All’articolo di Paolo Cattorini, proposto da ormai più di due mesi, ha fatto seguito un buon numero di ulteriori prese di posizione, manifestazione di un interesse significativo. Quel contributo si concentrava esplicitamente sulle «scuole di teologia per laici» e sulla particolare figura di docente che se ne dovrebbe fare carico, ma lasciava che emergessero temi esuberanti rispetto all’organizzazione pastorale della formazione di base dei credenti; la ricchezza di quelle questioni autorizza a ritornare sul tema anche a distanza di tempo, concentrandosi su alcuni aspetti contigui a quanto le varie riflessioni hanno già messo in luce.
La dignità propria del sapere teologico
L’opportuna attenzione per una ricerca teologica che intenda la sua natura e dunque la sua missione come sostegno – meglio, nella originaria interazione – alla fede ecclesiale, in quanto di quella stessa fede è intelligenza critica, spinge a interrogarsi sulla sua forma propria, ancor prima di enfatizzare le differenze date dalle particolari destinazioni e strutture, accademiche o popolari. Una forma che, proprio in virtù della sua connaturalità ecclesiale, trascende i confini dell’istituzione: è contemporaneamente sovrapponibile alla responsabilità verso l’umano e il suo pensiero in quanto tale.
L’unitarietà della teologia, previa alla sua declinazione funzionale, richiama l’attenzione anche su altri nessi, nei confronti dei quali talvolta l’insistenza sulla dialettica piuttosto che sulla sintonia non è sempre salutare, perché rischia di impoverire la dignità propria al sapere teologico.
In particolare, ci si può riferire alla differenza tra università laiche e facoltà teologiche, ma anche alla distanza, che spesso è denunciata propendendo univocamente per la prima delle due forme, tra un sapere che trova la sua ragione nella destinazione pastorale (al più didattica) e un’altra che invece sarebbe infeconda perché pare avere la sua stessa produzione come unico scopo.
Infine, non è secondaria l’insistenza che si produce attorno alla rivendicazione del ruolo prioritario che la pratica e la vita dovrebbero avere rispetto all’elaborazione teorica, pratica e vita sono cioè intese come origine e giustificazione della ricerca, sino a rischiare di intendere questa come suo semplice e in fondo ultimamente trascurabile strumento.
Una incomprensione che ritiene che nell’obbedienza al vangelo intercorra una seria alternativa tra la realizzazione operosa della carità e la dispersione nella teoria o nell’estetica, giudicate inconcludenti e inadatte a incidere e trasformare la realtà – un fraintendimento che talora è purtroppo rafforzato da alcune espressioni di Papa Francesco, estemporanee ma di forte impatto.
Sul senso dell’impresa
È forse possibile, tuttavia, considerare il tema anche assumendo un’altra angolatura, che non intende sottrarsi alla necessaria – e talvolta desolante – constatazione dei fatti, né alla responsabile presa in carico di interventi concreti, ma che assuma come un dovere quello di sostare sulla domanda relativa al senso dell’impresa teologica, sinceramente aperta anche alla verifica della sua ragion d’essere nell’odierno contesto sociale ed ecclesiale.
Accade infatti di frequente che, al fine di restituire vigore a un’istituzione che manifesta segnali di fatica o decadenza, si tenti di rafforzare ciò che resta a partire da interventi esterni, non sempre efficaci per garantire un consolidamento permanente. Oppure, capita che si corrobori quanto esiste trasformandone la natura, sforzandosi di rispondere a vari bisogni, ma guidati dal principio economico della domanda e dell’offerta, estraneo alla logica e alla missione che hanno fondato l’origine della teologia e consentito la sua posizione, tanto tra i ministeri che nutrono la chiesa, quanto tra le scienze che rendono appetibile la ricerca umana.
Le varie modalità attraverso le quali è sviluppato il sapere teologico in Italia sono certo frutto di una particolare storia, nella quale l’organizzazione ecclesiastica e la regolamentazione civile si intrecciano con i fondamenti epistemologici che consentono l’esistenza e la distinzione di una disciplina tra le altre, ma solo l’intima consapevolezza del fatto che la ricerca teologica, in sé e per sé, corrisponda a un servizio al mondo e alla Chiesa – nella loro reciproca implicazione – garantisce e autorizza il suo stabile permanere, dunque la perenne revisione delle maniere attraverso le quali tale sapere possa esprimere la sua fecondità.
La ricerca imprescindibile
Le difficoltà patite dalla teologia non sono certo esclusiva degli ultimi anni, né indivisibili dalle trasformazioni e dalle fatiche che toccano anche la didattica e la ricerca svolte nelle università civili. Al contempo, è forse condizione peculiare – occasione specifica – di quest’età segnata da mutamenti tanto rapidi da rendere disperante la decifrazione della loro direzione e impossibile la consistenza di un’ampia progettazione, la possibilità di insistere ulteriormente, osando ribadire la necessità di scelte radicali che possano manifestare orizzonti audaci.
Le evidenze numeriche, relative al sempre più esiguo numero di studenti, alla progressiva mancanza di risorse economiche e umane, al diverso peso che il cattolicesimo ha nella società italiana, consegnano l’esigenza di decisioni che possono anche corrispondere al coraggio della purificazione e della rinuncia, alla proposta di forme organizzative realmente capaci di mirare all’ufficio primario della teologia, dal quale la ricerca non è disgiungibile e dal quale le altre applicazioni possono discendere.
Rafforzare la tipicità della ricerca teologica, insistere sulla sua differenza piuttosto che adattarla previamente, svilendone i contorni per farne una risorsa a buon mercato per una generale e immediata formazione, potrebbe essere una condizione per realizzare la possibilità di condividere la vita di tutti e la capacità di abitare territori nuovi; in fondo, in tutta semplicità, una delle modalità per vivere il vangelo nella civiltà umana, che con le altre intesse un nesso vicendevole e necessario.
In particolare, la marginalità che connota la teologia in virtù del suo situarsi a latere rispetto allo svolgersi delle esistenze e, proprio grazie ciò, dell’essere loro forza critica, la innesta senza ulteriore mediazione tra le forme autentiche della risposta al vangelo. Una risposta tanto personale quanto comunitaria, suscitata esclusivamente dalla rivelazione divina nella storia di Gesù, che si consegna irrimediabilmente all’accoglienza umana, affidandosi alle peculiarità – anche speculative – attraverso le quali l’umano esprime la sua presenza nel mondo e insieme suscitando il desiderio della loro permanente conversione, affinché siano capaci di onorare la logica evangelica, rendendole ragione.
Inoperosità
Prima ancora di considerarne lo statuto epistemologico, è allora possibile domandarsi in cosa consista lo specifico dell’attività teologica. Ciò comporta il riconoscimento della comunanza con le altre forme nelle quali il pensiero umano si costituisce, ma anche l’evidenza della sua specifica sintonia con la radicalità cristiana; mette dunque in luce una collocazione che rende la teologia irrinunciabile per la comunità ecclesiale e porta a denunciare come illecito, per quanto spesso ammantato di benevolenza, ogni tentativo di riduzione del sapere teologico a una funzione immediatamente conveniente, che offuschi dunque la sua qualità critica.
Sembra fruttuoso fare riferimento – nella speranza di non rasentare la banalità della didascalia – a quanto la filosofia contemporanea descrive attraverso la categoria di «inoperosità»: è propria e qualificante dell’essere umano la possibilità di un agire che non si esaurisce né trova la propria ragion d’essere nella realizzazione di un’opera, un fare che non si riduca alla logica del compimento che si conclude nello scopo.
Questa categoria (dalla quale la fede cristiana non è certo distante, basti pensare al ruolo centrale della liturgia, che Romano Guardini ha sintetizzato come opera «fine a sé») non ha solo carattere ontologico ed estetico, dal momento che quelle due dimensioni racchiudono una imprescindibile caratterizzazione politica: l’individuazione della possibilità inoperosa apre a un’interpretazione della realtà che fuoriesce dal canone funzionalistico, ultimamente orientato a logiche di mercato e di potere disumanizzanti.
L’interruzione della centralità della produzione non corrisponde certo alla rinuncia dell’impegno, né all’abdicazione dal coinvolgimento in proprio in favore del mero spontaneismo, ma alla necessaria presa di distanza rispetto alla realizzazione, qualora questa corrisponda al semplice raggiungimento di uno scopo finito, ottenendo piuttosto la ridefinizione del legame comunitario che ne consegue.
In particolare, in un suo saggio, Giorgio Agamben considera esplicitamente la caratterizzazione inoperosa dello studio[1], descrivendola a partire dal nesso che nella tradizione ebraica si istituisce con il Talmud e sottolineandone la paradossalità: la fatica dello studioso è generativa solo nella misura in cui accolga l’irriducibilità a una fine definita, quindi all’assenza di una meta predefinita o della risoluzione in una realizzazione compiuta e gratificante.
A servizio del vangelo
Le qualità appena indicate possono applicarsi senza sforzo allo specifico della ricerca teologica, fungono anzi da criterio di verifica della sua autenticità. Insistere sulla forma inoperosa della teologia, conseguente alla sua preservazione come disciplina irriducibile a una tecnica, corrisponde già ad attribuirle legittimità in ordine all’edificazione della Chiesa, in quanto è istanza che si comprende come alternativa rispetto alla realizzazione mondana e che rifiuta la mera consolazione del risultato.
Dunque, l’opzione per lo studio e la professione teologici dovrebbero riconoscersi con agevole consequenzialità come occasione testimoniale, grazie alla quale cristiani e cristiane, mettendo a frutto qualità proprie ed esponendole all’affinamento proveniente dal confronto e dall’apprendimento, hanno l’opportunità di destinare la loro esistenza e il frutto della loro fatica a una mediazione necessaria, accanto a tutte le altre forme, anonime o istituite, di servizio al vangelo.
Risulta altrettanto evidente il motivo per il quale sia opportuno vigilare costantemente per evitare una riduzione funzionalistica dell’impresa teologica, che la interpreti solo a partire dall’effetto di cui può favorire il conseguimento. Il rischio che lì si annida si fa esplicito nella definizione snaturante di un sapere che si potrebbe particolareggiare a partire da coloro che vi si possano dedicare e delle mansioni loro riservate (pastorali, didattiche, di ricerca), come fosse possibile identificare aprioristicamente a chi competa la sua realizzazione, decretando di fatto la quasi esclusione di molti e molte, secondo logiche del tutto estranee a un autentico mandato ecclesiale e a un competente discernimento intellettuale[2].
Responsabilità
Ciò non significa vagheggiare un’attività solitaria, disancorata dalla concretezza, il cui nucleo gratuito avvallerebbe la mancanza di organizzazione e la trascuratezza in ordine ai mezzi per sostenerla. È anzi la consapevolezza della vulnerabilità di quel sapere a richiedere una cura ulteriore in ordine alla sua tutela e alla sua configurazione[3].
Inoltre, l’ormai guadagnata coscienza della benefica interazione con i vari saperi con i quali la teologia si confronta può sfociare anche in una verifica del livello dell’insegnamento che viene offerto e delle reali possibilità che le istituzioni teologiche garantiscano spazio per la ricerca, senza relegarlo alla libera iniziativa e alla buona volontà dei singoli.
I frutti del confronto con altre discipline non possono infatti limitarsi alla condivisione di contenuti, ma implicano anche una sincera presa di coscienza circa le metodologie didattiche e docimologiche[4], così come dell’importanza attribuita alla produzione innovativa e alla definizione di una comunità accademica ben organizzata.
Il rigore implicato dalla teologia non è alternativo alla passione e al fascino che essa suscita, né il servizio che essa rende alla fede della Chiesa può venire impoverito affrontandone le attuali difficoltà con strumenti accidentali, timorosi del mutamento di prospettiva che essa implicherebbe. Il patrimonio con il quale i credenti contemporanei si possono ancora confrontare suscita al contrario il desiderio per una trasmissione del sapere incapace di accettare la mediocrità.
Il tempo della responsabilità corrisponde irrevocabilmente alla rinuncia di questa visione o può ancora realizzarsi in un impegno radicale perché parlare di teologia non diventi, a breve, solo una nostalgia?
[1] G. Agamben, Idea dello studio, in Id., Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 20132, pp. 43-46.
[2] Per una efficace sintesi, che in particolare considera la stortura implicata dal «doppio binario» degli studi teologici, cfr. M. Mariani, Verso dove? Lo studio della teologia in Italia, «Il Regno. Attualità» 10 (2018), pp. 305-315.
[3] Come è già stato notato con un riferimento – tutto fuorché estemporaneo – alla condizione femminile, la mancanza di struttura e lo spontaneismo, lungi dal consentire un consolidamento creativo dell’istituzione e una partecipazione plurale più consistente, non fanno altro che rafforzare l’esclusione di chi già manca di coinvolgimento: cfr. Jo Freeman, The Tyranny of Structureleness, «The Second Wave» II-1 (1972), pp. 20-33.
[4] In questa direzione è certo lucido e costruttivo il documento promosso dall’Associazione Teologica Italiana, Una proposta per il ripensamento integrato degli studi teologici in Italia. Il percorso lì suggerito, teso a restituire dignità e praticabilità alla formazione teologica, potrebbe forse insistere con più coraggio su una forma di sapere connotato da rigore scientifico (per esempio, mentre si propone un piano di studi sempre più somigliante al normale percorso delle università laiche, si dimentica di attribuire peso specifico alla tesi di laurea, la prima occasione grazie alla quale lo studente può confrontarsi con uno studio che non corrisponda al mero apprendimento di contenuti, ma a un lavoro di ricerca).
Solo per segnalarvi questo: dopo una vita spesa anche, per molti anni, nell’impegno politico amministrativo (consigliere comunale, assessore e poi sindaco del mio paese -Carugate, MI- poi, per anni, consigliere della Provincia di Milano e, infine, presidente del relativo Consiglio), conclusa, per mia scelta, l’esperienza politica, da “pensionato”, per pentirmi -dico sempre come battuta- dei miei “peccati”, appunto, di politico mi sono dato agli studi teologici presso l’apposita facoltà dell’Italia settentrionale in Milano, ottenendo, dopo dieci anni di fatica (me la sono, evidentemente, presa con comodo), vale a dire tre anni fa, allora 76enne, ho ottenuto, “Magna cum laude”, il baccellierato in Teologia, appunto. Ciò detto, cosa voglio aggiungere? Questo; che pur avendo “gustato” sino in fondo la suddetta esperienza, non ho difficoltà ad accettare i rilievi critici d ‘ordine generale, sul tema, di Cittadini.
A me pare che un problema non ben messo a fuoco sia dato dallo stato della teologia in quelle università dove è possibile che la teologia venga insegnata, ossia le università cattoliche. Perché in questi casi sia risorse di ogni tipo sia dialogo tra diversi saperi ci possono essere, anzi devono esistere. In Italia, a prescindere dal fatto che tanto docenti di teologia nelle università cattoliche siano degli ottimi docenti a fronte di una presenza esigua di docenti incapaci e inetti (come peraltro in qualsiasi ambito del sapere), la teologia stenta a trovare una sua collocazione. Infatti non esistono Facoltà di teologia nelle università cattoliche in Italia e questo non permette di elaborare quel senso critico della fede lì dove il gioco sarebbe facile per tantissimi motivi. Francamente tutto ciò io lo trovo molto triste.