«Io sono cristiano perché credo fermissimamente ciò che dice Pietro nel libro degli Atti: che non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù̀ Cristo. Chiedo perdono, ma per meno di questo io non riuscirei a essere cristiano». A partire da queste parole di Mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino, il professor Vito Mancuso coglie l’occasione per una importante invettiva contro l’esclusivismo della Chiesa cattolica – peraltro superato da successive prospettive teologiche – che per troppo tempo ha legato la salvezza d’ogni persona al riconoscimento del solo nome di Cristo e del valore insuperabile della sua rivelazione, quando invece avrebbe potuto aprire ad altre vie di salvezza secondo quella prospettiva plurale che è propria e degna delle società moderne.
La polemica
Le parole di Mons. Repole dalle quali Mancuso prende spunto sono parte di una più ampia riflessione sulla presente crisi del Cristianesimo che ha nelle chiese vuote il suo sintomo più vistoso. Se, da una parte, l’Occidente è in profonda e continua ricerca di senso e vi è una diffusa e condivisa domanda di spiritualità, dall’altra, la Chiesa non riesce più ad intercettare tale sete e la causa di questa progressiva estraneità della compagine ecclesiale dalla vita delle persone è indicata da Mancuso proprio nel fatto che fino ad ora ha proposto per questa sete una terapia sbagliata: «l’idea cioè che “in nessun altro c’è salvezza”» al di fuori di Cristo.
«A un mondo che cerca unità, dialogo, pluralismo, – continua Mancuso – viene di nuovo offerto quell’esclusivismo teologico che lungo i secoli ha prodotto divisioni, persecuzioni, e non di rado violenze e guerre di religione». Bisognerebbe invece smarcarsi da quell’esclusivismo e percorrere la via del bene indicata da Gesù stesso in Matteo 25,34-35: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché́ ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto”. La salvezza, infatti, secondo questa prospettiva, non è solo per coloro «che si sono appellati al nome di Gesù, ma per coloro che hanno praticato il bene: essa cioè discende dall’etica, non dalla religione, ed è quindi universale», conclude Mancuso.
Pertanto è sbagliato insistere e limitare l’accesso alla salvezza solo a chi confessa il nome di Gesù e ha fede in lui. Basta piuttosto la pratica del bene come indicato dall’Evangelo stesso che, peraltro, è già un tratto comune di culture e religioni non cristiane. Mancuso inoltre, non senza una certa faziosità, chiosa sull’espressione di Repole «chiedo perdono» perché in essa ravvisa un’implicita ammissione di colpa del pastore di Torino, ma più in generale della Chiesa intera, per aver insistito nell’imporre qualcosa di indebito, pesante, inutile cioè l’obbligo per tutti di passare attraverso Gesù per essere salvati.
Ora, vorrei proporre alcune considerazioni non tanto in risposta alle parole del prof. Mancuso, quanto per fare in modo che il dibattito non si nutra solo della contrapposizione o dell’antagonismo. In questo senso, vorrei ovviare al rischio di polarizzare il confronto o scivolare nel politicamente corretto che cerca sponde in quella diffusa postura anticlericale, antidogmatica e liberale che finisce col mettersi a servizio di un certo mainstream del pensiero, delle pratiche sociali e delle vendite.
Ci muoveremo secondo tre traiettorie, quella dell’aggiornamento teologico, quella del riconoscimento teologico e quella dell’incontro teologico.
Aggiornamento teologico
Quanto all’aggiornamento teologico bisognerebbe prendere atto dell’evoluzione della teologia delle religioni verso una comprensione positiva delle altrui esperienze religiose che ci ha aiutati a superare le restrizioni dell’esclusivismo di cui parla Mancuso e che per secoli ha segnato l’avventura missionaria.
In Nostra Aetate, documento del Concilio Vaticano II, al n. 2, si legge: «La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini». Mentre in uno degli ultimi testi, il Documento sulla fratellanza umana, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, si afferma che
«ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano». [1]
Basterebbero questi testi per riconoscere un cambio di paradigma anche se si deve ammettere che questa rinnovata presa di coscienza circa il valore delle esperienze religiose altrui non rappresenta un’ingenua apertura.
Nel documento della Commissione Teologica Internazionale, Cristianesimo e Religioni, al n. 81, si legge infatti: «Si riconosce che nelle diverse religioni si trovano raggi della verità che illumina ogni uomo (cf. Nostra aetate, n. 2), semi del Verbo (cf. Ad gentes, n. 11); che per disposizione di Dio si trovano in esse cose buone e vere (cf. Optatam totius, n. 16); che si trovano elementi di verità, di grazia e di bene non soltanto nei cuori degli uomini, ma anche nei riti e nei costumi dei popoli, anche se tutto dev’essere “sanato, elevato e completato” (cf. Ad gentes, n. 9; Lumen gentium, n. 17)».
Se, da una parte, queste ultime battute possono sembrare eccessive e lesive delle esperienze religiose altrui, ancora bisognose di essere sanate, dall’altra, sono mosse dalla consapevolezza che la verità manifestatasi in Cristo porta con sé una novità che deve essere necessariamente indagata e non troppo frettolosamente appiattita dal solito qualunquismo omologante. Pare infatti che vi sia una tendenza a de-assolutizzare l’evento-Cristo quasi fosse la più indebita e anti-razionale tra le affermazioni di fede, da riportare al più presto nei limiti della sola – soffocante – ragione.
Riconoscimento teologico
Eccoci dunque alla seconda traiettoria, quella del riconoscimento teologico. «Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati», si legge in Atti 4,12. E questo nome è quello di Gesù.
Una simile dichiarazione di fede che prorompe dal cuore dell’apostolo Pietro non è diversa da quella del centurione romano nel vangelo di Marco che, sempre di Gesù, «vistolo spirare in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). Ora, solo Gesù è spirato in quel modo e solo di lui si può dire che era Figlio di Dio. Può essere creduto o meno, ma quella vicenda, da ché è accaduta, si è imposta come «un nuovo evento di Dio». [2]
Dio e quel Crocifisso sono della stessa sostanza. Ripeto, può piacere o meno, può essere creduto o meno, ma si tratta di un annuncio che non ha precedenti e che apre a una speranza unica: quella di un Dio, Padre, che risponde all’obbedienza estrema del Figlio crocifisso «generandolo a una pienezza di vita che supera la morte e rimane per sempre».
Che l’uomo Gesù fosse anche Figlio di Dio e che in lui l’umano e il divino si fossero alleati con un’intensità tale da condizionarsi e determinarsi a vicenda, resta l’impensato, l’inaudito, l’indeducibile che solo in Gesù è accaduto.
Da quel momento in avanti l’umano e il divino non possono essere pensati separatamente. Anzi, la vicenda di Gesù di Nazareth è l’attestazione definitiva che in lui e grazie a lui l’umano fa una differenza in Dio perché concorre a determinare la sua identità e il suo stesso rivelarsi al mondo.
È questo riscatto dell’umano, che solo in Gesù diviene componente intrascendibile della sua identità di Figlio di Dio, a fare dell’evento-Cristo qualcosa di necessario e – nondimeno – sempre subordinato alla libertà di ciascuno.
Incontro teologico
Da ultimo, ci rimane la traiettoria dell’incontro teologico o, detto altrimenti, dell’incontro tra popoli, culture e dunque universi religiosi fatti di racconti, tradizioni, teologie. È però necessario che accanto all’interesse meramente culturale si aggiunga una reale passione per la ricchezza – e per i limiti – di questi universi, umani e divini.
In questo senso, si raccomanda di indagare simili patrimoni dell’umanità non solo attraverso lo studio nelle biblioteche, ma anche tramite gli incontri e le convivenze di vita, possibilmente prolungate, in quegli infiniti, affascinanti e sorprendenti melting pot d’ogni dove che costellano la vita di un mondo plurale e di una Chiesa in uscita.
Per cominciare a sentire che, da più parti, non solo dai mille fronti bellici di questo tempo, ma anche dal profondo di milioni di cuori, palpita una speranza alla quale il profeta Isaia mette voce e parole: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi»! (Is 63,19).
Per meno di questo, che grazie a Dio-Padre è già avvenuto in Cristo-Figlio, non sarei cristiano e non starei qui in Cambogia! Anzi, chiederei perdono se dovessi testimoniare qualcosa o qualcuno che fosse meno di questo.
[1] Francesco – Ahmad Al-Tayyeb, Documento sulla fratellanza umana per la pace e la convivenza comune, n. 13 (corsivo nostro). Per l’approfondimento sui contenuti, sulla recezione e sulle promesse, cf. L. Basanese – D.S. Cucarella (a cura), Il Documento sulla fratellanza umana: una riflessione interdisciplinare, Gregorian & Biblical Press, Roma 2022.
[2] Cf., A. Cozzi, Editoriale, in A. Caccaro, L’uomo fa una differenza in Dio. La questione cristologica in J. Dupuis, Brescia 2024, in via di pubblicazione.
- Pubblicato sul blog Vino Nuovo, 4 settembre 2024. Padre Alberto Caccaro, classe 1968, è missionario del Pime in Cambogia dal 2001.
Le parole pronunciate recentemente da papa Francesco nel suo viaggio in Asia hanno risvegliato in me il ricordo dell’impressione entusiastica, che sessanta anni fa mi aveva suscitato l’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII. In contesti geo-politici, nei quali proprio i fondamentalismi religiosi possono attizzare e alimentare devastanti tragedie umane, l’attuale pontefice spende le sue parole a favore della convivenza pacifica nel rispetto reciproco, senza gare e senza risse, fra tutti gli «uomini di buona volontà». Perciò, visti gli attacchi e le offese rivoltegli anche in questa occasione dai settori più tradizionalisti, e nonostante l’interpretazione riduttiva che il domenicano Giovanni Cavalcoli ha inteso dare alle sue parole, vorrei esprimere la mia gratitudine a papa Francesco per la sua adesione alle aspirazioni più nobili dell’umanità.
Proprio per il suo esempio così alto, rimanendo in argomento e tornando alle nostre contrade, invece vorrei esprimere il mio allarmato stupore di fronte alla non-conoscenza (o forse al rifiuto?), che, appena poche settimane prima, con la sua decisa affermazione dell’esclusività del cristianesimo per conseguire la salvezza eterna il presule di Torino aveva palesato nei confronti di due grandi capolavori letterari, fondativi della nostra cultura civile. Mi riferisco alla novella delle Tre anella di Giovanni Boccaccio (Decameron, I-3; ripresa alcuni secoli dopo dal tedesco Lessing) e alla commedia Filomena Marturano di Eduardo De Filippo. Nella prima, i figli sono amati egualmente da Dio-Padre, nella seconda i figli sono amati egualmente da Dio-Madre, in ambedue i fratelli si devono amare nel comune e identico amore di Dio per tutti loro. Ma come si può contribuire a costruire la convivenza pacifica e armoniosa in una comunità civile pluralista, sostenendo con Repole che solo lui e i fedeli della sua Chiesa sono in possesso della «Verità» e solo loro otterranno la «Salvezza» eterna, mentre a tutti gli altri toccherà la dannazione eterna? E inoltre, nella nostra società ormai prevalentemente secolarizzata come si può sedere con simili premesse tutti insieme allo stesso tavolo per discutere fra «pari» (uomini e donne, fedeli di tutte le religioni rivelate e/o tramandate, agnostici e atei) e costruire pazientemente e nel rispetto reciproco il futuro per noi e per i nostri discendenti?
Sono felice di aver incontrato il buddhismo, via di serenità e pace per me e nel rapporto con gli altri. Apprezzo moltissimo le parole di Papa Francesco, uomo di grande sensibilità e intelligenza, del quale ho grande stima.
Gesù Cristo, secondo papa Francesco, non è affatto l’unica Via per arrivare al Padre Celeste.
Egli, il papa, ha testualmente dichiarato: ““Tutte le religioni sono percorsi per raggiungere Dio. Esse sono, per fare un paragone, come differenti linguaggi, differenti dialetti, per arrivare a quell’obiettivo. Ma Dio è Dio per tutti. Se tu incominci a combattere sostenendo ‘la mia religione è più importante della tua, la mia è vera e la tua non lo è’, dove ci porterà tutto ciò? C’è un solo Dio, e ognuno di noi possiede un linguaggio per arrivare a Dio. Alcuni sono sikh, musulmani, hindu, cristiani: sono diverse vie che portano a Dio”.
Perciò il cristianesimo è, secondo il papa, un mero fatto culturale equiparabile a tutte le altre religioni.
Chiunque si interroghi oltre contraddice il papa.
Ben comprendo la sua posizione, Adelmo, e non posso darle torto. Dal punto di vista del credente cattolico, che segue la via tracciata dalla dottrina della Chiesa, effettivamente c’è da interrogarsi. D’altra parte quanto dice il Papa non è contestabile in termini ontologici, ovvero possiamo supporre che ad essersi disturbato per noi sia stato un unico dio. Il dio di Abramo, peraltro, vale per lo meno per tre: cristiani tutti (cattolici, ortodossi, protestanti e chi più ne ha più ne metta…), ebrei, musulmani. Diciamo che Francesco ha detto qualcosa che pensiamo quasi tutti nell’intimo, che è ragionevole, ovvero ci sia un unico dio creatore; è politicamente non corretto che a dirlo sia il “capo”, nel nostro caso addirittura vicario della divinità in terra, di una specifica religione. E’ pur vero però che le religioni, se vissute veramente in fede (conosco molti credenti, ma poche persone di fede), sono strumenti di condivisione, non di divisione. La capacità di dividerci, di ottenenbrarci e confonderci la dobbiamo lasciare al diavolo, il divisore per antonomasia. Chi va in senso opposto per me ricerca sempre il bene, in qualche modo. Personalmente, per concludere, sono disposto a scendere dalla roccaforte sulla quale mi hanno insegnato a trincerarmi proprio per cultura conservatrice. Credo che quello che dice il Papa sia vero e credo che i nostri fratelli siano tutti gli esseri umani, che il bene ed il male non abbiano bandiere ed appartenenze e che indipendentemente dalla religione professata, determinata da dove si è incarnati fisicamente e quindi culturalmente, vi sia un percorso per chi ama il prossimo ed uno differente per chi non.
Gentilissimo e carissimo Fabio,
Il mio discorso voleva essere ironico e sottolineare l’assurdità del ragionamento del papa.
Se Cristo non è Dio allora la nostra fede è vana.
Se tutte le religioni sono vere allora nessuna è vera.
Si può benissimo lavorare per la convivenza pacifica di tutte le religioni senza rinunciare a confessare la vera fede nel Dio Trinità.
Il papa invece ci invita a lasciar stare.
E’ veramente dura prenderne atto ma bisogna farlo.
Ma come diceva San John H. Newman: “Sembra, dunque, che vi siano casi estremi nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”.
E’ così, la mia coscienza di Cristiano, di Cattolico, mi impedisce di affermare che Shiva, Budda e Gesù sono uguali.
Il papa invece lo dice tranquillamente.
Carissimo Alberto,
Grazie della tua riflessione. Sono perfettamente sintonizzato con te. qualcosa che fosse meno di Gesù Cristo è senza sapore dopo aver assaggiato Lui. Non l’avessi incontrato, non l’avessi preso in considerazione, sarei andato appresso a qualcun altro o qualche altra cosa, ma dal momento che mi sono imbattuto in Gesù Cristo, non posso che seguirlo. Tradirei me stesso se non lo facessi o mi accontenterei di sapori diluiti. Noi tutti che veniamo sl mondo seguiamo qualcuno o qualcosa: non è proibito accontentarsi, ma una volta assaggiato il vino buono perchè dovrei rinunciarvi? Proprio non posso. È con Lui e per Lui che posso amare gli orfani e le vedove e mettermi al servizio degli altri…ciò non si può fare, gratuitamente, senza di Lui.
Essere buoni o cattivi, di religioni diverse, analfabeti o eruditi non è decisivo: una cosa sola è decisiva e importante: lasciarsi amare dal Padre che ci ama. Questo lo si può fare solo in Gesù Cristo il cui Spirito è nel cuore di tutti, proprio tutti…quando me ne accorgo chiederei perdono se dovessi testimoniare qualcosa o qualcuno che fosse meno di questo…