Già da diversi mesi l’umanità sta facendo i conti con due conflitti particolarmente drammatici in Ucraina e in Palestina. Questi eventi bellici, pur non essendo gli unici nello scenario internazionale, creano forti preoccupazioni sia tra i governi sia nei singoli individui per la loro possibile intensificazione e allargamento, e soprattutto per il fatto che coinvolgono degli Stati che sono dotati di armi atomiche.
Ricercare vie di pace
In questa situazione di forte instabilità e di incertezza per lo stesso futuro dell’umanità, le comunità cristiane sono chiamate ad unirsi a tutti coloro che, religiosi e non, sono desiderosi di promuovere la pace e ricercano vie possibili per realizzarla.
Senza nulla togliere a questa doverosa partecipazione a progetti e percorsi di riconciliazione portati avanti insieme a istituzioni e persone di buona volontà, i cristiani sono chiamati anzitutto a riconoscere e valorizzare il loro modo specifico di contribuire alla pace. Esso nasce dal modo tipicamente evangelico di leggere l’attuale condizione dell’umanità, che, quindi, solo coloro che hanno fede in Cristo possono fare proprio.
A questo riguardo, parlando dell’identità della Chiesa, il padre J.M.-R. Tillard scrive:
«La Chiesa in questo mondo non è nient’altro che la porzione concreta di umanità inscritta nello spazio della riconciliazione aperto dallo Spirito che prende la tragedia umana e la immerge nella potenza di comunione e di pace della croce perché, nonostante “i Principati e le Potestà, i dominatori di questo mondo di tenebra, gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12), il disegno del Padre vada a buon porto. […] Allora l’impegno cristiano trova già il suo senso specifico. E l’appello a “conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace” (Ef 4,3), orchestrato dall’allusione all’“unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio” (Ef 4,13) mediante una vita “nella carità” (Ef 4,15) e nel perdono vicendevole (Ef 4,32), assume la sua vera dimensione». (J.M.-R. Tillard, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 62).
Questo passaggio del domenicano canadese ci ricorda che, dal punto di vista cristiano, la pace, intesa non semplicemente come assenza di guerra ma come esito di una vera relazione con chi è diverso da sé, è già stata realizzata nella croce di Cristo. La sua fiduciosa obbedienza filiale nei confronti del Padre fino alla morte di croce ha già realmente cambiato questo mondo, sconfiggendo le potenze demoniache e le divisioni distruttive che esse promuovono.
Questa è la motivazione tipicamente cristiana della speranza, intesa come espressione della certezza che il regno di Dio è già iniziato in questo mondo e che il suo percorso verso il compimento escatologico non può essere arrestato.
Alla fine, il Signore risorto ritornerà nella gloria, e ogni logica e potere divisivo e disumanizzante cesserà di esistere.
Lo Spirito del Signore risorto attualizza già nel tempo presente questa condizione di riconciliazione e di pace all’interno dell’intera umanità.
Prima di tutto nella Chiesa
Secondo Tillard, però, è nella Chiesa che questa sua azione è efficace nel modo più pieno. Per questo le comunità cristiane possono essere intese come quella parte di umanità che è liberata dalla tragedia della non-comunione, sia con Dio sia al proprio interno, e introdotta nella condizione della riconciliazione.
Dunque, la Chiesa promuove la pace anzitutto nella misura in cui vive questa sua identità comunionale e ne annuncia al mondo il fondamento nel dono della vita da parte di Gesù, divenendo così segno e strumento della sua salvezza.
Dunque, l’impegno delle comunità cristiane per la promozione della riconciliazione nel mondo, anche se difficilmente porterà all’identificazione di strade originali per superare i singoli conflitti, potrà comunque sempre esprimersi almeno nella custodia della pace al proprio interno.
Questo è il modo tipicamente cristiano per rendere presente nel mondo la comunione che viene da Dio, sebbene l’efficacia di tale azione per la concordia dell’intera umanità non possa essere verificata sul piano empirico né avallata da analisi politiche e sociali, ma solo creduta per fede.
La visione del domenicano canadese, però, pone una sfida molto complessa. In effetti, se, nelle comunità cristiane, tutti sono concordi sulla necessità di far cessare le guerre presenti nel mondo, vi sono opinioni molto diverse sul modo di gestire quelle interne.
A fronte della diversità che caratterizza i membri dei presbiteri, delle parrocchie, degli istituti di vita consacrata, delle associazioni e dei movimenti, è molto forte il rischio di costruire dei muri per selezionare quelle persone che si ritengono più mature o con cui ci si sente maggiormente in sintonia, e di escludere tutte le altre.
La presa di distanza da chi è ritenuto diverso o inutile per la propria vita, che sul piano macroscopico può generare, alla lunga, scenari bellici, è una dinamica che molto più in piccolo è ben presente anche nelle comunità cristiane, e che non è sempre adeguatamente avversata.
Dunque, la promozione della pace da parte dei cristiani, per non ridursi ad un vuoto esercizio di retorica, deve esprimersi anzitutto nell’impegno costante per abbattere i muri che li separano all’interno delle loro comunità, cioè per imparare faticosamente a camminare con chi c’è, senza imporre tante selezioni di tipo qualitativo.
Se il buon senso suggerisce che non sia possibile realizzare qualcosa di significativo con persone che non si sono scelte, occorre ricordare che la Chiesa, in quanto segno del regno dei cieli in questo mondo, funziona con una logica diversa.
Lo stile di creare ponti con qualunque persona si incontri sul proprio cammino, che in alcune organizzazioni potrebbe portare al collasso, nelle comunità cristiane rappresenta la via per accogliere il dono della comunione realizzato nella croce di Cristo e far progredire misteriosamente anche l’azione pacificante dello Spirito nell’intera umanità.