che conquista una nota o dello scrittore che entra nel suo racconto. Ma anche a ogni lavoro ben fatto o – certamente – a una relazione in cui ciascuno si sente dono per l’altro. La gioia appare qui come ciò che realizza una potenza, come l’effetto sperato dell’incontro con ciò che si è cercato e desiderato da tempo. Non si tratta della mera ricerca di una soddisfazione, né del mito illusorio dell’auto-realizzazione, ma del piacere puro di una conquista.
Non si percepisce né la strategia della competizione né la soddisfazione di colui che primeggia. Piuttosto, si gioisce nell’entrare in contatto con una zona inesplorata e tuttavia desiderata del reale, che improvvisamente si manifesta in accordo con il proprio pensare e il proprio sentire.
Naturalmente la conquista o la realizzazione della condizione di possibilità della gioia non è mai raggiunta una volta per sempre. Così come la perdita e la condizione di tristezza non è mai irreversibile. Tutto sta nella continua, instabile, ricerca che operiamo nella nostra vita.
- Quali sono gli effetti della tristezza e della gioia sulle nostre relazioni?
La tristezza, come ho detto, corrisponde ad una perdita di intensità della vita, ad un afflosciamento della vita e quindi del desiderio di relazione con gli altri. La gioia aumenta altresì l’intensità della vita, la nostra potenza di pensare e di fare, insieme alla nostra capacità di provare affetto.
La gioia crea aperture e abbatte muri, mette in contatto i corpi e le storie. La tristezza svuota, chiude su sé stessi, isola dagli altri.
La gioia costruisce il senso di comunità. La tristezza lo intralcia, fino a spegnerlo.
- Quanto c’è di fisico, corporeo, in queste sensazioni?
La circolazione della potenza che dà gioia si realizza nel e attraverso il nostro corpo. Perciò i nostri affetti sono il conatus del nostro corpo, che hanno però sempre più bisogno di una mappa. Occorre qualcosa che ci aiuti a orientarci nel sentire, non soltanto nel pensare.
Dalla pandemia alla guerra
- “Filosofia della gioia” è un libro scritto nel tempo della pandemia. Ora c’è la guerra. Come parlare di gioia?
Occorre parlare soprattutto di ciò che non c’è e rischia di estinguersi. La potenza della parola può, per così dire, rendere presente ciò che non c’è, che si è perduto sotto i colpi della violenza, della durezza o della tristezza: la pace, la tenerezza, la gioia. La pandemia è (stato) il tempo della separazione e perciò, di per sé, della tristezza.
Tale è il sintomo che si è manifestato con maggiore evidenza tra gli adolescenti, ossia tra le vite che fanno della relazione l’esigenza primaria. Continuiamo a leggere, in proposito, i rapporti preoccupanti sulla condizione psichica dei ragazzi usciti dalla pandemia, ma non ancora dalla malinconia che essa ha generato. Questo mostra chiaramente come l’essere umano non è fatto per vivere nel chiuso, anche quando non gli manca nulla per sopravvivere.
La tristezza è il sintomo di quegli stati passivi in cui ci sentiamo in balìa delle nostre paure e dei nostri fantasmi. Per questo alla tristezza si associa la condizione dell’impotenza e della paura, due sentimenti che la pandemia ha certamente intensificato. In quanto figura della tristezza, la paura comporta un indebolimento del nostro desiderio vitale e della nostra capacità di pensare, di agire e di gioire.
La paura genera un ritiro psichico dalla socialità, che accresce il sospetto e una sorta di avversione nei confronti dell’estraneo. La realtà appare soprattutto come qualcosa di oscuro e inestricabile, come un animale ignoto e temibile. La paura ha origine e si acutizza precisamente quando il soggetto perde il suo contatto immediato e simpatetico, ossia la fiducia nei confronti di ciò che lo circonda. E, senza la fiducia nell’altro, non ci può essere gioia.
- In quale rapporto possiamo porre la fede e la gioia?
Vorrei proporre l’immagine del parto, della nascita, del miracolo di una vita nuova che viene alla luce. Il passaggio necessario dal dentro al fuori, dall’immanenza alla trascendenza, sigillo di una “ospitalità senza proprietà”, non avviene certo senza dolore. Anche qui domina un’insicurezza vertiginosa, in cui si ha una sorta di presagio della morte. Il parto è quella soglia molto dolorosa in cui si fa una sorta di esperienza di morte.
L’angoscia è tale da sentire per un attimo di poter perdere tutto. C’è un passaggio abissale, quello che conduce una vita nascente fuori nel mondo: qui, per un momento, vita e morte si incrociano, scambiandosi il destino. L’ansia e i fantasmi del travaglio, il buio degli ultimi istanti in cui la donna concepisce, come mai prima, la possibilità del nulla, si traducono nella luce di una nuova nascita, impossibile da simbolizzare. Il miracolo della vita appena nata muta il dolore in una “gioia che nessuno può togliere”, secondo il linguaggio di Gesù nel vangelo di Giovanni.
Nel testo di Giovanni un simile passaggio dalle doglie del parto alla nascita di un nuovo essere umano è immagine del passaggio della Pasqua dalla croce alla gloria, dall’afflizione alla gioia. Pesach significa proprio passaggio di liberazione, uscita dall’Egitto come simbolo di ogni condizione di schiavitù e di oppressione. È la festa di chi desidera passare, di chi vuole uscire dalla tristezza, in uno slancio verso una nuova esperienza di pienezza. Il Venerdì e il Sabato Santo sono il passaggio oscuro del parto, dopo l’attesa quaresimale: il momento della paura assoluta della perdita, prima che la luce si lasci annunciare.
Ecco, la fede è ciò che ci fa resistere nel passaggio, è il dono di una resistenza contro la perdita della fiducia. La fede è la percezione che non sarà una catastrofe: è la speranza che alla fine c’è la conquista della gioia, oltre il dolore.
La gioia
- La gioia è una conquista o un dono?
La gioia è, insieme, una conquista e un dono. La gioia è il piacere di una conquista, come ho detto. Ma nello stesso tempo la gioia non è mera soddisfazione a motivo di un raggiungimento autoprodotto. All’aspetto della ricerca, e quindi dello sforzo che tutte le passioni comportano, si accompagna quel puro elemento di grazia che è un altro nome della gioia.
C’è dunque qualcosa di cui siamo responsabili. Eppure, senza quel sovrappiù di gratuità assoluta che nessuno si può dare da sé, non si dà alcuna esperienza della gioia.
- Si possono educare i bambini, perché siano poi adulti con gioia?
Nel tempo della “fine dell’autorità”, non si tratta più di imporre ai nostri figli regole e precetti indiscutibili, né certamente di forgiare destini. Nella sua essenza, l’educazione corrisponde a un certo rapporto che stabiliamo fra noi e i nostri figli, a un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, i pensieri. È una questione di paesaggio e di stile.
Nel racconto Le piccole virtù, Natalia Ginzburg si interroga sul senso e la possibilità dell’educazione in un tempo di crisi, dove tendono a prevalere quelle che lei definisce le “piccole virtù”: il senso di protezione, il risparmio, l’astuzia, la prudenza, il desiderio di successo. Le piccole virtù sono fondamentalmente volte alla sicurezza e alla sopravvivenza, al riparare i figli dai colpi della fortuna.
Benché in sé non disprezzabile, un clima ispirato al rispetto delle piccole virtù declina lentamente la vita verso la paura di vivere, animando un istinto di difesa non privo di cinismo. Al contrario, le grandi virtù, che dovrebbero nutrire ogni rapporto educativo, sono di un ordine diverso: il coraggio, la dedizione, l’amore del sapere e della verità, quale effetto di una fiducia profonda nella vita, dell’amore della vita.
Natalia Ginzburg offre una mappa di affetti gioiosi nel segno della generosità e del coraggio del vivere, senza finzioni: apre a una dimensione appassionata e insieme sobria dell’esistenza che resiste allo scoramento e non cede sul proprio desiderio, nonostante il paesaggio di timore e sconforto in cui si trova a pensare e ad agire.
Le grandi virtù sono l’antidoto alla società del sospetto e della paura, che sembra oggi avanzare senza rimedio, per far strada a un agire audace e alla possibilità della gioia. Al centro dell’educare non si pone la questione del successo o dell’insuccesso, ma quella di un profondo attaccamento alla vita. Per questo si può educare alla vita, e alla gioia, soltanto amando la vita, e vivendo nella gioia.
- Vuole accostare alla gioia la parola vocazione?
Certamente la gioia si genera da una vita vocata, ossia chiamata, capace di destinazione. Ma cosa significa essere chiamati? Significa sentirsi preceduti e accompagnati dalle parole dell’altro, che si sono iscritte in noi stessi senza imporre sé stesse.
La vocazione nasce da uno sguardo che sa cogliere le nostre inclinazioni e da una parola che sa incoraggiarci ed accompagnarci, senza forzature. Guardare e accompagnare il lento prender corpo di una vocazione: ecco il senso profondo dell’educazione. Attendere la sua fioritura, che segue misteriosamente il suo tempo e la sua verità. La vocazione di un essere umano non è altro che la più alta espressione del suo amore per la vita, che si fa storia di un desiderio e di una libertà singolari.
- Possiamo scegliere le persone che ci danno gioia o non abbiamo scelta?
Questa è una domanda di natura antropologica e anche teologica veramente “drammatica”. L’altro ci costituisce. L’altro ci dà senz’altro la gioia. Non può darsi gioia senza l’altro. Ma l’altro ci può condurre anche all’inferno. Non sempre, di fatto, le relazioni costruiscono contesti gioiosi.
Il tempo della pandemia, da una parte, ci ha costretto all’isolamento; dall’altro, ci ha consegnato alle relazioni più strette, quelle domestiche, rivelando sia l’aspetto gioioso del nuovo tempo a disposizione, sia le difficoltà di molti contesti familiari. Ne ha messo in luce la fragilità e, nello stesso tempo, ha generato una profonda nostalgia per le relazioni mancate. Ci ha fatto riflettere su stili di vita non all’altezza della gioia, e ci ha forse aiutato a osservarci con più tenerezza e indulgenza, alla luce del destino comune.
Le parole e la tradizione
- Gioia, libertà, passioni, desideri… non sono forse parole ritenute piuttosto pericolose dalla tradizione?
Queste parole comportano certamente una dimensione di rischio e di esposizione. Ogni esperienza di conoscenza e di legame comporta sempre un rischio: c’è sempre qualcosa di incontrollabile, imprevedibile, indeducibile, in cui tutto può accadere. Dove c’è un affidamento, c’è anche il rischio di perdersi. Ma questa è la nostra vita. Se vogliamo che sia una vita gioiosa, dobbiamo correre questo rischio. Come ho detto, una vita tenuta in sicurezza non può essere una vita gioiosa.
Scrivere sulla gioia è stato per me il tentativo di entrare nella tristezza e nella rabbia del presente compiendo un atto di resistenza e di protesta contro il risentimento, la desolazione e l’incupimento. È stato un atto di fede nella possibilità di una ripresa materiale e morale della vita comunitaria, oltre il sospetto e l’angoscia generati dalla pandemia.
Ora, con il dramma della guerra in corso in un’Europa in cui sono tornati eventi per noi ormai impensabili e quasi impronunciabili – assedio, occupazione, bombardamenti – parlare della gioia significa reagire alla violenza, non lasciare alla distruzione e alla morte l’ultima parola.
- Si può nascondere la gioia nel proprio segreto?
Trattenere la gioia, nascondere la gioia come fosse qualcosa di ingenuo e di inopportuno, quasi osceno, in tempi di crisi, significa dimenticare la sua dimensione drammatica e soprattutto il suo legame originario con le fonti della vita. Per questo vi è una dimensione aperta, direi femminile, oceanica, che si impone nell’esperienza della gioia, che sfida la paura, l’orrore, ogni tentazione del chiuso e del controllo.
Vi è inoltre una tendenza accademica, tipica del discorso dell’università, che ritiene gli affetti – e quindi anche la gioia – incompatibili con la serietà del pensiero, anche del pensiero teologico. Ritengo invece che tale meccanismo di difesa nei confronti di ciò che non è del tutto simbolizzabile e formalizzabile secondo le categorie classiche del pensiero debba essere bucato, messo in crisi, per mostrarne la potenza generativa e creativa, non meramente emotiva.
In particolare, il sapere teologico ha la responsabilità di rendere conto di ciò che nelle altre forme di conoscenza resta sistematicamente rimosso, per mostrane la forza della verità, non da ultimo, religiosa. In questo caso la gioia funziona quale istanza critica, con una spiccata caratterizzazione di genere.
Il potere
- Isabella, perché la gioia dà fastidio al potere?
Il tiranno, come dice Deleuze, ha bisogno di anime spezzate, così come le anime spezzate hanno bisogno di un tiranno. Per anime spezzate intendo le anime separate da sé stesse e da ciò che possono, in balìa dei propri fantasmi e del potere, quindi tristi. Il potere ha bisogno di tristezza, perché la tristezza è l’affetto che implica una diminuzione della potenza di agire.
Le passioni tristi conducono l’esistenza verso il suo grado minimo di potenza, segnato da una condizione di inermità e di passività che rende i soggetti particolarmente sensibili alle suggestioni: dalla superstizione religiosa, alla fascinazione nei confronti di figure autoritarie, dalla diffidenza nei confronti dei simili alla fuga dal mondo e dalla libertà.
La tristezza produce una condizione di scomposizione sempre più profonda che tende a farsi succube alle promesse identitarie dei poteri forti. Per contro, la comunità in cui circolano gli affetti è, per sua natura, democratica nel senso più proprio, aperta, ospitale, plurale.
- Questo vale anche per il potere ecclesiastico?
Nietzsche è molto critico nei confronti di un potere sacerdotale che si nutre del senso di colpa e di debito infinito nei confronti di Dio indotto negli uomini e che li condanna a uno stato di perenne tristezza. Tale potere pastorale genera una morale del sacrificio e dell’offerta di sé super-egoica e anti-gioiosa, che asservisce i soggetti separandoli sempre più profondamente dal proprio desiderio.
Quando il potere ecclesiastico si trasforma in questa forma sacrificale dell’esistenza diviene una figura del risentimento, che ha in odio la vita, che disdegna ogni entusiasmo. In ogni caso, nella Chiesa la docilità è sempre stata considerata un valore. Anche il potere ecclesiastico ha sempre amato le anime sottomesse. Il potere non ama la libertà. Le anime sottomesse non amano la libertà.
Ricordiamo tutti la “Leggenda del grande inquisitore”. La schiavitù volontaria è comoda, ma sicuramente non può essere motivo gioia. La gioia significa una vera e propria ribellione allo stato di sottomissione. Perciò non è mai stata molto gradita, neppure nella Chiesa, almeno quella più istituzionale.
Papa Francesco, secondo me, rappresenta un controcanto rispetto a questo potere pastorale che genera anime risentite e sottomesse. Non per nulla la gioia rappresenta una parola chiave del suo pontificato. Ci ha mostrato come lo stile clericale ha vissuto e vive tuttora, troppo spesso, in una visione di separazione del sacro dal profano, del puro dall’impuro, del religioso dal secolare. Il clericalismo vive nel regime di separazione.
Questo è il pensiero clericale, più o meno a sé consapevole. Per il pensiero clericale tutto diventa perciò un oggetto: l’evangelizzazione, la pastorale, la missione ecc. Il pensiero clericale fa del mondo un oggetto di cui il clero è il soggetto. Gli oggetti di questa pastorale non possono pertanto essere soggetti che vivono nella gioia.
Per ciò, per me, è importante oggi dissociare il servilismo dalla falsa idea di docilità o di mitezza. La mitezza di Gesù è un’altra cosa: è dire sì alla vita, sempre, assumendone in pieno la responsabilità; non è la sottomissione al potere costituito. La docile sottomissione è causa di tanta tristezza nella Chiesa. Chissà se ne verrà tratta qualche conseguenza nel dibattito sinodale!
- Si può fare a meno del potere, pur di vivere nella gioia?
Non c’è alcun dubbio che le donne e gli uomini dell’Occidente avanzato associno l’idea di potere a una forza più o meno anonima che viene dall’alto. Il pensiero corre oggi ai grandi dispositivi economici e finanziari, alle élites e ai grandi interessi che muovono le trame (invisibili ai più) delle esorbitanti manovre globali.
Il potere può tuttavia essere inteso anche in un senso diverso, ossia come ciò produce un effetto, che genera un movimento, facendo accadere qualcosa di nuovo. I nostri corpi e le nostre menti sono centri ad alta densità affettiva: ogni incontro, ogni gesto, ogni parola ne trasforma l’intensità di vita, ha il potere di generare gioia e tristezza, di aprirci al mondo o di farci cadere semplicemente dentro noi stessi, come a peso morto.
Ci sono azioni, sguardi e discorsi capaci di spegnere, come una valanga di cenere sopra braci ardenti, la forza vitale di un individuo o di una comunità. La gioia sa invece trovare e liberare la brace sotto la cenere, ridando così vita al fuoco.
- L’ultima domanda è dedicata al poveretto che ha sotterrato il talento nella parabola (Mt 25,14-30): cosa ha fatto di tanto male per essere condannato?
I vangeli descrivono senza pudore la durezza di Gesù nei confronti di tutto ciò che restringe le possibilità della vita e la priva della sua potenza generativa: l’imposizione anche religiosa di pesi inutili, la trasfusione colpevole di paure in vista del dominio, il freno moralistico delle passioni autentiche, il godimento del potere nel gestire corpi docili e sottomessi. Il servo che sotterra il suo talento viene scacciato nelle tenebre.
Sotterrare il talento per paura di perderlo significa perdere la propria vita, rendendola una non-vita. Tradire la propria vita significa, nella lingua dei Vangeli, seppellirla sottoterra, riducendo ogni pretesa nei suoi confronti. Più noi cerchiamo di auto-conservarci e di immunizzarci nei confronti della vita, più ci condanniamo alla morte.
L’uomo della parabola che sotterra il talento è un uomo che pensa a un Dio inquietante e punitivo, che non vuole la vita dei suoi figli. Porre la vita – e la propria religiosità – all’insegna del sospetto e della paura di Dio significa rinunciare a vivere, significa chiudersi alla sovrabbondanza della vita, condannarsi alle pene di una sorta di inferno terreno, senza alcuna gioia. I primi due servi rischiano con coraggio un investimento dei beni dall’esito incerto, facendo poi fruttificare la dotazione iniziale.
Il terzo servo non azzarda alcunché: nell’ansia di perdere anche il poco che ha si consegna a una vita dannata, sterile e terrorizzata; disinnesca ogni potenza creativa e dismette ogni responsabilità, ritirandosi semplicemente dall’impresa del vivere.
Perché chi trattiene gelosamente la propria vita la perde, mentre chi crede nella sua potenza la dona e così la moltiplica, vivendo nell’abbondanza. La parabola avverte i lettori su cosa nell’ultimo giorno saranno giudicati: sulla dedizione profusa nelle cose della vita, sulla capacità di mettere a frutto qualcosa, anche con poco, sulla mancanza di paura come virtù che dona.
Avere la vita (Gv 10,10) si distingue dalla mera conservazione della vita: è qui che avviene il passaggio da una vita come condizione alla vita come vocazione.
La gioia indica allora la direzione contraria al sepolcro. Perché ha la forma di una chiamata che trae fuori da una condizione di ristagno, per rimettere in moto l’esistenza verso ciò che le è più proprio.