Frammenti sulla Chiesa /1. Ascoltare il vissuto

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Prosegue la nostra collaborazione di don Massimo Nardello, presbitero e teologo modenese. Dopo aver sviluppato negli ultimi anni alcuni spunti presi da due testi di Yves Congar (Vera e falsa riforma nella Chiesa e Credo nello Spirito Santo), quest’anno propone la rubrica dal titolo «Frammenti sulla Chiesa» facendo riferimento al testo di J.M.-R. Tillard, Chiesa di chiese (1989)

Quando si accosta un testo recente di ecclesiologia, soprattutto se di taglio specialistico, si può essere sorpresi dalla molteplicità delle questioni che sono affrontate al suo interno e soprattutto dalla loro complessità.

Se non stupisce che le forme articolate di sapere non siano immediatamente accessibili a chiunque, ma richiedano un lungo percorso di apprendimento per poter essere comprese, spesso ci si chiede perché questo debba valere anche per la teologia della Chiesa, che, almeno a prima vista, pare essere qualcosa di molto semplice.

In realtà, le cose non stanno così, e questo già nel Nuovo Testamento e nell’età patristica. Soprattutto, poi, le questioni teologiche e le sfide culturali che sono emerse nell’arco del II millennio hanno reso necessario lo sviluppo di una comprensione ben più sofisticata della realtà ecclesiale volta a custodirne la singolare identità.

L’importanza del vissuto ecclesiale

È vero, però, che la riflessione teorica sul mistero della Chiesa, per quanto necessaria, dovrebbe in qualche modo lasciarsi normare anche dal vissuto ecclesiale, evitando di imbrigliarlo in categorie concettuali troppo rigide. In fondo, nei primi secoli, ci si è mossi prevalentemente in questo modo.

Riferendosi proprio a questo periodo, il domenicano canadese J.M.-R. Tillard, nella sua opera Chiesa di chiese, che sarà oggetto della nostra attenzione in questa serie di articoli, scrive:

«L’identità della Chiesa, quando si imporrà, si affermerà più mediante la vita che non mediante testi ufficiali. La leggiamo in filigrana nelle liturgie, nelle catechesi, nelle omelie dei padri, negli atti dei martiri; traspare dai dibattiti sinodali; si manifesta nel fatto che tutte le Chiese riconoscono la propria fede nel canone delle Scritture. Si sente sempre che è un fatto di esperienza di cui non ci si preoccupa di elaborare la teoria. L’essere ecclesiale è ciò che si attualizza nella confessione della medesima fede e nella celebrazione dei medesimi sacramenti, nella medesima resistenza alle deformazioni dell’insegnamento degli apostoli, nella pratica della medesima carità, nei medesimi frutti di santità che trovano il loro culmine nel martirio» (J.M.-R. Tillard, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 9-10).

Dunque, potremmo dire che vi è una sorta di circolarità tra l’esistenza ecclesiale concreta e la riflessione teologica. Quest’ultima deve promuovere nel popolo di Dio il radicamento e l’approfondimento di idee e di stili di vita evangelici, cioè espressioni della Tradizione viva della fede, ma deve pure lasciarsi orientare dalla prassi genuina delle comunità cristiane. Per usare un’immagine, potremmo dire che la teologia, in modo simile al magistero, ha la stessa funzione degli argini di un fiume, quella di consentire all’acqua di scorrere in avanti compatta senza disperdersi nel territorio.

Nello stesso tempo, però, la stessa teologia deve lasciarsi plasmare dal flusso del vissuto ecclesiale, un po’ come l’acqua corrente tende con il tempo a modificare gli argini che la contengono. Insomma, occorre evitare di costringere la vita della Chiesa nelle teorie teologiche, ma restare disponibili a rimettere in discussione tali teorie a fronte di prassi ecclesiali sfidanti, a condizione che queste ultime siano comunque evangeliche.

Un esempio particolarmente significativo di questa problematica è quello della recezione ecclesiale. Con questo termine si indica la capacità di una comunità cristiana di fare proprio un bene spirituale generato da altre comunità locali o dall’intera comunione delle Chiese, come un sinodo.

Alcune teorie teologiche sembrano supporre che, quando si sviluppa un bene di questo genere, le Chiese locali, sotto la guida dello Spirito, siano portate naturalmente a recepirlo, cioè a farlo proprio con tutta la creatività di cui sono capaci, se non sono chiuse all’azione divina.

Lo scarso impatto dei sinodi diocesani

In realtà, la vita reale della Chiesa non funziona in questo modo, come – a mio giudizio – dimostra l’impatto pastorale molto lacunoso dei sinodi diocesani che sono stati celebrati nei decenni passati. In effetti, a complicare la teoria teologica della recezione sopra esposta vi sono le dinamiche organizzative delle comunità cristiane, che – come in ogni organizzazione complessa – rendono estremamente difficile l’assunzione di nuove prospettive.

Dunque, la scarsa recezione di un bene ecclesiale come un sinodo non dipende necessariamente dalla indisponibilità dei cristiani – o dei pastori – ad accogliere l’azione dello Spirito, ma può essere determinata dall’assenza di percorsi di accompagnamento delle comunità che siano capaci di attivare al loro interno degli effettivi processi di cambiamento.

Del resto, mi sembra che oggi nessuna organizzazione complessa si illuda di rinnovarsi semplicemente ascoltando tutti e poi chiedendo alla leadership di turno di prendere delle decisioni. È a quel punto, infatti, che inizia la fase più lunga e complessa del percorso di riforma, il cui esito non può essere dato per scontato, che è quella della promozione della recezione delle idee discusse e delle scelte operate nel concreto del vissuto organizzativo.

In fondo, nella Chiesa questo è il compito prioritario dei pastori, i quali, a differenza dei teologi, non possono permettersi semplicemente di suggerire delle idee ben argomentate e avvincenti, ma devono farsi carico della recezione degli orientamenti ecclesiali da parte delle loro comunità.

Si tratta di un servizio molto umile, eroico e affascinante come quello di un genitore, che non viene svolto né volentieri né adeguatamente da chi agisce preferibilmente a telecamere accese. Esso, infatti, richiede la capacità di dedicare molto tempo all’umile e nascosto incontro personale muniti della pazienza infinita del seminatore.

È questa la sfida che attende soprattutto i pastori nella futura fase post-sinodale della Chiesa.

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