Quando, nelle comunità cristiane, si conta il numero dei partecipanti alle celebrazioni liturgiche e alle iniziative formative, talvolta si viene presi da un senso di sconforto. Si è costretti a prendere atto che l’ampia frequentazione delle parrocchie, delle associazioni e dei movimenti che ha caratterizzato il vissuto ecclesiale dei decenni passati ha lasciato il posto a una partecipazione molto meno diffusa e motivata.
Anche chi gravita oggi nel contesto ecclesiale, poi, offre più difficilmente un supporto economico significativo e la disponibilità a svolgere dei servizi di un certo rilievo.
Vivere il cambiamento
Questo cambiamento rende incerto il futuro di diverse iniziative pastorali, anche di quelle che hanno fatto la storia di molte comunità, come pure il mantenimento dei tanti edifici che, a suo tempo, hanno svolto una preziosa funzione di supporto all’attività formativa.
In questa situazione critica è importante ricordare che le comunità cristiane non sono chiamate a salvare l’umanità, ma semplicemente ad essere strumento dello Spirito che agisce al loro interno e, anche attraverso di esse, nel mondo intero.
È questo Spirito, non la Chiesa, che rende efficace l’azione salvifica realizzata da Gesù in ogni luogo e in ogni persona. Le comunità devono semplicemente mettersi al servizio di questa sua azione nei limiti delle loro possibilità.
A questo riguardo, così scrive il padre J. M.-R. Tillard: «Nel suo radicamento più profondo, quello che la collega al mistero, la Chiesa è quindi carismatica […]. Per questo, poiché lo Spirito Santo sta alla sua origine e costituisce il suo ambiente, non può essere definita unicamente, e neanche principalmente in funzione dell’istituzione che – come ogni comunità desiderosa di rimanere nella pace e di durare attraverso le età – essa esige. Non può fare a meno di una legislazione. E tuttavia in essa è lo Spirito che comanda e garantisce tutto. […] Quello che la Chiesa porta di struttura si giustifica solo in relazione al servizio dell’azione dello Spirito, sia che si tratti di sacramenti, di ministero, di regolamentazione canonica». (J. M.-R. Tillard, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 67).
Cogliere la voce dello Spirito
Se gli elementi costitutivi della Chiesa, come i sacramenti e il ministero, hanno valore solo in quanto sono funzionali all’azione dello Spirito, a maggior ragione questo varrà per quelle strutture e iniziative che, di natura loro, sono ben meno importanti. Se queste realtà vengono meno, lo Spirito ne saprà suscitare delle altre per continuare a svolgere la sua azione di salvezza con modalità diverse.
Questa visione delle cose sposta l’attenzione delle comunità dal bisogno di resistere a qualsiasi cambiamento per mantenere tutto quello che si faceva in passato alla necessità di cogliere la voce dello Spirito e di assecondarla.
La prima dinamica è fonte di frustrazione, perché spesso pone obiettivi impossibili da raggiungere, mentre la seconda è un peso leggero. In qualunque circostanza, infatti, è possibile mettersi in ascolto dello Spirito e obbedirgli, perché egli apre sempre percorsi di vita che sono realisticamente possibili nella situazione in cui ci si trova.
Dare il primato all’ascolto dello Spirito, poi, induce a considerare con attenzione i membri delle comunità cristiane, valorizzando le loro caratteristiche umane – il genere, le competenze, l’età ecc. – ma soprattutto i carismi che essi hanno ricevuto nel battesimo. In effetti lo Spirito si serve più delle persone che degli edifici o delle iniziative pastorali. Dunque, per svolgere la sua missione, una comunità deve anzitutto scoprire i carismi dei suoi membri e fare in modo che essi li possano mettere a servizio in modo armonico.
Purtroppo, talvolta nella Chiesa la capacità carismatica dei fedeli è ampiamente misconosciuta, al punto che ci si dispera se non è più possibile portare avanti le stesse attività dei decenni passati, ma non ci si fa problema ad azzerare la soggettualità delle persone della comunità, vedendola come un supporto meramente opzionale al ministero dei pastori.
Non di rado, questa dinamica distruttiva tocca in modo particolarmente drammatico le donne.
Dunque, il compito più importante di un pastore non è quello di mantenere a qualunque costo le tradizioni pastorali della sua comunità, come se fosse questa la sfida su cui deve misurarsi e da cui dipende il suo successo pastorale, ma quello di conoscere le persone che ne fanno parte, di coglierne i carismi e di aiutarle a renderli operativi, sia nel servizio ecclesiale che nell’animazione evangelica della realtà temporale.
A quel punto, le iniziative pastorali potranno essere ripensate a partire dai doni carismatici effettivi dei credenti, anziché farli rientrare a qualunque costo dentro a ciò che si è sempre fatto.
E le piccole comunità?
Questo, ovviamente, pone il problema di comunità numericamente modeste che non hanno una sufficiente dotazione carismatica per vivere la missione ecclesiale nella sua integralità. Pensare alla Chiesa nei termini indicati potrebbe aiutare queste comunità a capire che non possono limitarsi ad esigere l’eucaristia domenicale come se questa fosse la condizione sufficiente per la loro sopravvivenza, e che devono invece integrarsi in comunità più ampie valorizzando i propri carismi, perché proprio in questo modo non perderanno minimamente la loro soggettualità ecclesiale.
In conclusione, il vero problema che la Chiesa deve affrontare nel nostro tempo, come del resto in ogni fase della sua storia, è quello di ascoltare la voce dello Spirito di Gesù e del Padre.
La capacità di far fronte alle difficoltà date dalla cultura secolarizzata e dal crescente disinteresse per l’esperienza cristiana nel mondo occidentale dipende ultimamente da tale ascolto.